I conti con un passato che non ho

A partire da Marco Bellocchio

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Alfredo Jaar, I Can’t Go On. I’ll Go On (2016).

Marco Bellocchio viene dalla sinistra extra-parlamentare. Poi la sua militanza è passata a quella contro il pericolo della malattia mentale che ha afflitto due fratelli. Uno suicida, l’altro vivo ma malato di schizofrenia. L’attrazione per l’arte ha salvato Marco, assieme a quella per il cinema e la politica. In seguito alla sconfitta rivoluzionaria, inizia «una rivolta esistenziale». Che passa per la psicoanalisi. Così si ribella alla malattia, «per non rimanere prigioniero» delle sue nevrosi, fragilità, debolezze. «Una militanza assoluta», dice nella bellissima intervista a Nicola Mirenzi per Review di novembre 2022 in cui ripercorre la sua traiettoria esistenziale. Si dice di Bellocchio che tutto il suo cinema post-68 sia un cinema su di sé, sulla sua famiglia. I film su Moro sono parricidi o comunque confronti con i padri.

Cosa resta all’attuale generazione di militanti che non hanno fatto la rivoluzione e non ci hanno neanche provato, se non in forma meccanica e rituale, sostanzialmente superficiale? O se anche ci hanno provato sono rimasti molto distanti da qualsiasi forma di avvicinamento – anche immaginario – al rovesciamento del potere?

Vittorio Foa, nel documentario Sogni infranti di Bellocchio dice che il 1917 fu una rivolta per la ricchezza, il 1968 fu una rivolta «contro il benessere». Forse dipende da dove lo si guarda. In Marx può aspettare (2021), Bellocchio si chiede come si possa fare una rivolta contro il potere, per realizzare la giustizia, senza prendersi carico dell’ingiustizia – esistenziale e non politica – che colpisce chi si ha più vicino. Anche il fratello Piergiorgio, nel documentario, confessa di aver distrutto le ultime tracce scritte del fratello suicida nella paura delle incursioni della polizia ai tempi della sua direzione dei Quaderni piacentini.

In L’ora di religione (2002), Castellitto distrugge al computer il Vittoriano, l’orrendo omaggio alla nazione che domina Piazza Venezia. Invece che farlo saltare in aria col tritolo, un architetto anticlericale e antiautoritario lo distrugge con l’immaginazione. Nel film successivo, Buongiorno, notte (2003), che Goffredo Fofi, per l’appunto, liquidò su Lo straniero come un inutile confronto coi padri di cui poco dovrebbe interessare chi volesse fare i conti con una rivoluzione fallita, Moro sopravvive. Nel recente documentario RAI su Lotta continua, Erri de Luca sostiene che la generazione che ha fatto il ’68 sia stata l’ultima a tentare la rivoluzione nel Novecento. Non ci sono ombre di riflessione nella sua analisi.

My generation

Cosa se ne fa qualcuno nato tra fine anni Ottanta e inizio Novanta del Novecento di queste cronache, di questi problemi, qualora fosse preso tra l’inizio della vita adulta e l’insofferenza per il presente?

La generazione prima del ’68 si era formata tra l’Ottobre russo e la Resistenza, tra il fascismo e la guerra in Spagna. Lì c’erano i nodi che avrebbe tormentato la sinistra del secolo. Dopo la perversione della rivoluzione d’Ottobre, Stalin represse i libertari. E però aveva sostenuto gli antifranchisti, a differenza dei liberali, come scrive Lisa Giua Foa in È andata così (Sellerio, 2004), intellettuale e militante a cavallo tra i giellini e Lotta Continua a cui aderì.

L’anarchico Stig Dagerman dirà che tra l’Ovest capitalistico e l’est sovietico era di certo meno peggio il primo (La politica dell’impossibile, Iperborea 2016). La nuova sinistra, nel suo parricidio, doveva uccidere i padri comunisti, partitici, più o meno stalinisti. Si apriva all’internazionalismo, alle lotte antiautoritarie nell’Est, a quelle antimperialiste ovunque. Adorno, contestato dal ’68, sosteneva che il formalismo borghese avesse un residuo di umanità da realizzare che il neocapitalismo tendeva a distruggere. Che rapporto tra rivoluzione e ordine, quale tra comunismo, antifascismo e liberalismo?

