Il diritto al lusso
O di come si fa politica tra i limoni
Non c’è dubbio che il posto in cui cresci è anche il posto in cui impari una postura verso il mondo, un alfabeto sentimentale, un’educazione all’amore e alla politica. Noi che sappiamo che «ogni scelta, ogni gesto è politica», e che veniamo da questo «sud azzoppato cui non resta che volare», siamo sempre a disagio con il passato di altri posti dove c’erano le fabbriche, gli operai e i cancelli dove quegli operai decidevano di non entrare inceppando per un intero decennio la vita prepotente e ordinata dei padroni. Guardiamo a questa storia, la riconosciamo, «sì è la nostra» ci diciamo mentre ce la passiamo tra le mani come siamo abituati a fare con le pietrine per togliere il resto e tenerci le conchiglie. Si questa storia è anche la nostra, eppure è diversa.
Noi non le conosciamo quelle assemblee nei parchi fatti di un’aria lattigginosa, con la gente che fumava i chiloum e il fumo si univa alla nebbia, non conosciamo nemmeno le gerarchie dei romani, silenziosi organigrammi mai resi noti eppure da tutti conosciuti (strana ed efficacissima forma di comunicazione telepatica). Noi le ascoltiamo quelle storie, spesso, con commozione, occupazioni di case popolari, autoriduzioni delle bollette ma noi, intanto, come facevamo politica? Si a Napoli c’erano i disoccupati organizzati, erano belle le interviste e i reportage cha Paolo Virno gli dedicava dalle pagine di Metropoli, era un linguaggio nostro, ma noi, in questa provincia dove le case hanno le porte solo per convenzione, eravamo un po’ spostati anche rispetto a quella esperienza. Gli scontri di Napoli ci riguardavano, certo, i compagni di allora ce ne raccontano la potenza e l’intelligenza, la capacità che avevano di tagliare il reale in senso trasversale, cosicché non nascevano gerarchie ma si allungava la lezione antiautoritaria del ’68. La lettura della realtà che da loro abbiamo ereditata è sempre spiazzante perché monta e rimonta le geometrie del pensiero in un modo imponderabile.
Non ha mai lasciato una grande impronta a Napoli la lotta femminista, perché non si riesce a comprendere la lotta se non nei termini semplici: da una parte chi ha, dall’altra chi non ha (e difatti il razzismo non si sa cos’è, l’altro è comunque un ospite). Eravamo eredi e comprendevamo tutto quello che avveniva a Napoli, a 30 km, veranda del nostro palazzo, ma qui lo masticavamo con lentezza. Inventavamo rotture e ricomposizioni strane, si parlava, a un certo punto, di aggregarsi ai compagni di Militant, che ruppero con la Quarta internazionale per fondare un allora imprecisato comitato per una internazionale dei lavoratori. Cioè il progetto politico prevedeva un ponte Cetara- Londra che, pur volendo credere al fatto che niente è più concreto di un buon immaginario, ecco faticava a tradursi in pratica. Nel pantano del presente qui sembra che sia sempre uguale l’indifferenza all’istituzione. All’istituzione nessuno ci ha mai creduto francamente. Che il comune se lo prendesse la DC o il PSI le spiagge erano sempre nostre con annessi tramonti, merende mangiate assieme, una vita comune che alla teoria politologica sostituiva la conoscenza fisica del territorio (morfologica, sessuale, biologica e chimica). Nessuno, per fortuna, ci ha mai accusati di decrescere felicemente, perché qui il rifiuto del lavoro non è mai stato la risposta a una crisi che ti fa fuori, ma una pratica di trovare tempo per stare assieme il più possibile, per non perdersi quello che ti può insegnare una giornata tra i terrazzamenti di limoni in termini di diritto al bello, diritto al lusso, diritto alla poesia, diritto al silenzio, diritto alle parole d’amore.
