Immagini di classe

Un libro su Operaismo, Autonomia e arti visive

Il gioco del drago, Rosso. Giornale dentro il movimento 13–14 (Dicembre 1976).
Il gioco del drago, da «Rosso. Giornale dentro il movimento» 13–14 (Dicembre, 1976).

La casa editrice inglese Verso Books ha recentemente pubblicato il saggio di Jacopo Galimberti «Images of Class. Operaismo, Autonomia and the Visual Arts (1962-1988)», un libro importante che ripercorre in maniera organica i rapporti tra l’operaismo italiano, le arti visive, la grafica e l’architettura. Qui proponiamo la recensione scritta per noi da Andreas Petrossiants e tradotta in italiano da Emma Catherine Gainsforth.

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Gli artisti sono parte della classe operaia? La produzione artistica è un’attività produttiva che contribuisce allo sviluppo del capitalismo o si tratta invece di un’attività «eccezionale», una forma di lavoro «non mercificato»? Sono domande che circolano da più di un secolo nel settore dell’arte e non solo, ma dal mio punto di vista questo modo di formularle oscura il potenziale di solidarietà rivoluzionaria di e con i lavoratori creativi. Nel saggio They Call It Creativity, We Call It Exploitation! Katja Praznik interviene nel dibattito ripoliticizzando la questione: «Il fatto che l’autonomia debba essere pensata e filosoficamente giustificata in opposizione all’indipendenza economica è una peculiarità dell’arte occidentale»1.

Infatti, non solo la nozione modernista di autonomia artistica ha precluso tentativi di organizzazione e composizione inter-settoriali che andassero nella direzione dell’indipendenza economica dallo stato e dal capitale, ma, come dimostra Praznik con l’esempio del lavoro artistico nella Yugoslavia socialista, lo stesso concetto di lavoro «creativo» è stato usato per ri-mistificare il lavoro tutto sotto il socialismo di stato e successivamente come modello per la frammentazione, l’informalizzazione e la neoliberalizzazione del lavoro nel periodo post-1989. Pertanto, sebbene l’attività artistica appaia come qualcosa di eccezionale dal punto di vista della retribuzione, della tipologia dei contratti e così via, il lavoro culturale non è affatto eccezionale rispetto al modo di produzione del capitale; anzi, al pari di alcune forme di mediazione capitalistica come il sindacalismo borghese o i partiti di sinistra del dopoguerra, il lavoro artistico critico agisce da motore di sviluppo economico e di inclusione della soggettività proletaria negli ingranaggi del capitale. Per pensare l’«autonomia» in maniera diversa da Kant, Peter Bürger o, per l’appunto, da Richard Florida e la Silicon Valley, bisogna comprendere le relazioni fra lavoro creativo ed economia politica, tra lavoratori creativi e movimenti rivoluzionari. Un buon punto di partenza è la descrizione che fa Mario Tronti della centralità dell’antagonismo di matrice proletaria nello sviluppo del capitalismo. Tronti ha recentemente ribadito le tesi sviluppate negli anni Sessanta e pubblicate nei Quaderni Rossi:

Le lotte dei lavoratori determinano il corso dello sviluppo capitalista; ma lo sviluppo capitalista userà queste lotte per i propri fini se non contrastato da un processo rivoluzionario organizzato capace di modificare questo rapporto di forze. Ciò è evidente nel caso di lotte sociali in cui l’intero apparato di dominio sistemico si riposiziona, si riforma, si democratizza e ritrova una sua stabilità2.

Allo stesso modo, nel settore dell’arte, alcune tendenze sviluppatesi nel corso degli ultimi cinquant’anni come la «critica istituzionale», l’«estetica relazionale» e la «pratica sociale» hanno agevolato l’inclusione di azioni altrimenti benintenzionate e potenzialmente radicali nel funzionamento dei sistemi globali di estrazione, sfruttamento, incarcerazione e militarizzazione statale – sia attraverso la produzione di plusvalore finanziario per collezionisti e istituzioni artistiche, sia attraverso l’artwashing a favore di istituzioni che generano profitto per i propri azionisti in settori che vanno dalle prigioni private alla vendita di armi per il controllo della folla. Al tempo stesso, la maggior parte dei lavoratori culturali – in un’accezione ampia del termine che comprende operatori artistici, giornalisti, organizzatori, e così via – sono sottopagati o non pagati affatto, generalmente precari, tirocinanti in età da pensionamento. Come nota infatti Praznik nel suo testo, molti lavori un tempo considerati «produttivi» sono stati sottoposti a un processo di «casalinghizzazione» (housewifization) – valorizzati al modo in cui storicamente lo è stata la «riproduzione sociale». Con il diffondersi del telelavoro e dei più recenti sviluppi del capitalismo durante la crisi da Covid, è evidente che immaginare nuove forme di contestazione della scomposizione lavorativa è di fondamentale importanza.

