L’arte si può iscrivere all’Università?

Appunti sui Politecnici delle Arti, a partire da un libro di Antonio Bisaccia

P. 19A - n. 48
Uliano Lucas, Assemblea studentesca davanti all'Accademia di Belle Arti in via Ripetta, Roma marzo 1968.

A partire dal libro di Antonio Bisaccia già recensito qui, proponiamo una riflessione sul processo di riforma che investe le Accademie di Belle Arti e le istituzioni AFAM in generale. Il dibattito proseguirà con altri interventi. 

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Il libro di Antonio Bisaccia, Burocrazzismo e arte. Cronaca di un’equiparazione cosmetica nell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica (Castelvecchi, 2020, € 16,50, prefazione di Tomaso Montanari), arriva a quarant’anni di distanza dall’ultima inchiesta sistematica sul mondo delle Accademie di Belle Arti e del sistema della formazione artistica nel suo complesso, condotta da Luciano Caramel e Francesco Poli e pubblicata con il titolo L’arte bella. La questione delle accademia di belle arti in Italia per le edizioni Feltrinelli nel 1979. Nei quattro decenni che separano queste pubblicazioni si sono scritti articoli, si sono fatti progetti, si è discusso, si sono organizzate manifestazioni, tavole rotonde e convegni, ma mancava, sulla questione, una pubblicazione che la riassumesse in tutti i suoi dettagli e contemporaneamente mettesse nero su bianco una serie di proposte offrendole al dibattito pubblico.

A leggere parallelamente i due testi ci si accorge di quanto le questioni che interessano queste istituzioni siano ancora le stesse e di quanta strada ci sia ancora da fare, benché molte cose siano cambiate nell’ultimo quarto di secolo. Ci si accorge anche delle dimensioni mostruose di quell’incredibile ginepraio burocratico e legislativo in cui si sono rimaste catturate le Accademia di Belle Arti, i Conservatori, gli ISIA (Istituti superiori per le industrie artistiche), L’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica Silvio D’Amico e L’Accademia Nazionale di Danza. Sono queste le istituzioni che compongono l’AFAM, il reparto dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica facente capo al Ministero dell’Università e della Ricerca, nello specifico: 20 Accademie di Belle Arti Statali e altre 19 legalmente riconosciute, comprese quelle pubbliche non statali, 59 Conservatori Statali, 5 ISIA, e altri 32 Istituti autorizzati a rilasciare gli stessi titoli. In tutto circa 155 Istituzioni che vivono in un limbo in cui sono costretti circa 76.000 studenti, e di questi 12.550 sono stranieri, e circa 15.000 docenti tra quelli stabilizzati, i precari e i contrattisti.

Limbo, sì, perché, ed è questo il tema intorno a cui ruota il saggio di Bisaccia – tutte queste istituzioni sono equiparate alle Università ma in una chiave cosmetica, come recita il sottotitolo, ovvero formalmente ma non nella materialità concreta dei fatti. Fatti che, come sempre, sono legati soprattutto all’investimento economico e alla volontà o incapacità politica di saper riempire di strutture e risorse materiali e giuridiche riforme che spesso, come in questo caso, risultano essere delle belle scatole purtroppo vuote. Ma proviamo a spiegarlo meglio.

Le Accademie di Belle Arti, e su queste, anche se non solo, si concentra soprattutto il libro, sono nate, nella loro forma attuale, con la riforma gentiliana del 1923. Una riforma che scorporava l’insegnamento dell’architettura dalle Accademie, inserendolo all’interno dei vari istituti universitari dell’epoca, e lasciava le altre arti all’interno di un ordinamento che, in virtù di un’idea tipicamente idealista del sapere e dell’estetica per cui la teoria e la prassi sono cose distinte e gerarchicamente ordinate , le condannava a essere un ghetto alle dipendenze del Ministero dell’Istruzione e di un apposito Ispettorato. Ovvero le relegava in un limbo a metà tra l’istruzione superiore e quella Universitaria, ma senza avere la dignità di quest’ultima che poteva competere solo alla teoria. In realtà le Accademia di Belle Arti sono molto più antiche, e nascono quando nel Rinascimento parallelamente alle varie Accademie filosofiche che intendevano rappresentare l’avanguardia del pensiero rispetto alla scolastica che monopolizzava ancora le Università gli artisti rivendicano la dignità intellettuale della loro attività e ribellandosi all’incardinamento della pittura, della scultura e dell’architettura all’interno delle cosiddette arti meccaniche, fondavano delle Accademia d’Arte che offrivano un’istruzione artistica superiore in sostituzione o compendio di quella artigianale offerta dalla botteghe.

