Il punto di vista

Il demone della politica di Mario Tronti

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Andreco e Motus, Erba cattiva, Santarcangelo 2015 – photo Ilaria Scarpa

Da Marx alla spiritualità, passando per Carl Schmitt e la teologia politica. Sempre dentro il partito. Così si potrebbero sintetizzare, in un modo certo fin troppo brutale, gli estremi della lunga parabola teorico-politica di Mario Tronti. Nel mezzo: l’operaismo, l’autonomia del politico, la riscoperta degli autori della restaurazione, gli incontri nel monastero di Camaldoli con un pezzo della vecchia dirigenza Pci. Un percorso lungo, travagliato, a volte ambiguo, oscuro ma ben riassunto nella Nota che apre l’antologia Il demone della politica (Il Mulino, 2018). I curatori (Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M.H. Mascat) ripercorrono qui le varie fasi del pensiero trontiano, coerente, oltre le cesure e i mutamenti, per la scelta di un punto di vista di parte – quello del proletariato, del popolo, degli sfruttati – e per il tentativo di dare, a questa parte, una forma e una prospettiva: la politica. I numerosi scritti raccolti, alcuni contenuti nei più noti saggi trontiani, altri di più difficile reperibilità, attraversano una ricerca lunga circa sessant’anni e si presentano divisi in quattro parti che seguono un ordine cronologico e tematico.

Punto di partenza della raccolta e, simbolicamente, dell’intera vicenda intellettuale di Tronti, è un intervento del 1958 in cui il giovane teorico si schiera con la lettura scientista di Galvano della Volpe contro gli esiti della filosofia della prassi gramsciana, la quale sarebbe rimasta intrappolata nelle maglie dell’idealismo che pure credeva di rovesciare. Come viene sottolineato nell’introduzione, è possibile riconoscere in queste prime pagine l’attenzione a quell’elemento soggettivo attivo nei processi storici che sarà al centro della successiva teorizzazione dell’autore. Un altro punto, poco esplorato, appare però interessante. Il distacco dallo storicismo idealistico gramsciano, afferma lo stesso Tronti, esprime il rapporto critico con il gruppo dirigente del Pci (p. 13), acuitosi dopo i fatti ungheresi del 1956. Tuttavia, il mancato incontro con Gramsci che segnerà profondamente tutta la storia dell’operaismo – anche la più recente – come del successivo lavoro trontiano, meriterebbe forse una maggiore e più profonda attenzione.

È durante l’esperienza di «Quaderni rossi» che l’istanza soggettiva prende la forma della classe. La lettura di Raniero Panzieri del Frammento sulle macchine scova in Marx quella teoria della contraddizione dello sviluppo capitalistico che apre la strada alla «rivoluzione copernicana» di Tronti. Prima l’azione operaia, poi la risposta del capitale. La lotta di classe costringe il capitale a modificare la forma del suo dominio (p. 106). La classe si trova dentro il meccanismo del capitale, ma «spinge in avanti, dall’interno, la produzione capitalistica, fino a farla trapassare completamente in tutti i rapporti esterni della vita sociale» (p. 107). «Dentro e contro»: così Tronti riassume la posizione della classe operaia. Una formula, questa, destinata ad una certa popolarità ma a cui è bene prestare ancora attenzione. Con essa Tronti non descrive una contrapposizione frontale ma «l’uno travagliato dal due, in cui la contrapposizione tra le parti struttura l’unità in quanto negazione reciproca» (p. 16). Un’ambiguità radicale che non permette alcuna soluzione pacificata, alcuna pura affermazione. Se tale schema continua a strutturare la riflessione trontiana (p. 15), l’operaismo ne costituisce invece solo una fase. Il 1966 è insieme l’anno della pubblicazione di Operai e capitale e dell’ultimo numero di «Classe operaia», fucina del pensiero operaista dopo gli anni di «Quaderni rossi». Tronti lascia la militanza e torna tra i ranghi del Pci.

