Fare il mondo con le parole

Intervista con le curatrici della Biennale Donna

Sara Leghissa, Fake uniforms, Marsiglia, 2019. Courtesy l'artista ok
Sara Leghissa, Fake uniforms, Marsiglia (2019); Courtesy l'artista.

Palazzo Bonacossi ospita dal 14 aprile al 30 giugno la XX edizione della Biennale Donna di Ferrara, da voi curata, con l’esposizione Yours in Solidarity – Altre storie tra arte e parola. Da dove nasce questo titolo e perché l’avete scelto?

Sofia Gotti/Caterina Iaquinta: Il titolo della mostra è tratto da un’opera video di Nicoline Van Harskamp del 2011 intitolata proprio Yours in Solidarity. Questo è il saluto che si scambiavano i membri di una rete internazionale di anarchici nelle loro lettere tra gli anni Ottanta e Novanta e che l’artista ha impiegato per realizzare un’opera sulla storia che tiene insieme anarchismo, autodeterminazione e, appunto, solidarietà attraverso lo spettro della politica. Prima che incontrassimo il lavoro di Nicoline, il tema della solidarietà era già emerso come punto di partenza della nostra riflessione in relazione alle urgenze cui dovrebbe rispondere una biennale «femminista» come per definizione lo è la Biennale Donna. Abbiamo sempre e comunque bisogno di riconoscere un allineamento nel femminismo contemporaneo, seppure esso sia frastagliato, composto da visioni e posizioni politiche diverse e divergenti. Senza dubbio la scelta del titolo si è fortificata e amplificata con gli avvenimenti del 7 ottobre che ancora oggi reclamano il bisogno di una solidarietà internazionale nei confronti di coloro che stanno perdendo la vita nel conflitto tra Israele e Palestina. Yours in Solidarity è quindi per noi non solo il titolo della nostra Biennale ma uno slogan, un mantra che ci spinge a sottolineare l’urgenza di un cessate il fuoco dinnanzi ai conflitti bellici che continuano a intensificarsi anche a causa di incongruenti risposte da parte della comunità internazionale. All’interno di questa struttura simbolica e politica generata dal titolo, le opere in mostra ci raccontano dei tanti modi in cui l’arte può rivelare punti di connessione tra contesti reali e vissuti completamente diversi che fanno capo ad un’idea di solidarietà condivisa.

Il tema di questa mostra è la parola, indagata nelle sue molteplici forme: dai taccuini personali ai manifesti urbani, dallo scambio epistolare alla video arte e ai linguaggi del corpo. Come è stato scelto e perché? È possibile istituire un confronto fra l’edizione di quest’anno e Post-scriptum. Artiste in Italia fra parola e immagine curata nel 1998 da Mirella Bentivoglio e Anna Maria Fioravanti?

SG/CI: Questo percorso che descrivi e che vede il rilancio della parola sala dopo sala, artista dopo artista, nasce da una premessa generale: considerare nella stesura del progetto il ventesimo anniversario della Biennale Donna. In questo senso, oltre a pensare uno spazio dedicato interamente all’UDI (Unione Donne in Italia), ente promotore dell’iniziativa dal 1984, abbiamo cercato di includere nel percorso anche la continuità con le passate edizioni. Tra tutte quella che abbiamo osservato con maggiore interesse è stata l’edizione che citi, dove rivive la stessa energia che Mirella Bentivoglio aveva infuso in Materializzazione del linguaggio nel 1978. Da qui alcuni temi e nomi sono emersi quasi naturalmente: il linguaggio, la parola come nuclei della costruzione di relazioni, il loro intrecciarsi all’immagine, a tessuti e fibre a partire dal racconto di sé sempre in rapporto alla pluralità. Amelia Etlinger è stata il punto di partenza per raccontare queste interconnessioni: dal suo celato omaggio alla storia della Biennale nelle molte lettere indirizzate a Mirella Bentivoglio (sebbene l’artista americana non fosse stata inclusa in quella edizione), ai preziosi ricami su tessuto. In queste piccole e misteriose epifanie che sono le sue lettere, si manifesta la parola (nascosta tra frammenti di stoffa, foglie, semi e carte), l’importanza della relazione (con Mirella, sua grande amica), la scoperta continua e il mistero dei legami che si fanno e disfano, come la storia nella quale si inscrivono.

