I figli del mare

Undine di Christian Petzold

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Marta Roberti, Shegotlove 1 (2018). Foto di Giorgio Benni.

Il cinema può essere semplice, l’amore anche tragico può essere leggero. Questo in sintesi il segreto di Undine. Un amore per sempre, un film di Christian Petzold, uno dei migliori cineasti tedeschi contemporanei, già regista sorprendente con, Il segreto del suo volto e La donna dello scrittore. Un film che travalica il realismo per lasciare campo al visionario, anche la poesia sembra non bastare in questo racconto, per eccedere nel fantastico, nell’ignoto. Un film che lascia allo spettatore il compito di riallacciare i nodi, di ricostruire le anime profonde dei protagonisti, oltre ai fatti crudi che accadono.

Inquadrature secche, definite, che non lasciano spazio per il fuori, troppo intimo il rettangolo visivo dei personaggi da seguire, ogni fotogramma è necessario, non c’è ossigeno per il superfluo e per il fuori quadro. Rigoroso il montaggio curato nel levare l’inutile, portando nello schermo l’essenziale. Leggere le note di clavicembalo che sorvolano sugli eventi e picchiano come piccoli tumulti interiori. Bravissimi gli attori e speciale Paula Beer, premiata giustamente con l’Orso d’ Argento all’ultimo Festival di Berlino. Ci si perde nella storia perdendo il senso del tempo e della ragione, perché l’amore e la ragione sono due rette che non potranno mai incrociarsi.

Un racconto d’amore tragico senza possibilità di violenza, nessuna goccia di sangue scorre, nessuna parola cruenta se non quell’ incipit iniziale annunciato da Undine: «se mi lasci, dovrò ucciderti». Parole che suonano come una sentenza, che non danno via di scampo, anche dopo l’amore ritrovato, reinventato e riprovato. I corpi scompaiono nell’acqua, per riapparire come sogni. Quando finisce la verità dell’accaduto, per lo spettatore inizia il viaggio della mente nei ricordi, nei resti che ci rimangono nelle sinapsi del cervello, come bottiglie vuote, come appuntamenti rimandati e mancati. Non importa se sono tutte storie di vite spezzate, il dolore affiora ineluttabile. Non c’è mistero, non c’è ambiguità, semplicemente non c’è soluzione nell’amore, sembra suggerirci Undine mentre se ne va in fondo al lago.

Il destino di Undine si confonde con la sorte della città di Berlino divisa prima tra Est ed Ovest e unita adesso in una ricerca di una architettura improbabile, in cui tutto dovrebbe tornare ma non torna, semplicemente non va. Torna forte in mente la poesia di Carlo Michelstaedter, I figli del mare: «Senia, il porto è la furia del mare, è la furia del nembo più forte, quando libera ride la morte a chi libero la sfidò». Il suicidio come speranza, come ardore, come nuova possibilità. Undine non muore ma vive nelle acque dell’incontro sempre possibile dell’amore, anche dopo la morte sfidata.

Usciti dal Centrale di Milano piove forte, la città è grigia, andiamo a prendere un caffè, ma il pensiero scorre agli occhi blu-acqua di Undine. Nuota leggera, mia dolce Undine, lasciati andare ai nuovi sogni e grazie per questo immenso regalo. Il cinema appunto è una cosa semplice.

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