I figli delle stelle degli anni Ottanta
Crisi dell’idea di generazione e amicizia a venire
Questo testo è un’anticipazione dell’intervento preparato in occasione degli Star Days (26 e 27 settembre), l’evento ideato da Edizioni Star Comics.
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Chiunque rivolga la sua attenzione agli anni Ottanta può concordare sicuramente sul fatto che si tratti di una decade non comune, difficile da spazzare via, notevole dal punto di vista della ricchezza delle trasformazioni sociali che porta con sé. Gli anni Ottanta sono innanzitutto «anni» dal punto di vista mediale. Con troppa leggerezza, infatti, individuiamo solitamente come media i supporti materiali o i dispositivi tecnologici, quando ogni cosa, nel momento in cui immagazzina, traduce e trasmette funge da medium a tutti gli effetti. Gli anni Ottanta sono una decade con una specifica identità mediale. Questa specificità consiste soprattutto in una produzione senza precedenti di narrazioni distopiche.
Dal cinema (basti pensare solo ai cult movies americani come Blade Runner, Brazil, L’implacabile, Robocop, Terminator) alla letteratura (Neuromante di William Gibson, Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood,), ai fumetti e ai manga (come Akira di Otomo o Il ritorno del cavaliere oscuro di Frank Miller), sembra esserci una vera e propria atmosfera culturale comune. La tensione distopica che attraversa gli anni Ottanta dà tuttavia luogo a una speculare tensione utopica all’interno di una vera e propria dialettica dell’immaginario.
Il futuro è oscuro, la catastrofe è alle porte, le macchine sono sempre più minacciose e distanti: respinta, l’umanità tende allora a compattarsi, a riscoprire e a esaltare il valore dell’amicizia, soprattutto nell’immaginario della cultura di massa. All’interno di quest’ultimo è costante, infatti, l’elogio dell’amicizia come risorsa per affrontare il mostruoso e ogni sfida della vita. C’è qualcosa di ripetitivo, di «allenante» nell’immaginario degli anni Ottanta e non è un caso che un’altra figura fondamentale di questo immaginario sia l’atleta. L’immaginario degli anni Ottanta ci prepara ad affrontare cadute, catastrofi, insieme a degli amici. Con troppa leggerezza, dunque, gli anni Ottanta sono stati bollati come la decade del trionfo dell’individualismo.
Cosa sarebbe la saga di Rocky senza i suoi amici, senza il suo allenatore Mickey o senza Apollo Creed, Oppure Blade Runner, il capolavoro di Ridley Scott del 1982: per tutto il film è una caccia ai replicanti, gli androidi che simulano l’umano, ma nella scena finale diventa un elogio dell’attaccamento alla vita, dell’amicizia per eccellenza, se per amicizia intendiamo quel con-sentire l’esistenza, quel sentire insieme che è nello stesso tempo quel permettere all’altro di far parte della nostra esistenza più propria. Gli amici, che formano la banda di monelli protagonista di così tanti cult degli anni Ottanta come I Goonies (1985), Stand by me (1986), It (1990, adattamento televisivo del bestseller di King del 1986) fondano la loro esistenza su ciò che sentono, diversamente dagli altri e su ciò che dovranno affrontare.
E negli anni Ottanta sarebbero apparsi, a un certo punto, i «figli delle stelle»: il frutto di qualcosa che veniva da lontano, da un mondo mutante, dal Giappone. È a partire dalla loro venuta che sarebbe entrata in crisi l’idea di generazione. Forse perché dagli anni Ottanta in poi le generazioni avrebbero vissuto trasformazioni culturali e crisi sociali senza precedenti, tali da renderle irriconoscibili. Dalla cosiddetta generazione x alla generazione z non hanno tuttavia smesso di seguire modelli, dei punti di riferimento. Chi scrive, come tanti ragazzi cresciuti tra gli anni Ottanta e Novanta, può essere definito, a ragione, un figlio delle stelle. Figlio delle stelle dell’Orsa Maggiore della Divina Scuola di Hokuto; figlio delle costellazioni dello Zodiaco a cui erano associate dei cavalieri pronti a salvare la dea Atena; figlio delle stelle impresse sulle sfere del Drago, cercate senza sosta da Goku e dai suoi amici.
Erano nuovi dei, nuovi miti: Ken Il guerriero, I Cavalieri dello Zodiaco, Dragon Ball. Li abbiamo guardati incantati e appassionati in televisione – sotto forma di cartoni animati o, più precisamente, di «anime» – oppure sulle pagine dei «manga», i fumetti giapponesi in Italia pubblicati da una casa editrice che pure condivideva nel nome il destino delle stelle: la Star Comics. Ne sarebbero arrivati altri, per ragazzi e ragazze e saremmo stati invasi e contagiati da quelle immagini così seducenti. Come tanti, non posso che sentirmi fortunato. Erano storie violente e dure, a volte surreali, ma con valori solidissimi, come quelli dell’amicizia e del rispetto. Valori che andavano al di là delle culture e dei tempi. Sicuramente erano storie meno violente e dure del mondo che ci avrebbe accolto da adulti. Ken, Pegasus, Goku sarebbero stati la nostra scuola, il nostro addestramento.
Quest’ultimo diventava un vero e proprio valore in sé: bisognava allenarsi duramente per ottenere qualcosa. Provare e riprovare, cadere e rialzarsi. Chi si preparava duramente cospirava con il futuro. Avremmo vissuto un’epoca oscura, come i protagonisti di molti manga e anime giapponesi, ma non potevamo perderci d’animo, perché avremmo trovato degli amici sul nostro cammino. Comunità provvisorie, ma importanti. Se una lezione poteva venire dalle storie di Ken il guerriero, I Cavalieri dello Zodiaco, Dragon Ball era che non esistevano buoni e cattivi, né in generale divisione nette. Chiunque, dunque, poteva diventare un amico. Ne I Cavalieri dello Zodiaco persino il più cattivo e spregevole dei personaggi, Phoenix, il cavaliere della costellazione della Fenice, riesce a cambiare il suo destino e a diventare il più generoso e coraggioso dei cavalieri, sacrificando più volte sé stesso. Anni luce dai prodotti di plastica Disney del tempo.
Prima delle serie tv di ultima generazione, che riscuotono oggi un meritato successo, manga e anime hanno offerto a dei ragazzi qualcosa di complesso e popolare insieme. E oggi la smania di consumare, rivedere e collezionare le storie delle serie tv sulle piattaforme digitali nemmeno esisterebbe senza una figura culturale che ha preceduto il serial-dipendente: il consumatore compulsivo di manga e anime che i giapponesi hanno chiamato otaku.
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