La miseria e la fonte

Conversatio inter pauperes

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Fernando de Filippi, Senza titolo, N.d.R. 12. 03. 1976

Se la povertà è tornata al centro del dibattito, nel mondo tutto, pure quello (un tempo) ricco, è perché siamo immersi in una rinnovata «accumulazione originaria» del capitale. Di più: da eccezione, storicamente situata, l’accumulazione originaria si è fatta regola. Si potrebbe obiettare che queste affermazioni non scoprono nulla di nuovo, semmai confermano le descrizioni del regime neoliberale che si susseguono da qualche decennio. Tanto che la definizione più corretta di neoliberalismo insiste proprio sul carattere cronico e non congiunturale dell’accumulazione primitiva, con il suo carico di violenza e spoliazione, disuguaglianza e compressione dei salari.

Eppure questa definizione, già vera a partire dagli anni ’80 – con l’attacco senza tregua al Welfare State, alla progressività fiscale e all’inflazione, ai sindacati e al diritto del lavoro –, si è rivelata compiutamente con la crisi finanziaria esplosa nel 2008 e per nulla sopita. Crisi della e nella globalizzazione, con la sua temporalità costitutivamente eterogenea e l’imponenza drammatica dei flussi migratori; crisi del debito, ma anche catastrofe ambientale; crisi bellica, permanente.

Chi sono i poveri del nostro tempo? E perché, soprattutto, il capitale si separa irreversibilmente dallo sviluppo, dal riformismo, dalla democrazia? 

Ancora valida l’obiezione: cosa c’è di nuovo nella combinazione tra crisi e povertà? Nelle grandi depressioni, quella degli anni ’80 del XIX secolo come quella del ’29, disoccupazione e miseria hanno stravolto l’Occidente, alimentando guerra imperialista e fascismi. Nulla di nuovo dunque; così a un sguardo superficiale. Ma se guardiamo più attentamente, se non perdiamo di vista le trasformazioni radicali del modo di produrre e dei soggetti del lavoro che si sono imposte, facendo in pezzi i confini, negli ultimi quaranta anni, non possiamo non cogliere una novità rilevante: la povertà, con la «stagnazione secolare» in cui siamo sprofondati, è divenuta forma di governo della forza-lavoro, più in generale della società. La domanda allora si complica: chi sono i poveri del nostro tempo? E perché, soprattutto, il capitale si separa irreversibilmente dallo sviluppo, dal riformismo, dalla democrazia?

Il pauper come lavoro vivo

L’accumulazione originaria, chiarisce Marx, si articola in due processi tra loro connessi: le enclosures, le recinzioni che privano i contadini delle terre comuni, costringendoli alla migrazione nei centri urbani; la violenza di legge e la reclusione, che costringe i vagabondi a lavorare. Non basta la povertà dello spossessato, ci insegnano tanto Foucault quanto Geremek proseguendo Marx, il povero deve essere «attivato», farsi meritevole, deve smettere di dissipare il proprio tempo e le proprie energie. Con la critica femminista aggiungiamo: non c’è accumulazione originaria senza violenza sul corpo delle donne, controllo della loro sessualità, divisione sessuale del lavoro (Federici). E ancora abbiamo detto poco se non insistiamo sulla co-articolazione tra lavoro salariato e schiavitù, più in generale sulla gerarchizzazione razziale della forza-lavoro (Moulier Boutang; Mezzadra).

I riferimenti al presente sono nitidi: dal land grabbing in Africa o in America Latina alla privatizzazione dei servizi; dalla gentrification urbana alla rapina dei commons naturali; dalle stragi dei migranti nel Mediterraneo ai muri ungheresi o franco-inglesi (Calais); dalla guerra ai neri (poveri), messa in campo dalla polizia americana, alla quotidianità dei femminicidi; dalla sotto-occupazione al workfare. Fenomeni eterogenei, indubbiamente, eppure leggibili secondo un comune senso: espropriazione, rarefazione, estrazione di valore, sottomissione, attivazione (…che il povero sia meritevole, occupabile!). Tanto più violenti perché ricca la cooperazione sociale distesa tra metropoli e mondo, perché troppa la libertà strappata nelle lotte del «Secolo breve».

