L’ascesa del femminismo neoliberista

Ugo Mulas, La donna nella fabbrica - servizio realizzato alla Olivetti.
Ugo Mulas, La donna nella fabbrica - servizio realizzato alla Olivetti.

Proponiamo un estratto dal libro L’ascesa del femminismo neoliberista di Catherine Rottenberg appena uscito per ombre corte, con la traduzione di Federica Martellino e una prefazione di Brunella Casalini. In questo saggio l’autrice sostiene che il femminismo neoliberista legittima lo sfruttamento della stragrande maggioranza delle donne mentre disarticola qualsiasi tipo di critica strutturale. Non sorprende, quindi, che questo nuovo discorso femminista converga con le forze conservatrici che, in nome della parità di genere e dei diritti delle donne, promuovono programmi razzisti e anti-immigrazione o giustificano gli interventi nei paesi a maggioranza musulmana. Rottenberg conclude quindi sollevando domande urgenti su come riorientare e rivendicare con successo il femminismo come movimento per la giustizia sociale. 

Secondo molti progressisti americani, la campagna presidenziale di Hillary Clinton del 2016 e il forte sostegno che ha ricevuto dalle organizzazioni femministe, avrebbero segnato uno dei momenti clou della rinascita di un’agenda femminista negli Stati Uniti. Nei giorni precedenti alle elezioni vi era un’aspettativa sempre più intensa e quasi palpabile, tra un vastissimo numero di persone, circa la possibilità di inaugurare una nuova era in cui, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, a capo della nazione più potente del mondo, ci sarebbe stata una donna. Di conseguenza, al risveglio dell’inaspettata – e per molti scioccante – disfatta di Clinton, si è rivelato molto più difficile valutare la portata del fatto che una donna si stesse candidando alla presidenza sostenuta da un partito a favore delle donne e identificato come “femminista”.

Secondo numerosi opinionisti e critici, la vittoria di Donald Trump non è che una rabbiosa reazione proprio nei riguardi del femminismo e dei risultati da esso effettivamente conseguiti. La rapidità con la quale il presidente Trump ha tentato di trasformare in realtà l’agenda sessista e antiabortista della propria amministrazione sembra in effetti dar credito alla posizione secondo cui staremmo assistendo, per l’ennesima volta, all’ennesimo violento colpo di coda contro l’emancipazione delle donne. Ci sono pochi dubbi sul fatto che abbiamo fatto il nostro ingresso in un periodo particolarmente minaccioso della storia degli Stati Uniti, specialmente da quando la nuova amministrazione appare piuttosto determinata nell’erosione di molto di ciò che rimane delle istituzioni, delle agenzie e delle consuetudini del paese, per quanto imperfette potessero essere.

In un’intervista rilasciata non molto tempo dopo l’insediamento di Trump, Naomi Klein ha sostenuto che la vittoria di Donald Trump abbia condotto a un autentico “colpo di stato da parte delle imprese”, mentre Cornel West ha scritto un articolo per dire che gli Stati Uniti hanno fatto il loro ingresso in una sorta di neofascismo. Un assalto conclamato ai diritti delle donne e alla parità di genere, d’altronde, sembra essere dietro l’angolo. Il colpo dell’amministrazione statunitense contro i diritti riproduttivi è già stato sferrato, prima con l’ordine esecutivo di ristabilire il cosiddetto Global Gag Rule – che proibisce alle organizzazioni non statunitensi e non governative che ricevono fondi statunitensi di informare le donne sull’aborto, creando consapevolezza attorno alla questione ed eventualmente prendendola in carico – e poi legiferando il definanziamento di organizzazioni come Planned Parenthood. Brigitte Amiri, che scrive per l’American Civil Liberties Union (ACLU), ha scritto che “è fuori questione che Trump stia attivamente tentando di fermare il progresso verso la piena eguaglianza delle minoranze di genere e sessuali e il pieno accesso ai diritti riproduttivi”.

