Il «nuovo» Cile dei militari
Il Cile è una striscia di terra stretta e lunga dove il mondo finisce, ma anche ricomincia. Dal Cile è passata la ristrutturazione neoliberista che dal 1973 ha investito il mondo occidentale negli ultimi cinquant’anni, e da lì provengono una serie di eventi che sembrano annunciare la fine di un lungo periodo di distruzione della ricchezza collettiva. Un ciclo di lotte che affonda le sue radici nelle proteste studentesche del 2011 e che il 19 dicembre del 2021 ha portato alla presidenza della Repubblica il trentacinquenne Gabriel Boric, che di quel movimento fu uno dei protagonisti, e a una assemblea costituente che finalmente prova a voltare pagina rispetto alla dittatura superando il lungo periodo della cosiddetta transizione imperfetta. Poco prima della vittoria di Boric è uscito, per le edizioni ombre corte, lo studio dello storico Alessandro Guida, Il “nuovo” Cile dei militari, che permette di gettare uno sguardo profondo sulle strutture materiali e psicologiche con le quali fanno i conti, decostruendole, quei processi di profondo rinnovamento a cui assistiamo. Per questo abbiamo deciso di proporre ai nostri lettori un estratto dall’Introduzione di questo libro. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.
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Quando si pensa a dittature come quella che si affermò in Cile dopo il colpo di Stato che rovesciò Salvador Allende l’11 settembre del 1973, la prima cosa che viene in mente è, nella stragrande maggioranza dei casi, e comprensibilmente, la violenza. L’associazione con le uccisioni, le sparizioni, i campi di detenzione e le torture poste in essere da militari senza scrupoli, risulta quasi immediata. Una percezione, questa, diffusa sin dagli anni Settanta del Novecento, quando i crimini realizzati dai regimi civico-militari che si affermarono in America Latina in quel periodo incominciarono ad essere oggetto dell’attenzione mondiale. Occorre dire che c’è tanta verità in questo modo, che, in parte, perdura tutt’oggi, di interpretare la questione, ma probabilmente non vi è tutta la verità.
L’impiego sistematico della violenza rappresentò indubbiamente un elemento che contraddistinse il regime cileno. Del tutto eccezionali e senza ritorno, si potrebbe dire, anche per il panorama latinoamericano, sarebbero stati, infatti, il carattere apertamente sanguinario della Giunta militare e la distruzione del sistema politico, sociale ed economico vigente cui il nuovo regime avrebbe dato luogo. L’istituzionalizzazione di un vero e proprio Stato del terrore, mediante il ricorso sistematico ai più diversi metodi repressivi, rappresentò un tratto tipico della dittatura cilena. La chiusura del Parlamento, la messa al bando dei partiti di opposizione, la cancellazione della libertà di stampa e il controllo quasi totale su massmedia, istruzione e cultura, l’azzeramento dei diritti dei lavoratori e di qualsiasi forma di Stato sociale, vennero preceduti e, in un secondo momento, accompagnati da un’azione repressiva costante, che avrebbe caratterizzato il regime militare per tutta la sua durata.
L’esercizio della violenza fu immediato e manifesto, sebbene caratterizzato inizialmente da un certo grado di disorganizzazione. Le immagini dello stadio di Santiago trasformato in un immenso centro detentivo a cielo aperto suscitarono l’orrore e le proteste di gran parte dell’opinione pubblica internazionale e di molti governi. Soprattutto nelle settimane immediatamente successive al golpe, l’azione delle Forze Armate (ff.aa.) presentò tutte le caratteristiche di un’invasione.
Ben presto, lo stato di assedio, giustificato con un pericolo guerrigliero inesistente, servì a coprire una repressione generalizzata e, soprattutto, sistematica. Coercizione, torture e uccisioni si affermarono come componenti abituali dello stile di governo. L’obiettivo dei militari era quello di estirpare ogni minaccia di sovversione, annichilire qualsiasi forma di dissenso e rimuovere ogni possibile intralcio sulla strada dell’instaurazione di quella democrazia protetta e autoritaria che sarebbe stata considerata come un’alternativa rispetto alla stessa democrazia occidentale.