La loro nascita è quindi direttamente legata all’organizzazione del sapere e alle sue trasformazioni tra medioevo e modernità, e alla nascita della figura moderna dall’artista che emergeva individualizzandosi dalla collettività artigiana e anonima all’interno della quale aveva lavorato in precedenza. Una storia in realtà molto complessa per la quale rimandiamo alla dettagliata ricostruzione che ne ha fatto Roberto Terrosi nel suo libro Storia del concetto d’arte. Un’indagine genealogica (Mimesis, 2006). Qui basti dire che molti secoli dopo la cultura Romantica diffonderà l’idea, fatta propria dalla pedagogia idealista, secondo la quale l’arte sarebbe esclusivamente questione di ispirazione, di genialità incompresa, di slancio creativo, di disperazione bohèmienne e solitudini consumate in povere soffitte. A onor del vero questo è più che altro il luogo comune creato dalla cultura romantica diffusa, e sembra che una certa pedagogia italiana dei primi del Novecento si sia ispirata proprio a questi luoghi comuni primo fra tutti quello secondo cui quello artistico non sarebbe un lavoro vero e proprio e il suo sapere non sarebbe un vero sapere non essendo scientificamente verificabile né riconducibile alla cristallina freddezza del concetto quando si è trovata a dover organizzare questi strani luoghi di istruzione per soggetti strambi e refrattari ai nobili saperi e alle professioni per bene a cui ci si prepara iscrivendosi all’Università.

Ecco, ci sembra che all’origine di quel razzismo evocato da Bisaccia nel titolo del suo libro, un razzismo coniugato con una burocrazia tra le più asfittiche del mondo, ci sia un peccato culturale che da un lato dà la misura dell’arretratezza e del provincialismo culturale in cui è stato chiuso per decenni questo nostro Belpaese, e dall’altro mostra come le istituzioni e la loro organizzazione non siano state capaci di recepire ed elaborare le innovazioni di un sapere che nel secondo dopoguerra, e soprattutto dagli anni Sessanta in poi, si riapriva all’Europa e alle punte più avanzate della ricerca in ambito estetico. Mi chiedo qui cosa sarebbero oggi le Accademie di Belle Arti se queste fossero state rinnovare realmente dal pensiero estetico di ispirazione fenomenologica, o da quello materialista di Galvano Della Volpe o da quello sperimentale di Dino Formaggio, per limitarci solo a qualche esempio. E invece no, l’organizzazione di queste istituzioni e del sapere che sono preposte a trasmettere, sono rimaste come congelate all’interno di un’eredità che non riescono a scrollarsi di dosso, quasi impermeabili alla tempesta delle avanguardie artistiche, filosofiche e letterarie che hanno stravolto la cultura del Novecento.

È così allora che nelle Accademie ci si è molte volte ridotti a conservare e trasmettere un sapere artigianale, refrattario a ogni teoria, difeso come una specificità da tutelare. O meglio, queste Istituzioni dagli anni Sessanta in poi hanno vissuto in un’ambivalenza che ha visto contrapporsi spinte conservative a difesa di interessi corporativi che condannavano le Accademie all’insignificanza culturale, e spinte innovative e sperimentali che cercavano non solo di recuperare il terreno perduto, ma proiettavano queste Istituzioni all’avanguardia nell’esplorazione delle trasformazione della sfera cognitiva ed epistemologica a venire. Ovvero le Accademie stesse hanno fatto propria quella divisione storica tra lavoro manuale e intellettuale – l’altra metà del peccato che sta all’origine del problema – chiudendosi molto spesso nella difesa di un lavoro manuale come se questo non avesse bisogno dell’intelligenza. E proprio a questa divisione faceva riferimento la riforma originaria, quella del 1923, da cui è scaturita la struttura attuale di queste Istituzioni. Ma si tratta di una divisione insostenibile da almeno cinquant’anni, da quando cioè le trasformazioni stesse del processo produttivo l’hanno resa del tutto obsoleta. E se è vero che i saperi e le loro organizzazioni cambiano anche in virtù delle trasformazioni dei processi produttivi, forse è veramente giunta l’ora perché le Accademie escano dalla comfort zone nella quale loro stesse si sono spesso sentite più sicure, e la riforma in corso da ormai vent’anni si riempia di contenuti concreti capaci di proiettarle in una dimensione in cui potrebbero rinnovare le nostre fabbriche del sapere e forse salvare anche le Università dal vicolo cieco in cui sono cadute.