Abbiamo i nostri santi. Caccioppoli che ancora se guardiamo tra i corridori del primo piano mentre stiamo al chiostro di San Marcellino lo vediamo passare e con lui Francesca Spada e Renato La Piccirella, gli emarginati del PCI di Amendola, macchina autoritaria e dispotica che il dissenso l’ha ucciso senza nemmeno ricorrere alla metafora. Abbiamo Marotta e i suoi libri stipati nei piani del poetico diroccato Istituto di studi filosofici a via Monte di Dio. Sergio Piro che qui ha diffuso una cultura basagliana cui il territorio ha risposto come a un richiamo naturale, che aspettava solo di essere pronunciato. Lo scrittore russo Gorkji, che, esule a Capri, scopri quel granello mistico che «i faraoni», come chiamava i Faraglioni, avevano messo nella ruota perfettivamente ossessiva dell’idea di rivoluzione leniniana. Tutti irregolari, l’anomalia come costante.
Siamo ancora qui così, non viviamo da soli, conosciamo i fondali e le ricette, impariamo i segreti del corpo in una villa che non abbiamo occupato, ce l’hanno lasciato perché non la usavano per farci l’orto e le cene e non lasciarla andare al niente. Uno di noi, Mattia, che ha studiato biologia per capire il mare, insegna yoga in una stanza grande e mediterranea. Con indomita delicatezza ci spinge a una conricerca (quanto è politico il termine conricerca) «su cosa può un corpo?» facendo di questo interrogativo ambito di indagine sul rapporto io-mondo, sulla mappa delle relazioni, su come il dare non può essere una cambiale. Quanta critica al dispositivo neoliberista c’è in questo silenzioso progetto? Quanto è sovversiva questa pratica? Moltissimo, ci pare. In uno dei paesi incastrati nella curva della costiera amalfitana (che a pronunciarla ci sembra sempre di leggere un volantino della pro loco e invece siamo noi la costiera amalfitani) due ragazzi, Giampietro e Senem, hanno ricominciato a percorrere le strade abbandonate che portano ai terrazzamenti.
Lavoro duro, che ha dato dignità ai contadini che lo facevano un tempo e che vedendo che quel gesto ha creato una comunità, non si nascondo più al paese vestiti da lavoro, ma anzi moltiplicano i consigli riguardano loro stessi e pensano che non è stata una brutta vita la vita di un contadino sul mare. Ora ci sono le api, ora arriva qualcuno cui si fittano le camere, ora si portano le barche a mare, ora si tolgono le canoe che si tengono in rimessa, ora i figli hanno la loro comunità, i grandi la loro, tutto è lussuosissimo come nessun resort potrebbe promettere mai. Visioni che diventano gesti, e gesti che diventano visioni. Nessun convegno sull’ecologia restituisce la formazione che l’ambiente da loro e che loro rimettono in circolo. Ci sono le ceramiche ovunque, gli artisti sono artigiani, gli atelier laboratori, ma la magnificenza sembra lo specchio riflesso di una curva di roccia, tappezzata di un branco di pesci ceramica, opera totem di Sergio Scognamiglio. C’è in progetto l’operazione di un altro artista, Davide D’Elia, che ha pensato di mettere qui una boa. Essa è l’approdo, e l’approdo è l’unica strategia possibile in tempi di migrazioni. Non si dice ma si lancia il gesto, pratica politica, meraviglia.
Non si decresce per niente, si cresce. Come cresce il mondo, l’organismo. Non ci si vuole ridimensionare per niente, perché non si vuole morire né sparire. Ci insegnano ad alzarci maestosi questi alberi di limoni, una fierezza di fogliame al vento che è attaccamento senza parole a una storia che non ci lascia andare. Ma è tutta diversa la nostra crescita, segue solo il ritmo delle necessità collettive. Come una casa che germina stanze in relazione ai bambini che nascono. Ci prendiamo la musica se abbiamo voglia di ascoltare, il sole in faccia se abbiamo voglia di calore, la mano dell’altro se, per dirla alla Pintor, rifiutiamo la solitudine (politica è uscire dalla solitudine). Rivoluzione permanente dello sguardo, equilibrio sempre nuovo tra immaginario e realizzato. Siamo qui a fare politica come non mai.
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