A prescindere da quanto possa trapelare di ciò succederà nella parte restante del mandato di Trump, sembra in ogni caso chiaro che ci troveremo di fronte a una quantità estrema di danni. Tuttavia, la gran parte di questo libro è stata scritta durante quello che, rispetto a oggi, sembrava essere un periodo molto diverso, un periodo nel quale determinate posizioni progressiste – come il tanto agognato riconoscimento dei pari diritti di lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queers e questioning – sembravano muoversi finalmente dai margini verso il consenso istituzionale e popolare. Si pensi al Marriage Equality Act, o alla già citata decisione da parte di un grande partito nazionale di candidare per la prima volta alla presidenza degli Stati Uniti una donna, che peraltro si identifica come femminista. Molti a sinistra – inclusa la sottoscritta – nutrivano sentimenti ambivalenti nei confronti di questi “progressi”, in larga parte perché dichiararsi progressisti, nel senso comune mainstream, sembrava inevitabilmente fondarsi su una deliberata noncuranza della devastazione provocata dalle politiche neoliberiste – non ultimo sulla vita delle donne povere e non bianche –, oltre che sulla invisibilizzazione delle ingenti diseguaglianze strutturali e dell’oppressione agita invariabilmente su tantissimi altri fronti.

Ma, come ho detto, dal 20 gennaio 2017 il clima politico statunitense si è trasformato in modi che in pochi avevano previsto in questi termini. Nello Studio Ovale ora alberga un magnate senza scrupoli e sprovvisto di qualunque esperienza politica – un presidente che in realtà ha già perso il sostegno popolare di almeno tre milioni di voti. L’amministrazione Trump, inoltre, è carica di inquietanti, e palesemente inconciliabili, contraddizioni. Il suo vicepresidente è un cristiano-evangelico fortemente contrario all’aborto, mentre il capo dei servizi segreti è un indefesso suprematista bianco; al contempo, gli altri membri del governo – quelli che, almeno al momento, si trovano alla guida delle più importanti agenzie governative – incarnano letteralmente i principi neoliberisti nella loro forma più estrema, sostenendo in particolare l’intensificazione della deregolamentazione, della privatizzazione e del rafforzamento del capitale, nonché mostrando la più totale indifferenza nei riguardi degli ultimi scampoli della rete di sicurezza del New Deal, o delle urgenti e necessarie politiche ambientali. Ciò che colpisce maggiormente è come il neoliberismo, solitamente associato alla rimozione di ogni ostacolo al libero flusso transnazionale di capitali e di beni, possa essere diventato l’alleato di un fanatismo nazionalista e nativista, anche in ambito economico. Benché l’attuale congiuntura tra il neoliberismo e ciò che Cornel West ha definito “neofascismo” non costituisca forse nulla di troppo inedito per il panorama politico contemporaneo – dal momento che questo connubio si è già verificato in altri paesi – è tuttavia scioccante, per molte persone in tutto il pianeta, assistere a questa spaventosa fusione negli Stati Uniti. Le azioni messe in atto dall’amministrazione Trump, il suo turbinio di ordini esecutivi estremamente controversi, hanno già scatenato mobilitazioni di massa e forme di protesta come non se ne vedevano da decenni1. Forse, abbiamo fatto il nostro ingresso in un’epoca di rinnovata resistenza popolare di massa, in cui sarà data nuova vita a vecchi concetti quali quelli di giustizia sociale e di eguaglianza, ossia gli unici in grado di costituire un’alternativa sia alle tendenze neofasciste della nuova amministrazione, sia alla razionalità neoliberista del mercato che, ovunque, persiste nel proprio processo di colonizzazione del mondo. O questa, almeno, come tenterò di illustrare meglio nel libro, è la mia speranza.

Al netto di tali premesse, e come diventerà via via più chiaro, questo libro mira tuttavia a render conto di un fenomeno diverso, ossia di quel groviglio tra neoliberismo e femminismo che, da quando esiste, viene considerato come parte integrante della politica progressista. L’odissea di questa ricerca inizia nel 2012 quando, dopo un lungo periodo di latenza in cui ben poche donne – e specialmente quelle più potenti – volevano identificarsi pubblicamente come femministe, lo status quo inizia a cambiare tanto rapidamente quanto tragicamente. All’improvviso, molte donne di classe medio-alta, negli Stati Uniti, iniziano a proclamarsi a gran voce femministe, una dopo l’altra: l’ex direttrice del Policy Planning del Dipartimento di Stato americano Anne-Marie Slaughter, l’ex presidente del Barnard College Debora Spar e la direttrice operativa di Facebook Sheryl Sandberg, fino alla giovane star hollywoodiana Emma Watson, o a celebrità dell’industria musicale come Miley Cyrus e Beyoncé. Il femminismo diventa di colpo accettabile, molto popolare, e ciò avviene attraverso modalità che semplicemente non aveva mai conosciuto prima.

