Il personale è politico

Un'opera di Claire Fontaine

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Claire Fontaine, «Il personale», 2023, installation view Elica, Fabriano. Courtesy l'artista e Fondazione Ermanno Casoli. Foto di Carlo Romano .

Claire Fontaine – la nota artista collettiva nata a Parigi nel 2004 e ispirata nel nome al ready-made più famoso di Duchamp e a una marca di quaderni francesi – ha vinto la XXI edizione del Premio Ermanno Casoli a cura di Marcello Smarrelli. Un premio nato in memoria del fondatore dell’azienda Elica, da sempre attento al ruolo strategico dell’arte contemporanea nella formazione delle nuove generazioni e degli stessi lavoratori, e che in passato ha visto protagonisti, tra gli altri, Francesco Arena, Danilo Correale ed Eugenio Tibaldi. A Fabriano, sede dell’azienda, domenica 24 settembre si è inaugurata l’opera «Il personale» che rimanda al famoso slogan di Carol Hanisch «Il personale è politico», chiave di volta della radicalizzazione dei movimenti femministi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Il led di Claire Fontaine attualizza questo concetto ribadendo che oggi più che mai non esiste una divisione tra sfera privata e sfera pubblica, tra dentro e fuori, tra vita quotidiana e la dimensione sociale e politica del vivere collettivo. È stato il movimento femminista, in effetti, a insegnarci come la questione di genere e dei rapporti di potere al loro interno fosse decisiva per ribaltare le radici patriarcali dello stesso movimento operaio e della cultura marxista.

Se, insomma, il tuo compagno è operaio sfruttato in fabbrica e padrone sfruttatore a casa e sotto le lenzuola, questa è una questione politica la cui soluzione non è rimandabile se davvero si vuole trasformare lo stato di cose esistente, e non c’è rivoluzione politica possibile che non esiga, prima di tutto, una radicale trasformazione della vita quotidiana e delle sue dimensioni. Prendere coscienza della propria oppressione – una subordinazione che passa attraverso l’interiorizzazione di un’immagine del femminile costruita dal maschile a proprio uso e consumo e per il proprio piacere, proprio così come il colonizzato è il risultato di un costrutto culturale e politico del colonizzatore –, è il primo e indispensabile passo per avviare un processo di liberazione. Questo hanno insegnato i gruppi di autocoscienza femministi degli anni Settanta in cui discutere di sesso, lavoro domestico e di cura – fondamentale intorno alla questione del salario per il lavoro domestico fu l’attività svolta dal Collettivo Internazionale Femminista di Padova co-fondato da Mariarosa Dalla Costa ‒, gravidanza e aborto, significava porre sul tavolo una serie di questioni che si sarebbero rivelate man mano sempre più all’ordine del giorno dell’agenda politica e culturale dei movimenti.

Oggi non è forse vero che l’infelicità e la sofferenza che si producono sui luoghi di lavoro, le discriminazioni di genere, la tossicità delle relazioni, i femminicidi, sono questioni politiche nelle quali la dimensione privata e quella pubblica sono indissolubilmente intrecciate l’una all’altra? E non è una questione politica il modo di condurre e organizzare le nostre vite quotidiane, il nostro abitare, il modo in cui mangiamo e beviamo e il modo in cui costruiamo le relazioni con l’altro? Un «altro» che, se ci pensiamo bene, non è più solo il femminile vs il maschile – il movimento LGBT+ ha decostruito un certo identitarismo ereditato anche dai movimenti – ma è la forma di vita umana vs il vivente non umano, l’identità vs, appunto, il non identico. La questione «ambientale» , la sofferenza esistenziale, il consumo sempre crescente di psicofarmaci, la pornografia come unico modello educativo nella relazione tra i sessi, sono tutti temi che rimandano al senso della frase «incisa» nel led da Claire Fontaine: Il personale è politico.

E, tornando al progetto pensato per il Premio Casoli, è importante sottolineare come a precedere la realizzazione e quindi l’installazione dell’opera, sia stato un workshop tenuto dall’artista con le lavoratrici dell’azienda. Colletti bianchi, piuttosto che colletti blu, a partire da una realtà lavorativa nella quale è spesso il personale impiegato in funzioni amministrative, soprattutto se femminile, a trovarsi in condizioni di particolare pressione e auto-sfruttamento, a volte inconsapevole o non del tutto cosciente, per cui è fondamentale passare attraverso una forma contemporanea di «autocoscienza» che renda evidente la propria condizione. Una presa di coscienza che coincide con una forma di liberazione, come dicevamo anche prima, e che, in questo caso, dimostra il ruolo politico che può avere l’arte come attivatore di un processo collettivo di liberazione.

Una versione più breve di questo articolo è uscita su «il manifesto» il 26.09.2023

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