Allestimento della Biennale Donna; Foto di Marco Caselli Nirmal (2024).

La visita si apre con i manifesti di Sara Leghissa e termina col video di Nicoline van Harskamp che dà il titolo alla mostra. Quali scelte critiche hanno guidato la costruzione del percorso espositivo? Quale narrazione ne scaturisce?

SG/CI: L’enfasi posta sulla parola da Sara Leghissa che si conclude, possiamo dire, con una messa in scena di questa nel lavoro di Nicoline Van Harskamp, nel percorso di mostra prende forma di lettera, documenti d’archivio, rimandi all’enunciazione vocale e fisica. Il percorso espositivo, infatti, non è fisso e non si sviluppa da un inizio a una fine prestabiliti. Per progettarlo abbiamo scelto come immagine-guida quella della trama, del tessuto in senso reale e figurato: quello sociale, fatto di pluralità, network, connessioni ma anche legami affettivi e quello fisico fatto di ricami, fili, intrecci e frammenti di stoffe. Per esempio, Nicoline Van Harskamp e Bracha L. Ettinger condividono una certa dedizione all’attivismo politico che risuona nella loro opera in modi diversi Binta Diaw ci racconta, invece, l’oppressione razziale riprendendo discorsi su identità e appartenenza condivisi da Muna Mussie, che individua negli archivi il modo di raccontare storie disperse di comunità diasporiche. Ma potremmo ancora disfare questa trama e trovare nuovi intrecci tra Bracha e Amelia, Nicoline e Sara, Muna e l’archivio UDI ecc…

Le opere selezionate offrono una panoramica della produzione artistica femminile dagli anni Settanta ad oggi, manifestando la ricorrenza del tema del linguaggio attraverso le generazioni. Per quale motivo, secondo voi, questo argomento continua ad essere caro alle artiste?

SG/CI: Credo che nel linguaggio si situino le prime forme di subordinazione legate al genere. Il linguaggio come derivazione di un logos definisce, classifica, determina, in prima istanza, la nostra realtà. È chiaro come con l’esplosione dei movimenti femministi, tra le prime strutture cognitive ad essere attaccate e messa in discussione ci sia stata proprio quella del linguaggio e della parola, o meglio, è proprio attraverso un uso peculiare di questa che si è arrivati all’introduzione di nuove soggettività. Ce lo hanno insegnato Carla Lonzi, Adriana Cavarero, Luisa Muraro e molte filosofe e psicanaliste francesi come Luce Irigaray, Helene Cixous e Julia Kristeva. D’altro canto, la generazione di artiste italiane e internazionali attiva in quel periodo se ne è fatta subito carico, restituendo in varie forme la possibilità di evadere i termini coercitivi della parola come ordine e sottomissione, usando liberamente come linguaggio il suono, il corpo e l’immagine di sé, fuori da qualsiasi percorso la cui genealogia fosse individuabile dentro una struttura binaria. Direi quindi che non è tanto il linguaggio ad essere al centro della produzione artistica delle artiste dagli anni Sessanta Settanta, quanto il suo uso «imprevisto».

Allestimento della Biennale Donna; Foto di Marco Caselli Nirmal (2024).

Quest’anno si celebrano i 40 anni della manifestazione, inaugurata a Ferrara nel marzo 1984 col titolo di Figure dallo sfondo. Al termine del percorso di visita è allestita una sala dedicata alla storia della Biennale Donna e del comitato Unione Donne in Italia (UDI) responsabile della sua ideazione. Come si rapporta questa sezione con la mostra che avete organizzato per quest’anno?