La prospettiva di una rinascita del discorso femminista appare da subito molto promettente, specialmente alla luce dei danni macinati dal “postfemminismo” – che Rosalind Gill descrive come un complesso “intreccio di idee femministe e antifemministe”2 –, il quale aveva precedentemente svolto a dovere il compito di arginare la necessità di un movimento di massa, e organizzato, delle donne. Ciononostante, molte attiviste di lungo corso e molte studiose femministe hanno mostrato una certa cautela nei riguardi di quella recente riemersione, innanzitutto perché sembrava avvenire all’insegna della completa assenza di parole-chiave che invece, dai discorsi e dai dibattiti femministi, sembravano indissociabili: eguaglianza, emancipazione, giustizia sociale. Altre sembravano le parole-chiave atte, testardamente, a rimpiazzarle: felicità, conciliazione famiglia-carriera, responsabilità, “farsi avanti” [lean in]. Così, incuriosita dall’ampia proliferazione – e dall’ampia accettazione – di un nuovo lessico femminista fondato sulla paradossale omissione di tanti concetti-chiave del femminismo stesso, ho iniziato a seguire l’effetto individualizzante, e di “anestetico” politico, di questa nuova variante di femminismo. La comparsa di questo nuovo lessico femminista mi ha spinta ad analizzare la nuova visibilità, del femminismo stesso, nei prodotti culturali mainstream: dai giornali agli articoli di riviste, alle serie tv, alle varie autobiografie di donne famose, alle guide femminili su “come avere successo”, fino ai blog dedicati alle neo-mamme. Volevo capire come mai questa nuova forma di femminismo fosse diventata pubblicamente accettabile, guadagnando una così ampia popolarità, e tentavo di indagare quali rapporti quel cambio di registro intrattenesse realmente con la presunta legittimità che il femminismo stava improvvisamente ricevendo dall’immaginazione popolare statunitense. L’interesse nutrito nei riguardi questo nuovo fenomeno culturale è poi culminato quando svariate personalità politiche conservatrici – dalla premier inglese Theresa May a Ivanka Trump negli Stati Uniti – si sono aggiunte alle fila di una già sorprendente lista di donne pubblicamente identificatesi come femministe.

È sempre difficile cogliere un particolare fenomeno culturale mentre esso stesso accade – quasi in tempo reale – e questo è senza dubbio più vero specialmente se gli eventi si susseguono così rapidamente. I capitoli che seguono registrano e, al contempo, analizzano l’ascesa di ciò che definisco “femminismo neoliberista”. Il libro prende le mosse dalla percezione di una crisi sempre più forte della concezione classica dello spazio della teoria liberale – ossia, la rigida distinzione tra pubblico e privato. Si tratta infatti di una crisi che ha sortito effetti molto significativi su tutto il pensiero femminista liberale, così come sulla sua agenda politica di trasformazione sociale. Benché tale crisi non sia particolarmente nuova, e le sue origini non siano univoche, essa però coinvolge le contraddizioni interne dello stesso liberalismo, soprattutto quella per cui lo spazio, nell’immaginario politico liberale, sia già da sempre segnato dalla linea del genere. Come sosterrò, le ragioni di questa acutizzazione sono da ricondurre a due ragioni: la prima è data dall’ingresso di un numero sempre crescente di donne del ceto medio nel mondo del lavoro professionalizzato; la seconda, invece, dall’accresciuta egemonia della razionalità neoliberista. Facendo riferimento ai lavori di Wendy Brown, di Michel Feher e di Wendy Larner, per “neoliberismo” non intendo semplicemente un sistema economico o un insieme di politiche fondate sulla privatizzazione e sulla deregolamentazione del mercato; piuttosto, intendo una razionalità politica, una normatività, che oscilla costantemente tra “pubblico” – l’amministrazione dello stato – e “privato” – i meccanismi psichici del soggetto –, plasmando gli individui come agenti di potenziamento del capitale. La conversione costante e incessante, a opera della razionalità neoliberista, di tutti gli aspetti del nostro mondo in “atomi” del capitale, inclusi gli stessi esseri umani, produce soggetti individualizzati, “imprenditori di se stessi”, costretti a investire su di sé, considerati peraltro gli unici responsabili della propria cura e del proprio benessere. È significativo – ancorché paradossale – notare che proprio nel momento in cui la razionalità del mercato ha acquisito maggior ascendenza, questo nuovo tipo di femminismo ha fatto eclissare il postfemminismo, che studiose come Angela McRobbie e Rosalind Gill avevano già definito come un prodotto stesso del neoliberismo3. Dopo aver corroso il femminismo liberale e partorito il postfemminismo, la razionalità neoliberista si cimenta ora nella produzione di una nuova forma di femminismo. Tutto ciò solleva una serie di domande: perché mai il neoliberismo avrebbe bisogno del femminismo? In quali inedite modalità, rispetto al postfemminismo, potrebbe operare il femminismo neoliberista, e quali risultati potrebbe conseguire? Che tipo di lavoro culturale questa variante di femminismo fa emergere in questo particolare momento storico? E, infine, quali sono esattamente le sue modalità di azione? Questo libro mira a fornire un’analisi accurata della logica sottesa al femminismo neoliberista, dei suoi complessi meccanismi, e di come esso agisce per conseguire una serie di obiettivi, su tutti la produzione di un nuovo soggetto femminista.