In una fase iniziale, occuparono un ruolo di primo piano l’Esercito, l’Aviazione, la Marina, i Carabineros de Chile e, in particolare, i loro servizi di intelligence. Successivamente, venne formalizzata l’esistenza di un servizio di sicurezza dedito esclusivamente alla repressione politica, la Dirección de inteligencia nacional (dina), che svolse compiti piuttosto ampi in questo ambito, che andavano dalla raccolta di informazioni all’eliminazione dei dissidenti, in patria e all’estero. Operazioni che rientravano in quella che costituì un’attività centrale dello Stato autoritario cileno e che inclusero sequestri, applicazione di torture inumane, eliminazione fisica dei detenuti.
Secondo le stime ufficiali, circa 3.500 persone furono assassinate, ma la lunga detenzione in campi di concentramento o in appositi centri di tortura segreti sparsi praticamente in tutto il Cile investì decine di migliaia di persone, che vennero sottoposte ad ogni sorta di violazione dei diritti umani. Si affermò anche il fenomeno dei desaparecidos, e tantissimi perseguitati politici furono costretti ad abbandonare il Paese, dando il via ad un fenomeno praticamente inconsueto della storia nazionale, quello dell’esilio politico. In realtà, come sempre accade in occasione delle cosiddette guerre sporche, è molto difficile parlare di numeri. A maggior ragione perché, nel caso cileno, gli stessi dati raccolti dalle varie commissioni di indagine, nazionali ed internazionali, istituite dopo la dittatura, risultano essere discordanti.
La violenza occupò, ad ogni modo, per dimensioni, caratteristiche e durata, un posto di primo piano nel regime in questione. La stessa particolare “rivoluzione” che, a partire dalla metà del 1975, passò attraverso lo smantellamento dello “Stato imprenditore e di compromesso” per realizzare il programma radicale di riforme economiche ultraliberiste che avrebbe portato il Cile a mettere in pratica una versione del liberismo economico importato dalle aule universitarie nordamericane, non può essere spiegata senza tenere in considerazione il clima di repressione di quegli anni.
Non è un caso, allora, che buona parte degli studi condotti sino ad oggi sul regime cileno si siano soffermati prevalentemente sulla sua identità coercitiva e, nello specifico, sulla violazione sistematica dei diritti umani, sull’utilizzo delle tecniche repressive e sugli organismi preposti alla loro attuazione, partendo, nella maggior parte dei casi, dalle testimonianze dirette dei sopravvissuti. Nonché sulle profonde trasformazioni economiche realizzate dalla Giunta di governo con il contributo dei ben noti Chicago boys.
Come ha sottolineato Verónica Valdivia Ortiz de Zárate, il fatto che la storia del regime militare cileno sia stata contrassegnata dalla repressione, dalla dimensione neoliberista del proyecto refundacional portato avanti dalla Giunta e dall’autoritarismo del nuovo tipo di democrazia cui questa avrebbe dato luogo, ha favorito essenzialmente l’immagine di una dittatura associata a una tecnocrazia e ai grandi gruppi economici, interpretata come lo strumento per imporre nuovamente il capitalismo in Cile e per realizzare la sua integrazione nel capitalismo transnazionale. Un’immagine, questa, che ha fatto sì che venissero lasciati sullo sfondo altri aspetti di questa esperienza.
Lo scopo del presente lavoro è quello di contribuire a mettere in evidenza come quello cileno sia stato qualcosa di molto più complesso di un regime del terrore guidato da gorilla dediti a pratiche di sterminio. Fu indubbiamente questo, ma fu tanto altro ancora, e questo tanto altro ancora invita ad un approccio più problematico alla questione e, allo stesso tempo, amplia il fronte delle ferite che le dittature civico-militari di quegli anni causarono, come quello delle responsabilità concrete di queste lacerazioni. Come ammonì l’autrice di un libro di denuncia di ciò che stava accadendo in Cile, che circolò in Italia nei mesi immediatamente successivi al colpo di Stato, “bisogna cercare di capirla, questa bestia”; e per capirla non basta applicare etichette come “fascista”, “nazista”, “gorilla”, che sono divenute col tempo epiteti, ma occorre starla a sentire, seguirne il modus operandi, sul terreno repressivo come negli altri campi.