Ancora dopo, oltre, contro il ’68

Quello che, 55 anni dopo il ’68, lascia perplessi è che, a fronte di un’avanzata così massiccia delle varie trasformazioni del fascismo, che certo si sono sviluppate anche dentro le ambivalenze del liberalismo, molti militanti o elettori della sinistra radicale spesso dicano di preferire il fascismo a quello che ne considerano il padre, all’ordine liberale. I fascisti sono nemici chiari, i liberali sono ipocriti che alla fine producono, anticipano e coprono i fascisti. Non bisogna essere rossobruni o stalinisti per avere queste posizioni. Anche alcuni che militano nelle file di movimenti più libertari o hanno idee antiautoritarie su altri argomenti, in qualche modo, ragionano sugli originali e le copie, preferendo gli originali. Negli ultimi mesi, da quando il governo Meloni si è insediato, molte sono le conversazioni private in cui alla fine si conclude, o si smette di parlare, quando alla scelta secca su quale dei due regimi borghesi (Reinhard Kühnl, Due forme di dominio borghese. Liberalismo e fascismo, Feltrinelli 1973) si disprezzi meno, gli interlocutori propendo – non ironicamente – per il nemico chiaro.

Chi scrive ha dei parenti suicidi per via delle persecuzioni razziali fasciste e fuggiaschi, esuli. E poi esuli di nuovo a causa dell’autoritarismo sudamericano. Di qui, forse, la mia preferenza secca, senza esitazione per il regime in cui viviamo. E un odio senza compromessi per le varie forme di nazionalismo, che hanno nel fascismo la loro massima forma di espressione. Gli interlocutori potrebbero avere nonni partigiani. Spesso hanno genitori o nonni oppressi dal sistema economico politico liberale. La memoria è elaborata in modo diverso. Forse perché prima dell’onda nera globale – da Bolsonaro a Modi -, siamo cresciuti nel postcrisi del 2008, siamo stati repressi nel sangue a Genova, quando si avanzavano proposte di globalizzazioni alternative. Il «neoliberismo reale», quello in cui, notoriamente, è più facile immaginare la fine del mondo per devastazione climatica che quella del sistema che lo produce. E però. E però bisogna pensarla l’alternativa a questo sistema. E non può certo essere la regressione fascista. Né irrealizzabili uscite neoautoritarie da sinistra, di socialnazionalismo, di statalismo in un solo paese. Chi soffre del presente ha il compito di misurarsi con la figurazione di alternative. Le esperienze del passato ci aiutano fino a un certo punto.

Enzo Traverso, in Malinconia di sinistra (Feltrinelli, 2016), consiglia di riprendere le frange minoritarie della tradizione degli oppressi. Quelle più sconfitte, quelle represse da altri socialisti radicali o moderati. Non dismette l’orizzonte rivoluzionario, pur avendo in odio le forme autoritarie in cui è stato realizzato. Alessandro Dal Lago, nell’ultimo pamphlet che scrisse Viva la sinistra (Il Mulino, 2019) dice qualcosa di simile, ma con una prospettiva politica diversa, più pessimistica. Chiude riprendendo Rosa Luxemburg e Simone Weil, due autrici che si sono interrogate sul rapporto tra mezzi e fini. E che quindi non praticavano avventurismi a costo zero. Non mandavano avanti terzi, eventualmente a soffrire del sistema con cui avrebbero sostituito quello intollerabile in cui vivevano. E però Dal Lago, nel suo programma in negativo, della sinistra che non c’è, sostanzialmente si dice a favore di una socialdemocrazia internazionalista. Un sistema che difenda i diritti degli esseri umani, che superi la forma nazionale, che limiti i poteri selvaggi di finanza e grandi imprese, che mantenga le garanzie della democrazia liberale e che le trasporti, almeno, sul piano continentale europeo, superando la forma intergovernamentale che lo paralizza. Étienne Balibar non parla di socialdemocrazia ma di un doppio potere – movimenti e istituzioni rappresentative – dentro un quadro di cosmopolitismo democratico.

Marco Bellocchio non so se sottoscriverebbe il programma di Dal Lago. Probabilmente non gli interesserebbe neppure farlo. Tuttavia, nella sua furia antiautoritaria, antidogmatica, in lotta contro un’ingiustizia che non è solo sociale, ma anche esistenziale e quindi inestirpabile, che usa l’arte e la psicoanalisi per cercare rapporti più umani, forse può dare un’indicazione di metodo migliore di tante polverose ripetizioni dell’eguale.

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