Il disegno dell’Accademia, il genio dell’Università

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Atelier populaire, École des Beaux-Arts, Parigi (1968).

Tra le Onde

Più di dieci anni fa, discussa la mia tesi di dottorato e con un numero dignitoso di pubblicazioni, mi cimentai in vari concorsi, tra cui un concorso per ricercatore a tempo indeterminato, uno degli ultimi prima dell’entrata in vigore della Riforma Gelmini, che avrebbe reso fino ad oggi precaria la figura del ricercatore.

So già a cosa state pensando: che fosse un’impresa impossibile, perché i concorsi nelle università sono notoriamente spesso ad personam e blindatissimi, a maggior ragione per il fatto che si trattava di uno degli ultimi posti a tempo indeterminato. Non sono un ingenuo e non credo più alle favole; non avevo appoggi accademici, non avevo niente da scambiare, né ero io stesso merce di scambio per manovre di risiko accademico fatte ai piani più alti.

L’unica ragione che mi portava in quella facoltà era una congiuntura storica: le università erano occupate, c’era il movimento dell’Onda, si protestava contro la riforma, ma anche contro la gestione feudale dell’università. Magari si trattava della volta buona, pensai. Pensai male, ovviamente. Il capo della protesta in quella facoltà (i capetti sono ovunque), quando chiesi indicazioni per l’aula dove svolgere il concorso, si lasciò sfuggire un «ah, certo, il concorso per Tizio Caio!». Ricordo che ebbi un’accesa discussione con l’ondivago capo-protesta. Quanto al concorso, ho perso (ero molto giovane, probabilmente lo meritavo). Giusto qualche mese di disperazione, visioni apocalittiche e propositi di rispolverare diplomi di preparatore atletico conseguiti in un’altra vita e forse da un’altra persona a cui molto probabilmente la filosofia aveva rubato l’anima, e mi cimento in un altro bando di concorso, questa volta in un’Accademia di Belle Arti. In tutta onestà, all’epoca, da studioso di filosofia, ignoravo persino l’esistenza di tale istituzione.

Le cose andarono miracolosamente per il verso giusto e da allora ho insegnato per numerosi anni in questa istituzione la disciplina filosofica dell’Estetica. L’altra faccia della medaglia mi si palesa però già dopo il primo anno. Nonostante l’Accademia fosse riconosciuta da diversi anni come istituzione universitaria, seguiva regole autonome, soprattutto in termini di reclutamento e finanziamento della ricerca. Quest’ultimo era quasi del tutto inesistente e il reclutamento un vero e proprio mostro giuridico, per non parlare della grande disparità tra la docenza accademica e quella universitaria tradizionale. La possibilità di entrare come docente di ruolo era praticamente nulla e se oggi, dopo più di dieci anni, posso felicemente esserlo, lo devo solo alle proteste e all’impegno sovrumano di alcuni colleghi.

L’anomalia giuridica che colpisce tutto il comparto AFAM (ovvero il settore dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica) è descritta in modo impeccabile nel recente testo di Antonio Bisaccia, Burocrazzismo e Arte (Castelvecchi, 2020). A ragione, il sottotitolo del volume parla di un’equiparazione solo cosmetica tra Università e Istituzioni AFAM. Bisaccia ha usato un termine perfetto, soprattutto per ciò che un tale termine sottintende: il giudizio. L’equiparazione cosmetica sottintende che le due istituzioni non siano in realtà sullo stesso livello per un giudizio implicito, e negativo, sull’operato delle istituzioni di Alta Formazione Artistica.

Disegnare e conservare

È vergognoso – ma non sorprende viste le parole dell’ex premier Conte a proposito degli «artisti che ci fanno divertire» – che proprio in Italia avvenga una tale discriminazione, tutta fondata sull’idea che l’arte sia qualcosa di passato, di meramente ornamentale, di sacrificabile, che non abbia a che fare con la ricerca scientifica o con la visione del futuro. Proprio nell’Italia del Rinascimento, invece, è nata l’idea che arte e scienza siano indissociabili. E mai come in questo caso nell’origine, dimenticata, si nasconde la più alta possibilità del nostro avvenire.

Accademie e Conservatori sorgono intorno alle due dimensioni che più mancano alla nostra società: disegno e conservazione. Le Accademie di Belle Arti sono, infatti, figlie dell’Accademia del Disegno (fondata da Vasari) e i Conservatori figli dei ricoveri per orfani dove tuttavia era possibile conservare la tradizione musicale. Viviamo nell’epoca con la più grande capacità di memorizzazione digitale, ma si tratta di un gigante con i piedi di argilla. I nostri supporti sono potenti, ma fragilissimi.

Molto spesso è stata vista come paradossale l’esistenza stessa di un museo di arte contemporanea. Che senso avrebbe, infatti, conservare, già da subito, l’arte più recente? Ma l’arte contemporanea non è semplicemente l’arte più recente (anzi oggi è, di fatto, un vero e proprio genere d’arte), quanto piuttosto l’arte che ha posto fin da subito la questione del difficile rapporto con il tempo, e soprattutto con il futuro. L’arte contemporanea ha messo al centro di ogni sua manifestazione la curatela, ovvero la scienza del prendersi cura dell’esposizione.

La conservazione non è che una delle due dimensioni fondamentali di ogni espressione artistica: la conservazione è la condizione di ogni vera costruzione. Non è possibile costruire (e nemmeno decostruire) qualcosa dal nulla. A sua volta, la costruzione è la condizione di ogni conservazione. Niente si conserva da solo, soprattutto niente di umano o di essenziale per l’umano. È necessaria una visione, un disegno. Non un disegno divino, ma l’idea di una costruzione umana possibile. Viviamo nell’epoca della crisi, non solo della conservazione, ma dell’idea del disegno.

Il genio dell’università

Le Istituzioni di Alta Formazione Artistica possono essere, inoltre, da monito verso le istituzioni universitarie classiche che hanno quasi completamente perso il senso della formazione. Mentre la burocrazia ha messo in atto un vero e proprio razzismo istituzionale nei confronti del comparto AFAM, ha di fatto privato della sua anima l’Università tradizionale, dove non si smette di star male e dove l’imperativo publish or perish ha annacquato sempre di più il publish e perfezionato il perish. A pagarne le conseguenze è stata la formazione degli studenti, in primo luogo. L’illusione meritocratica ha vinto ogni resistenza, soprattutto nei ricercatori più giovani, storditi dalla corsa alle abilitazioni.

Mentre l’AFAM chiede giustamente piena uguaglianza con le altre istituzioni universitarie, potrebbe essere un’ottima occasione per ripensare ricerca e formazione nel loro senso più alto. C’è bisogno di conservazione e disegno e, non a torto, il settore AFAM potrebbe essere considerato il genius dell’Università, quel doppio-demone, che secondo i latini abita in ognuno di noi dalla nascita e che gli artisti conoscono bene, perché invocato per ogni creazione futura.

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