Il libro di Bisaccia offre un quadro chiaro del sistema attuale delle Accademie e anche delle riforme che si sono succedute, prima fra tutte la 508 del 1999 che le ha inserite all’interno del Ministero dell’Università come istituzioni di alta cultura, formalmente autonome, e che erogano titoli di laurea triennali e magistrali (per essere più precisi: diplomi accademici e non lauree, e qui, nel dettaglio del linguaggio burocratese si nasconde ancora, sottolinea giustamente l’autore, una forma di razzismo culturale), ma non possono attivare il terzo ciclo dei dottorati di ricerca, perché questo è possibile formalmente, ma non nella concretezza non esistendo una normativa che regoli l’accesso ai fondi necessari, con grave danno per tutti quelli che scelgono questi studi. E ancora, recentissimo è l’accesso ai Bandi PRIN dalle quale prima erano escluse, come diverse sono le risorse destinate alle Accademie e quelle destinate alle Università e diverso è il trattamento economico dei docenti.

Aprire il capitolo del reclutamento dei docenti richiederebbe un intervento a parte, ma qui basti dire che quelli delle istituzioni AFAM sono incardinati i ruoli di prima fascia (dovrebbero essere gli ordinari) e di seconda fascia (non corrispondo agli associati, ma sono eredità dell’ex ruolo di assistenti che, come nelle Università, non esistono più. Che siano l’eredità di quel ruolo si evince dal fatto che la seconda fascia esiste solo per alcuni insegnamenti, quelli che una volta erano i corsi fondamentali). Mancano le figure del ricercatore e mancano i tecnici di laboratorio (a onor del vero nelle Accademie alcuni tecnici di laboratorio de facto, entrati informalmente come tali a copertura di insegnamenti complementari molto specifici per i quali si pescava un po’ a caso o in maniera clientelare, sono poi diventati docenti ope legis ormai quarant’anni fa. Nel ruolo dei tecnici andrebbero invece (ri)collocate quelle professionalità che non si dedicano alla ricerca, ma sono indispensabili alle Accademie). Gli studenti devono ottenere 180 crediti per un diploma Triennale e 120 crediti per quello Magistrale, non si capisce però perché i titoli che ottengono vengano chiamati diplomi accademici equipollenti alle lauree universitarie. O meglio, si capisce perché questa differenza linguistica, che nasconde anche alcune differenze giuridiche, dipende dal pregiudizio di cui parlavamo prima: Ma cosa te ne fai di una laurea in Pittura o Fotografia o Design? Che lavoro è?

Un appunto merita però anche la questione del reclutamento. Nelle Accademie negli anni hanno insegnato molti artisti e intellettuali di rilievo, tra questi Cesare Vivaldi, Alberto Boatto, Roberto Sanesi, Francesco Leonetti, Antonio Caronia, Giulio Turcato, Toti Scialoja, Luciano Fabro, Sergio Lombardo e molti altri ancora di generazioni successive. Certo, la comfort zone in cui queste si sono sentite protette per anni, ha fatto sì che anche il reclutamento dei docenti vivesse nell’ambivalenza tra artisti e artieri, intellettuali e insegnanti alla ricerca di promozioni, e che quindi i nomi significativi, che pure ci sono sempre stati, fossero troppo spesso un’eccezione. «Significativi» qui sta per impegnati nella ricerca e nella militanza artistica e culturale, come deve essere se la differenza tra la scuola e l’Università consiste effettivamente nella ricerca. Molti insegnanti invece, forse bravi tecnici, hanno occupato cattedre nelle Accademie senza mai dedicarsi né all’attività artistica né ad alcuna ricerca culturale. Ma anche qui qualcosa sembra cambiare negli ultimi anni, segno di una vitalità e un desiderio di rinnovamento che merita di essere riconosciuto. Non siamo sicuri che il metodo migliore da adottare sia quello dell’Abilitazione Artistica Nazionale, sul modello dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, che molte polemiche ha suscitato, e anche su questo il libro offre una disamina interessante, ma certo occorrerà risolvere anche l’annoso problema che affligge le Accademie, ovvero la mancanza cronica di personale docente: la maggior parte delle Accademie italiane vive grazie al lavoro precario dei contrattisti che svolgono un carico di lavoro pari a quello dei docenti incardinati, ovviamente senza averne gli stessi diritti e le stesse garanzie. Anche qui sono necessari investimenti che permettano a questa Istituzioni di rinnovarsi e rimanere in presa diretta con il mondo della produzione culturale e artistica garantendo la qualità della didattica. E probabilmente, se è vero che molto è stato fatto sul fronte dell’aggiornamento dei corsi di studio e dei settori scientifico-disciplinari, è anche vero che pure qui occorre intervenire ancora per liberare tutte le potenzialità insiste in una formazione artistica universitaria.