La dittatura cilena operò sulla base di idee-guida ben definite, elaborate, il più delle volte messe per iscritto e intorno alle quali dibatterono costantemente intellettuali o presunti tali, e la cui presenza è riscontrabile nella teorizzazione giuridica, nelle formulazioni alla base del (nuovo) impianto istituzionale, e anche in tanti altri campi, come quelli dell’istruzione di ogni ordine e grado e della cultura. Sul fronte interno, la popolazione venne letteralmente conquistata anche attraverso una manipolazione che fu implacabile, permanente e che venne condotta attraverso tutti i mezzi disponibili. La propaganda e la guerra psicologica del regime si avvalsero di tutti gli strumenti a disposizione; operarono anche sulla sfera dell’inconscio; furono continue e permanenti; si fondarono sul lavoro di esperti della comunicazione, tecnici dell’influenza, psicologi, sociologi, e su analisi di tipo scientifico. Sul fronte esterno, quella messa in campo dalla dittatura cilena fu, probabilmente, una delle più grandi e dispendiose campagne di propaganda del periodo della Guerra fredda, dopo, naturalmente, quelle realizzate dalle superpotenze a capo dei due blocchi contrapposti, Stati Uniti e Unione Sovietica.
Il tutto si produsse nel quadro di una versione specifica e originale dell’ideologia della sicurezza nazionale, accanto alla quale iniziò a farsi largo, nella seconda metà degli anni Settanta, l’ideologia del mercato, che avrebbe a sua volta contribuito al disciplinamento della popolazione. E il percorso verso questo nuovo tipo di società, perfettamente integrata, partecipativa e priva di elementi conflittuali, passò necessariamente per un cambio di mentalità, che gli uomini del regime perseguirono intervenendo a tutti i livelli.
Sia la fase della recuperación nacional che quella fundacional di un nuovo ordine socio-economico vennero accompagnate, quindi, dal costante tentativo di plasmare coscienze, di imporre dei cambi profondi anche sul piano ideologico e culturale. In breve, la lacerazione del quadro politico, economico e sociale esistente, o, meglio ancora, la rottura storica che il regime cileno produsse, portò con sé anche la conduzione di una guerra sul fronte della psiche umana, che si sarebbe spinta fino allo sforzo ultimo di cambiare la cultura, le abitudini, i valori, i costumi, il modo di pensare di un’intera comunità.
Questo lavoro intende allacciarsi a quei filoni di ricerca più recenti che, in ambito storiografico, in particolare tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, hanno cercato di lasciarsi alle spalle le rigidità degli schemi interpretativi propri degli studi classici sulla Guerra fredda, in prevalenza di matrice statunitense. Ci si riferisce, in particolare, ai contributi di storici come Daniela Spenser, Gilbert M. Joseph, Tanya Harmer, Alfredo Riquelme Segovia, Olga Ulianova, Aldo Marchesi, Vanni Pettinà, solo per richiamarne alcuni, che hanno promosso nuove e originali chiavi di lettura per esaminare gli eventi che si produssero nella regione e in Cile durante il conflitto bipolare, proponendo, tra le varie cose, un recupero della dimensione politica, economica e sociale della storia latinoamericana, liberandola da una condizione di subalternità rispetto alle dinamiche del contesto internazionale.
Parimenti, grandissima importanza, ai fini della realizzazione del presente contributo, e, soprattutto del lavoro di ricerca che lo ha preceduto, hanno rivestito gli studi, ancor più recenti, relativi alle reti politiche e culturali transatlantiche, che stanno contribuendo a fare luce sulle connessioni e circolazioni (di idee, uomini, mezzi, ecc.) tra America Latina ed Europa nel corso del Novecento, grazie all’adozione di una prospettiva finalmente transnazionale.
Ma tra i filoni di ricerca nuovi e originali che hanno cominciato a prendere corpo negli ultimi anni, e ciò anche grazie ad una maggiore facilità di accesso alle fonti, un posto assolutamente centrale è occupato dal campo di studi che sta indagando la dimensione culturale della Guerra fredda. Le possibilità offerte, in particolar modo nell’ultimo ventennio, dall’analisi del conflitto tra le due superpotenze da prospettive differenti dal piano strettamente militare o politico-diplomatico, con relativa affermazione di categorie come quelle di guerra non convenzionale, retorica della guerra fredda, propaganda, cultura della guerra fredda, guerra psicologica, e così via, sono state determinanti ai fini della realizzazione della presente ricerca.
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