[…]

Una delle tesi centrali di questo libro, infatti, è che la razionalità neoliberista potrebbe ben necessitare del femminismo per risolvere – almeno temporaneamente – una delle sue contraddizioni interne, proprio in relazione al genere. In quanto ordine economico, il neoliberismo fa chiaramente affidamento sulla procreazione e sul lavoro di cura gratuito per garantire la riproduzione e il mantenimento del capitale umano. Per esempio, le donne lavoratrici (ma anche gli uomini) acquistano sempre più frequentemente, e dunque esternalizzano, servizi di cura nei riguardi di bambini e/o anziani. In quanto razionalità politica, tuttavia, il neoliberismo non conosce altro lessico al di fuori della riproduzione del valore e del lavoro di cura. Questo non solo perché gli individui sono stati sempre più convertiti in capitale umano generico (attraverso l’occultamento del genere), ma anche perché la divisione tra sfera pubblica e privata – che caratterizza il pensiero liberale e la tradizionale divisione sessuale del lavoro – è stata erosa dalla conversione di tutto in capitale, e attraverso l’infiltrazione di quella razionalità tipica del mercato in tutte le sfere della vita, incluse quelle private. In aperto contrasto con la teoria liberale, in altre parole, il neoliberismo non ha un immaginario politico all’infuori di quello del mercato e dei suoi parametri, e questo immaginario sta colonizzando tutti gli ambiti dell’esistenza, incluso l’ambito privato.

La premessa alla base di questo libro è che sia gli uomini sia le donne – e in particolare quei soggetti già provvisti di un certo capitale economico, sociale, culturale e simbolico – sono sempre più indotti a pensarsi come capitale umano generico, a seguito di un processo che li spoglia di ogni valore (o di qualunque marcatore identitario), a eccezione di quello economico. Tale ingiunzione contribuisce a creare soggetti governati da un sistema valoriale fondato sul calcolo costi-benefici e che, se vogliono vivere – figurarsi, poi, se vogliono farlo in buona salute –, devono organizzare in un certo modo le proprie vite, compiere investimenti intelligenti su se stessi nel presente per aumentare le aspettative di successo nel futuro.

Parallelamente a questa premessa, tuttavia, la tesi di questo libro è che il femminismo neoliberista debba essere inteso come una sorta di grande respingimento della totale conversione delle donne istruite e in carriera in capitale umano generico. In maniera paradossale e controintuitiva, dal momento che preserva la procreazione come parte della traiettoria normativa di vita delle donne “ambiziose”, e la conciliazione come suo frame normativo e come fine ultimo, il femminismo neoliberista contribuisce a risolvere una delle tensioni costitutive del neoliberismo, facendo sì che le donne in ascesa nel lavoro desiderino una “felice conciliazione tra la carriera e la famiglia” e che tutta la responsabilità per la riproduzione stia tutta sulle loro spalle.

Note

Note
1Si veda il sito creato da Jeremy Pressman e Erica Chenoweth, Crowd Counting Consortium, disponibile online: http://sites.google.com/view/crowdcountingconsortium/home – consultato il 26 maggio 2017.
2Rosalind Gill, Postfeminist Media Culture: Elements of a Sensibility, in “European Journal of Cultural Studies”, 10, 2, 2007, pp. 147-166.
3Cfr. Angela McRobbie, The Aftermath of Feminism: Gender, Culture, and Social Change, Sage, London 2009.

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