I Can’t Go On, I’ll Go On

A proposito de «L’innominabile»

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Alfredo Jaar, I Can’t Go On, I’ll Go On (2018).

In occasione dell’uscita del nuovo album di Marco Rovelli, Portami al confine (Squilibri editore, 2020), pubblichiamo una riflessione del cantautore e il video Beckett di Francesco Bartoli.

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Portami al confine. Chi? Tu. C’è sempre un tu da interpellare, a cominciare da se stessi. Portami al confine, tu. Avanti. Fammi oltrepassare questa terra, questo tempo, questa forma, questi spazi, questo già visto già scritto già vissuto. Fammi rovesciare quel che è rovesciato, e poi rovesciarne il risultato. Quel che è di là dal confine, quel che tutti temono. È la paura che fotte l’uomo; che lo separa da se stesso, da ciò che può, che potrebbe. Eppure, basterebbe un passo. D’accordo, diciamo un balzo. Tu, aiutami a farlo quel passo, quel balzo. Portami al confine, e insieme superiamolo.

Sono le ultime parole di L’innominabile, il romanzo che chiude la Trilogia di Beckett. La chiude, la riapre, la spalanca all’infinito. Nessuna fine corsa, mai. Se non possiamo andare avanti, allora andiamo avanti. Perciò l’album Portami al confine si apre con una canzone che ha il nome di colui che invoca l’innominabile. E tutto questo è pure sulla copertina (grazie a Alfredo Jaar che ci ha donato l’immagine di questa sua opera), e pure nel nome che accompagna l’autore dell’album.

Bisogna fallire meglio, scriveva l’irlandese divenuto francese divenuto pietra divenuto silenzio. La vita è un gioioso fallimento. È mancare sempre il bersaglio, perché un bersaglio non c’è, c’è solo questo flusso impetuoso, la freccia scoccata in volo. È la parola che manca sempre al suo oggetto, l’impossibilità di scrivere la vita, la necessità di provare ancora, di fallire meglio. Stare in questo fallimento, crescere nell’impetuosità della vita che scorre come un fiume un piena, e monta, monta, sale d’intensità, fino al silenzio. Il silenzio della pietra. Del resto leggere Beckett è come gustare, con il massimo godimento possibile, pietre. È, letteralmente, gustare la verità dell’essere. Leggi i tre romanzi della Trilogia, e vedi l’essere: questa parola così ambiziosa, così presuntuosa, che vorrebbe dire tutto, perché tutto è, e che vorrebbe perciò essere tutto. Beckett la prende in bocca, e ride.

Quanto è abissale la distanza tra l’essere e la parola che lo dice. È una distanza siderale (e siderea: fissa come il ghiaccio). È una parola votata al fallimento. E che fai, quando vedi una persona solenne e piena di sé che inciampa e cade? Ridi. Ecco, con Beckett si ride.

L’essere è una pietra da succhiare – come fa Molloy, il protagonista del primo romanzo della Trilogia. Organico, inorganico, vita, morte, non c’è differenza, tutto sta in questo succhiare senza fine, in questo infinito slittamento. È questo infinito scivolare che Beckett mette in scena: e noi scivoliamo con lui.

Beckett racconta, e noi scivoliamo, nel suo discorso senza nome, senza capo né coda (e la coda è già compresa nell’inizio; e l’inizio non c’è). Tutto scorre, imprendibile, fluisce senza nome e senza identità, tutto si sovrappone, nomi, identità, spazi, tempi in flusso di identità, spazi, tempi.

Beckett racconta questo infinito slittamento, e lo racconta dall’unico punto da cui lo si può raccontare: dal margine. Racconta la vita di un Molloy qualunque, un marginale, inafferrabile, una persona non più persona. E il fatto che le qualità eminenti dell’umano siano scivolate via da lui non fa che denudare l’inumano stesso al cuore dell’umano. L’inumano al cuore dell’umano: l’innominabile.

Ho sempre provato
Ho sempre fallito
Proverò ancora
Fallirò ancora
Fallirò meglio

Vorrei sentire ancora un poco un altro vuoto
Vorrei sentire ancora e poi fallire ancora
Vorrei fallire ancora meglio
Fallire è certo meglio che
un niente da portare in tasca
È quasi un niente in tasca da portare al collo
come una scatola di sogni sparsi sull’asfalto
perduti per un altro fallimento
Fallire sogni fallire amori fallire ipotesi e dimostrazioni
fallire bersagli silenziare suoni
fallire per non avere più niente da dire
Fallire e poi provare ancora un’altra volta perché si tratta di fallire meglio

E poi silenzio
Da farsi
Come un meglio che non è mai troppo
distruggere l’ immagine

There is a void in your word there is a void in your soul
Ho sempre provato
Ho sempre fallito
Proverò ancora
Fallirò ancora
Fallirò meglio

Perché è nei vuoti che si guarda davanti
E più si ride se più siamo di santi
senza un’immagine

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