SG/CI: Siamo molto contente del successo che ha riscosso l’allestimento della sala dedicata all’UDI nel percorso espositivo. Distaccandosi da tutte le altre, infatti, porta dentro la mostra due temi fondamentali: la storia e l’archivio, quest’ultimo già presente in un’altra declinazione nel lavoro di Van Harshkamp. Oltre a questo, ci sono diversi aspetti e elementi tra loro interconnessi che legano questa sala al resto della mostra come, ad esempio, il tema della solidarietà o la presenza delle bandiere ricamate e cucite portate nei cortei, che rientrano nella più ampia congiunzione di militanza politica e attività culturale. In una delle teche sono visibili, infatti, alcuni documenti della storia dell’UDI che riguardano le iniziative e gli appelli diffusi dalla metà degli anni Sessanta nei confronti delle donne che vivevano in regimi politici dittatoriali e di guerra (Vietnam, Medio Oriente, Spagna, Sud America). Ci sono poi sei stendardi che risalgono agli anni Cinquanta ricamati cuciti a mano dalle donne associate all’UDI. Ogni frammento di stoffa colorata riporta, ricamato, un nome di donna (in alcuni anche i nomi dei coniugi) e tutti insieme diventano il simbolo di quella rete di solidarietà in cui il cucire, pensato fin da sempre come lavoro domestico, si fa strumento per la lotta. Tutto questo definisce molto bene l’importanza di rivolgersi oggi alle pratiche artistiche anche come strumenti di denuncia per consolidare tutti quei processi volti a ribaltare canoni e linguaggi artistici sottoposti a secoli di politiche patriarcali e neo-capitaliste, qualcosa che speriamo di aver identificato e espresso attraverso le artiste e le loro opere in mostra.

Quali obiettivi vi siete poste nell’allestire questa esposizione e quali suggestioni avete voluto trasmettere alle visitatrici e ai visitatori?

SG/CI: Come anticipato nella prima domanda il tema fondamentale sul quale vogliamo aprire una riflessione attraverso questa mostra è quello della solidarietà. Che cosa vuol dire, che cosa può rappresentare la solidarietà oggi in un momento dove lo scenario politico è sempre più polarizzato, dove le incomprensioni tra destra e sinistra si manifestano in modo sempre più profondo e dove l’altro, l’immigrato, il migrante, lo straniero è sempre più spaventoso? Come possiamo invece rintracciare dei punti di connessioni tra soggettività disparate? Domande come queste sono molto prossime al femminismo che noi abbiamo approcciato attraverso le prospettive dell’intersezionalità che vediamo materializzarsi nella sorellanza, dell’anarchia, dell’insorgenza e della potenza, concetti espressi nelle opere in mostra di cui parliamo diffusamente nel testo del catalogo.

Allestimento della Biennale Donna; Foto di Marco Caselli Nirmal (2024).

In conclusione, cosa vi portate a casa da questa esperienza in termini professionali e personali?

SG/CI: Iniziative curatoriali come la XXBD spesso godono di budget ristretti, sostenuti da associazioni come l’UDI ad esempio e/o dalle amministrazioni pubbliche a cui aderiscono. L’esiguità dei fondi che vengono destinati a queste manifestazioni di rado prevede, per esempio, il pagamento del lavoro delle artiste coinvolte, o la possibilità di poter sviluppare una programmazione più ampia che ottimizzi e amplifichi l’impatto dell’iniziativa culturale per il pubblico. Quest’anno, insieme all’UDI, siamo fiere di essere riuscite ad ottenere anche il sostegno di una figura centrale per l’arte in Italia, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, senza la quale non avremmo potuto portare avanti quella che consideriamo essere una delle maggiori «best practice» dell’arte, ovvero una retribuzione congrua che rispetti e riconosca il lavoro e il tempo speso da tutte le persone coinvolte nel progetto. Quindi ci portiamo a casa la fatica di aver lavorato e di lavorare per il raggiungimento di questi risultati e la speranza che sempre di più si possa coltivare una sinergia tra il settore pubblico e quello privato, ma che anche il pubblico stesso riconosca l’importanza, anzi l’imperativo, di continuare ad investire in iniziative come la Biennale Donna di Ferrara.

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