In realtà, e Bisaccia lo sottolinea, negli ultimi anni il numero degli studenti iscritti nelle Accademie si è moltiplicato esponenzialmente e questo è dovuto al fatto che la preparazione offerta da queste ultime sembra essere più contemporanea rispetto a quella di altri percorsi. Da un lato, in un mondo in cui l’immagine diventa prevalente rispetto al linguaggio scritto, sapersi esprimere attraverso queste risulta essere una capacità particolarmente utile nel mondo della iconosfera, dall’altro una preparazione che affianca un sapere tecnico a uno teorico risulta più completa e garantirebbe un più veloce inserimento nel mondo del lavoro. Su questo è utile soffermarsi ancora un momento perché se è vero che il mondo del lavoro sempre di più ricerca figure simili a quelle che escono da un percorso di studi artistici, il compito di un’ Accademia di Belle Arti non è e non può essere quello di formare tecnici da immettere nel mondo del lavoro. Se questo è il motivo del successo registrato da questi studi negli ultimi anni, occorre insistere sul fatto che, così come le Università non devono preparare al mondo del lavoro – come invece hanno voluto tutte le ultime riforme che le hanno investite snaturandole – anche le Accademie hanno un compito diverso che è quello di formare le persone accompagnandole nell’acquisizione di una coscienza critica che li renda liberi di muoversi successivamente nel mondo del lavoro come meglio credono in relazione ai saperi specifici che si sono acquisiti. Il pieno riconoscimento del valore universitario di questi studi non deve cioè passare attraverso l’idea di una formazione laboratoriale e quindi pratica che garantisca un successo lavorativo. Pena il retrocedere di queste istituzioni alla formazione professionale.

Non si tratta di una sottigliezza ma di un tornante fondamentale del processo di riforma in corso che ora, grazie anche a un impegno concreto da parte del ministro Manfredi, sembrerebbe prendere corpo definitivamente. Se il laboratorio è un elemento fondamentale della formazione accademica, e del resto lo è anche in alcuni studi già incardinati a pieno titolo nelle Università, come quelli in medicina – ve lo immaginate un chirurgo che avesse imparato a operare teoricamente e studiando solo sui libri senza fare pratica? – in architettura (un percorso non a caso mutuato, lo ricordavamo prima, proprio dalle Accademie) e in chimica, percorsi in cui l’attività pratica si affianca a quella teorica senza che questo costituisca una discriminante o una diminutio del valore di questi studi – il che dimostra ancora una volta di più l’assurdità del pregiudizio che pesa sulle Accademie – è anche vero che questo non può prevalere del tutto sulla formazione teorica – un chirurgo senz’altra formazione che quella del bisturi risulterebbe più simile a Jack lo squartatore  piuttosto che a un medico vero e proprio – e questo pone una questione dirimente. Nelle Accademie oggi si studiano molte materie teoriche (tra queste estetica, mass media, sociologia, storia dell’arte, storia del cinema, storia della fotografia ecc.), che sono però l’eredità di quei corsi speciali introdotti negli anni Settanta a integrazione delle materie fondamentali per lo più laboratoriali, ma ancora adesso il monte ore dei crediti necessari a laurearsi è sproporzionato a favore esclusivamente delle materie laboratoriali che si considerano prevalenti. All’interno di un corso di laurea in arti visive, o in design, o in cinema o fotografia, la preparazione teorica non può considerarsi una ciliegina sulla torta o un abbellimento, ma deve essere parte integrante di una formazione complessiva nella quale teoria e pratica si tengano veramente insieme. Lo squilibrio tra la prima e le seconda condanna sempre all’improduttività o all’artigianalità. È solo nel difficile equilibrio tra teoria e pratica che le Accademie possono giocare la loro partita e diventare veramente dei laboratori capaci di rinnovare le Università nel loro complesso.