La conclusione delle lotte degli anni Sessanta consegna a Tronti la convinzione che la battaglia reale sia da combattere al livello delle istituzioni. Per il governo. Si tratta, insomma, di affrontare il capitale sul suo terreno, per il controllo dello Stato. La teoria, ancora, segue la pratica politica. L’attenzione dell’ex operaista si sposta verso la lettura dei grandi autori della restaurazione borghese. Il punto di vista rimane di parte. L’obiettivo è quello di offrire nuove armi alla classe operaia. Conoscere il pensiero conservatore per comprendere la modernità borghese e riaprire la strada alla conflittualità.

Lo studio del pensiero «nemico» è, allo stesso tempo, attestazione di una mancanza della parte operaia. Come si legge nel Poscritto di problemi del 1970 l’«apparato concettuale non ha camminato col tempo» (p. 281) e non è più in grado di cogliere «la complessità del rapporto sociale moderno» (Ibidem). Si apre così la fase segnata dall’autonomia del politico. Una riflessione «osteggiata da tutti» (p. 23n) e che produce una profonda frattura fra le fila degli operaisti. Una divisione che non farà che aumentare con il tempo. Qualche anno più tardi, gli ex compagni di «Classe operaia» accoglieranno i micropoteri foucaultiani diffusi e disciplinanti, sondando la possibilità dell’emergenza, nel sociale, di nuove soggettività antagoniste. Tronti, invece, guarderà al potere riconoscibile dello Stato e ai classici del Novecento. L’obiettivo è comune: attualizzare il marxismo. L’esito, divergente.

Per Tronti ripensare Marx significa farlo passare attraverso la crisi delle scienze (p. 317), farlo dialogare con la dimensione del politico. Su questa strada egli incontra l’opera di Carl Schmitt. Schmitt con Marx e viceversa: è il tentativo estremo per pensare di nuovo insieme teoria e politica. Per comprendere la dimensione del politico al di là dell’economico e consegnarla al punto di vista operaio. Il giurista di Plettenberg si radica nel pensiero trontiano forse più di quanto viene messo in rilievo e rimane un riferimento costante. Oltre l’amico-nemico, guida la riflessione sul teologico-politico che segna gran parte del lavoro successivo dell’autore.

La lettura dei pensatori borghesi, tuttavia, non fornisce alcuna arma alla classe operaia. La lotta per il governo è persa. Con la fine degli anni Settanta la riflessione trontiana si fa testimonianza di un tempo che non fa epoca. Il Novecento viene letto, ancora con Schmitt, come avanzamento della neutralizzazione democratica, verso la fine di ogni vera inimicizia e, insieme, di qualsiasi progetto che miri ad un rovesciamento complessivo dei rapporti di forza. Lo sforzo, allora, diviene quello di capire com’è avvenuto lo scollamento tra teoria e politica. Perché, ora, è impossibile pensarle insieme. Di fronte a tale crisi, all’impossibilità della teoria di parlare ancora la lingua del reale, si apre la dimensione spirituale come linguaggio della crisi. La politica si fa profezia (pp. 485-498). L’interiorità e la trascendenza divengono gli unici luoghi in cui pensare un’alternativa alla normalizzazione dilagante. Il pensiero trontiano, rinchiuso nel linguaggio teologico-politico, si fa «attesa senza speranza, vocazione senza credenze» (p. 498) e procede in un’affascinante ma lontana ricorsività tra concetti di volta in volta definiti attraverso gli estremi della necessità e dell’impossibilità.

L’anelito alla politica diviene ipotesi ossimorica di libertà dentro e contro il destino. Il punto di vista, ostinatamente reclamato, appare solo lontanamente politico. Le pagine di questo importante volume sono certamente le infinite stanze in cui si perde e si corrompe il messaggio dell’imperatore, le sue ultime parole di liberazione (pp. 649-656). Ciò che può arrivare alle nostre orecchie, per ora, è il senso radicale della «verità assoluta di parte» (p. 631), il rifiuto di pensare l’emancipazione come affermazione pura, avvenire pacificato, la difficoltà di coniugare, in questo tempo, pensiero e azione: la tragicità del politico.

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