Nei Grundrisse, in pagine su cui molto e in modo originale ha insistito Enrique Dussel, Marx presenta la povertà a partire dalla nozione di «lavoro vivo». La nozione è duplice: intesa negativamente, qualifica la piena separazione tra lavoro e proprietà (del «corpo inorganico», la terra; degli strumenti; ecc.). In questa prima accezione il lavoro è «povertà assoluta» (absolute Armut), «totale esclusione dalla ricchezza materiale». Inteso positivamente, invece, il lavoro non è più un oggetto, ma soggetto o «attività materiale» capace di tutte le forme, prima di ogni determinatezza». Usando una parolina (con molta probabilità) mutuata da Schelling e dalle sue tarde lezioni berlinesi, Marx definisce il lavoro «fonte viva del valore (lebendige Quelle des Werts)». Figura paradossale: per un verso il lavoro vivo è povertà, per l’altro «possibilità generale della ricchezza». Occorre specificare, inoltre, che la povertà non si limita a precedere il rapporto di capitale. Povero è lo spossessato prima che incontri il denaro, ma lo è anche il disoccupato esito del processo di valorizzazione, dell’aumento del «lavoro eccedente»; tanto che lo spossessato, in quanto «lavoratore libero» gettato nel mercato, è già «virtualmente povero».

Il ruolo della rendita finanziaria, della sua capacità di comando sulla produzione e sulla società, si illumina se adeguatamente compresa la differenza ontologica e politica del povero 

Figura paradossale e, nello stesso tempo, antagonista. Radicalmente antagonista: qui la «filosofia della liberazione» di Enrique Dussel incontra l’operaismo. L’«esteriorità» del povero chiarisce la violenza del denaro, la premessa etica del capitale, qualificando il plusvalore come campo di lotta permanente, senza sosta. Il ruolo della rendita finanziaria, della sua capacità di comando sulla produzione e sulla società, si illumina se adeguatamente compresa la differenza ontologica e politica del povero. Il pauper, insiste Marx, è «non-capitale», «valore d’uso» che costituisce «un’antitesi rispetto al capitale». Il suo antagonismo va dunque neutralizzato, la sua esteriorità eliminata: non è una passeggiata, sono storie di sangue, espropri, espulsioni, fame, annegamenti, malattie. Ma è il secondo aspetto del lavoro vivo a rendere ancora più pressante l’offensiva del denaro: il pauper, il suo corpo in attività e in combinazione, è fonte creativa di plusvalore, sorgente della ricchezza. Il denaro si fa capitale nel punto di giuntura tra spoliazione e sfruttamento, che è anche e sempre il terreno di un antagonismo irrisolvibile tra vita e morte, presente e passato, invenzione ed essere.

C’è di più. Sfruttamento o conflitto spostano in avanti i bisogni, qualificano il soggetto produttivo, accelerano l’innovazione tecnologica, alimentano una cooperazione sociale, e intelligente, sempre più estesa. Lo abbiamo visto negli ultimi quarant’anni, mentre incessanti galoppavano globalizzazione e speculazione finanziaria. Eppure, segnalava per tempo Marx, lo sviluppo delle forze produttive cessa quando «trova un limite nel capitale stesso». Questo limite il capitale contemporaneo sembra averlo disposto, senza voler rinunciare all’incremento dei profitti. Dopo aver chiamato in vita tutte «le potenze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e del traffico sociale, allo scopo di rendere indipendente (relativamente) la creazione della ricchezza dal tempo di lavoro in esso impiegato», il capitale non può fare a meno di imporre la povertà, per sopravvivere e per garantire consistenza allo sfruttamento. Non c’è sfruttamento del general intellect, infatti, senza spoliazione e disuguaglianza. Il comunismo del capitale, ovvero il comando capitalistico quando «il furto di lavoro altrui […] si presenta come base miserabile» e «l’individuo sociale […] come pilastro della produzione e della ricchezza», non può che sancire la fine dello sviluppo, dell’inclusione, della democrazia: il capitale è dunque un limite selettivo delle forze produttive e, nello stesso tempo, si riscopre macchina bellica contro i poveri.

Conversatio inter pauperes e sindacalismo sociale

Ricapitoliamo: solo se precario, ovvero povero, il lavoro contemporaneo – così segnato da qualità affettive, relazionali, linguistiche, cognitive – può essere comandato dal capitale; il povero è indubbiamente esito di spoliazione (il migrante), ma anche dell’attacco senza sosta al salario (sia esso diretto o indiretto, il Welfare State); la precarietà come forma di governo della forza-lavoro significa sempre partizione, selezione e attivazione del povero; coazione al lavoro vuol dire, troppo spesso, guerra ai poveri (a mezzo di norma, di carcere, di debito, di muri, di razzismo, di morte, ecc.). Fine del progressismo del capitale.

Eppure il povero è anche fonte creativa. Un’eccedenza, nel doppio senso – negativo e positivo – del termine. E proprio per questo, quando il corpo attivo del pauper si arricchisce di protesi tecnologiche, di linguaggio, di mobilità, di combinazioni produttive, il comando capitalistico non accetta mediazioni. La «disintermediazione», segno della nostra epoca, è tanto polverizzazione delle rigidità sindacali quanto captazione del comune, del mutualismo, dell’economia informale, di quella condivisa.