Se nell’inchiesta nel 1979 Caramel e Poli si auguravano la trasformazione delle Accademie in dipartimenti universitari di cultura e arti visive che avrebbero dovuto affiancare e integrare probabilmente gli allora appena nati DAMS, nell’introduzione al libro di Bisaccia, Tomaso Montanari mette in guardia da un trasferimento tutto interno nelle strutture dell’Università che non avrebbe altro effetto che gettare le Accademie nella palude in cui le prima sono state costrette. Se questo è vero, e per questo Montanari propone che le Accademie mantengono la loro autonomia istituzionale pur dentro un pieno riconoscimento economico e giuridico di livello universitario, bisogna anche sottolineare che il rischio di mantenere la struttura di fondo delle Accademie, rischia di lasciare intatto il peccato di fondo dal quale queste sono nate: ovvero quella prevalenza di un sapere solo manuale rinnovato da un contorno di teoria. Il che lascerebbe irrisolto il problema di cui stiamo discutendo. Quello che serve, molto probabilmente, è un ripensamento generale dell’organizzazione del sapere all’interno delle Accademie che le trasformi in Politecnici delle arti in presa diretta con il mondo contemporaneo.

Per fare solo un esempio si pensi che nelle Accademie si continua a iscriversi alle scuole di Pittura, Scultura, Grafica d’arte, all’interno delle quali, molto spesso, si dipinge e si scolpisce come se le avanguardie del Novecento non fossero mai esistite. Certo non è del tutto vero, e molti docenti direbbero che i nomi di quelle materie sono dei gusci vuoti riempiti da una molteplicità di pratiche espressive spesso legate alla formazione e alla militanza artistica del docente, ma allora perché mantenere la struttura di quelle scuole, e non aprire invece dei corsi di laurea in Arti visive che accolgano strutturalmente la molteplicità dei linguaggi artistici contemporanei, senza trascurare ovviamente la pittura e la scultura che dovrebbero essere una precisa scelta culturale dello studente? Senza la pretesa di formare degli artisti – i corsi di laurea in lettere non formano poeti (lo notavano già Caramel e Poli nel ’79) benché alcuni, pochissimi in realtà, dei laureati in lettere diventino poi poeti e scrittori – ma con l’impegno di offrire una solida preparazione pratico-teorica in campo artistico il che tra l’altro offrirebbe la possibilità di proseguire i propri studi approfondendo gli aspetti teorici o quelli pratici, a seconda delle preferenze, specializzandosi in un senso o nell’altro. Se poi alcuni degli studenti diventeranno degli artisti, dei registi, dei musicisti, ben venga, ma la pretesa di formare esclusivamente queste figure probabilmente frena le potenzialità di questi percorsi di formazione. Certo è già così in molti casi e in molte Accademie, ma allora perché non dare forma a ciò che già è nella materialità delle cose? Perché non dare una struttura che organizzi la piena dignità di quel sapere sensibile, visivo e musicale, che ha fatto la fortuna del Belpaese?

Perché non superare del tutto i pregiudizi riconoscendo che la formazione estetica è indispensabile e ancora più urgente in un mondo attraversato da una profonda rivoluzione del sensibile e della nostra percezione del mondo? Come non capire che soltanto una pratica estetica ci metterà in grado di attraversare consapevolmente le rivolte logiche del tempo a venire e che soltanto un mondo esteticamente rivoluzionato, dalle immagini digitali al design, dal gusto alla percezione, sarà davvero bello da vivere e costruire insieme? In questo senso le Accademie di Belle Arti hanno una grande occasione, ma bisogna concretizzarla adesso, perché come sempre occorre essere tempestivi per cogliere l’occasione. In questa chiave il libro di Bisaccia, non a caso stilisticamente bello, nella convinzione che forma e contenuto siano una cosa sola, offre un contributo fondamentale.

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