Da questo punto di vista, la sharing economy (Uber, Airbnb…) chiarisce senza equivoci il rapporto tra rendita (commissione imposta dall’uso della piattaforma, delle app) e cattura della cooperazione sociale. Inseguire il povero e le sue pratiche di vita, per derubarlo come per attivarlo a mezzo di rinnovata coercizione, è oggi funzione decisiva per il capitale.

Non ci sono dubbi: se organizzazione del lavoro vivo contemporaneo, allora radicale immersione nella povertà, nella sua sofferenza, ma anche nella sua ambivalenza 

Non ci sono dubbi, così a me pare: se organizzazione del lavoro vivo contemporaneo, allora radicale immersione nella povertà, nella sua sofferenza, ma anche nella sua ambivalenza; cercando di afferrarne, cioè, la potenza creativa e solidale di cui è capace. Il sindacato, se oggi può essere riscoperto e innovato, deve incontrare l’ispirazione francescana, marginalizzando ogni ambizione rappresentativa, combattendo le derive corporative e facendo della giuntura tra spoliazione e sfruttamento il terreno proprio dello scontro. Vale la pena spiegare.

Dobbiamo allo storico Giovanni Miccoli precisazioni decisive sul «divenire-povero» di Francesco d’Assisi. La povertà smette di essere un oggetto degno di carità e si trasforma in «scelta di campo sociale». Vivere secondum formam sancti evangelii, incarnare la sequela Christi, per i fratelli significa gioire «quando conversantur inter viles et despectas personas, inter pauperes et debilis et leprosos». Il rifiuto della proprietà è invenzione di forme di vita comuni, di regole indipendenti, come se solo nella povertà – esperita e organizzata – fosse possibile creare istituzioni alternative al potere, alla corruzione, all’ingiustizia. Nessun moralismo, non c’è norma, ci sono solo esempi, prassi situate, singolari. La povertà è pluralità di modi di essere, storicamente determinati, fratellanza e nomadismo nello stesso tempo, gioia e coraggio di una vita altra. Non basta e non può bastare prendersi cura dei poveri, si tratta di attraversare la povertà, divenire-poveri per combattere la violenza del denaro.

Mostrare, infatti, significa sempre esporre al pericolo, la parola vera è sempre combattimento, parola incarnata contro il potere. Combattere la corruzione, come un cane che morde, vuol dire divenire-poveri
 

Nelle ultime lezioni, poco prima di morire, Foucault presenta un importante precedente dell’umiltà cristiana: quella cinica. Sta continuando la sua ricerca sulla parresia, sulle «pratiche di dire-il vero», e incontra il bios kynikos, lo scandalo della vita da cani. Raramente capitano pagine così potenti come quelle che ci hanno consegnato le lezioni del Collège su Diogene ed Eracle. La verità – chiarisce Foucault – non può essere solo detta, deve essere mostrata, messa in forma con il rischio della propria vita. Mostrare, infatti, significa sempre esporre al pericolo, la parola vera è sempre combattimento, parola incarnata contro il potere. I cinici non conoscono l’interiorità, la loro vita, anche quella riproduttiva, è interamente pubblica, scandalosa. Ancora: combattere la corruzione, come un cane che morde, vuol dire divenire-poveri. E la povertà cinica è «reale, attiva, indefinita». Non si tratta di semplici esercizi temporanei, come per Seneca e gli stoici, si tratta piuttosto di una forma di vita, di uno stile di militanza. Come Eracle, «re di miseria, di resistenza e di dedizione», il cinico è «strumento della felicità altrui»: con la spoliazione infinita si mette continuamente alla prova, combatte per sé e per l’intera umanità, facendosi carico della sua «bruttezza» e della sua «infamia».

Se il sindacalista è ancora possibile, dopo decenni di cedimenti corporativi e corruzione, dopo la merda gettata senza sosta – da padroni e confederali – sulla storia straordinaria delle lotte operaie, allora sarà un hobo francescano, un cinico marxista, un contemporaneo «atleta miserabile». No, non sarà più possibile organizzare i precari senza essere precari, né dire la verità al potere senza mostrarla con la propria vita in lotta, contro lo sfruttamento, per la libertà. Fine, davvero, degli intellettuali «sinistri». Nessuna norma, niente di eroico, piuttosto conversatio inter pauperes, gioiosa e polemica. E questo re di resistenza e dedizione sarà più spesso una regina, sicuramente sarà molti, sarà meticcio, singolare e comune. Per questo, se oggi cominciamo a (ri)fare sindacato, non possiamo che insistere sul suo carattere orizzontale, territoriale, ostile agli steccati categoriali; vertenza e mutualismo, conflitto e condotte smettono di divaricarsi. La povertà, condizione propria di una generazione, da iattura viene trasformata in «fonte viva» del combattimento, delle istituzioni alternative allo Stato, di tutta la ricchezza sociale possibile. Siamo poveri, saremo tutto.

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