Come scrive Jacopo Galimberti nelle conclusioni al suo ultimo libro Images of Class: Operaismo, Autonomia and the Visual Arts (1962-1988), Verso (2022), teorici dell’operaismo e dell’autonomia e lavoratori in ambito culturale hanno affrontato queste e molte altre questioni negli anni Sessanta e Settanta attraverso una rilettura di Marx e una critica dell’industria culturale. Le loro «scoperte» continuano a essere di grande utilità oggi quando si prova a immaginare un agire radicale, che sia nel campo dell’arte o della pianificazione urbana, per la ricerca proletaria e l’autoinchiesta (un esempio recente è la Art Workers’ Inquiry a New York), e certamente per teorizzare una ricomposizione del lavoro trasversale ai diversi settori della produzione capitalistica.

Come viene illustrato dai testi e dalle grafiche di «Quaderni Rossi», «Contropiano», «Potere Operaio del lunedì», «Rosso» e di molte altre pubblicazioni che Galimberti analizza in dettaglio, l’antagonismo anticapitalista riesce quando mette in crisi gli attuali sistemi costituiti anziché invocare la loro riforma (chiedendo salari più alti, prezzi accessibili, un numero maggiore di concorsi a premi o una maggiore diversità etnica nelle collezioni artistiche) e in questo la cultura, per quanto denigrata da Tronti e Asor Rosa, sicuramente gioca un ruolo.

Mario Mariotti, Potere Operaio, numero 2 (25 settembre-2 ottobre 1969), pagina 3-4.

Il libro di Galimberti rappresenta un contributo significativo in lingua inglese alla storicizzazione dell’operaismo e del movimento composto da una serie di gruppi e collettivi che ruotavano attorno all’autonomia. Images of Class esce un anno dopo la pubblicazione dalla monografia di Steve Wright, The Weight of the Printed Word: Text, Context and Militancy in Operaismo (2021), dedicata a materiale di stampa, e approfondisce la ricerca sugli sviluppi di queste tendenze marxiane e dissidenti analizzando la produzione e le teorie in ambito visuale, letterario e architettonico. A differenza di altre monografie che lo precedono, in particolare la canonica L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (Edizioni Alegre, 2008)3 di Steve Wright, punto di riferimento per ricercatori e attivisti che vogliono conoscere queste correnti, il libro di Galimberti si presenta come un’introduzione più accessibile. Utilizzando come espedienti narrativi le stampe, le grafiche, i caratteri tipografici, i film, il teatro di strada, le testate, le conferenze, i gruppi di lavoro precedentemente ignorati, le spaccature e molto altro, l’autore reintroduce concetti quali la composizione del lavoro, la fabbrica diffusa e il rifiuto del lavoro a un pubblico di lingua inglese; per questo il libro è anche una guida valida per quanti hanno minore familiarità con le riletture di Marx elaborate a partire dal dopoguerra.

Poiché «l’operaismo non ha sviluppato una teoria estetica ma delle categorie, delle attitudini, degli approcci», scrive Galimberti, «la traduzione di queste idee in immagini concrete» richiede un’analisi della «triangolazione fra arti visive, idee politiche e la produzione della conoscenza» (p. 5). Non a caso le analisi di argomenti poco discussi in lingua inglese – la tesi di dottorato di Silvia Federici su Lukács del 1970 (capitolo 7), la partecipazione di collettivi radicali di architettura come il Factory-City Group nelle occupazioni di edifici di proprietà del comune (capitolo 3), o i dibattiti operaisti sul kitsch e sul populismo – si articolano intersecando discipline diverse.

Come accennato sopra, una delle più influenti conquiste teoriche dell’operaismo è stata la maniera di concepire l’antagonismo della classe operaia come motore dello sviluppo capitalista. Questo ha portato gli operaisti a sostenere che la classe operaia non andava celebrata ed esaltata bensì ricomposta e contestata. Questo costituiva un problema, come ci ricorda Galimberti, per gli artisti incaricati di rappresentare la figura del lavoratore se «si postula che la condizione della classe operaia era quella di non-identificazione con il lavoratore», e se la classe veniva considerata il «nemico di tutto e addirittura di se stessa» (p. 60). In questo senso, il pregio assoluto del libro consiste nella capacità di spiegare la filosofia operaista attraverso le immagini, la teoria letteraria o la pianificazione urbana proletaria che hanno affrontato contraddizioni come questa. Per esempio, quando Galimberti parla di come Potere Operaio non avesse un suo simbolo, cosa che avrebbe «implicato un certo grado di uniformità politica», è menzionata una proposta avanzata da Giovanni Anceschi: una stella rossa con cinque frecce direzionate sia verso l’interno che verso l’esterno. La figura, «alludeva alla dialettica fra espansione e organizzazione, che era, come la frase dall’autonomia all’organizzazione, un mantra di Potere Operaio» (p. 217).

Mario Mariotti, «Buona notte signor padrone», immagine per «Classe operaia» n.2, gennaio 1964, p. 10.

L’analisi e il censimento delle immagini aiuta anche a documentare come il modo di approcciare certe questioni cambia con la transizione che porta dai lunghi anni Sessanta agli scontri in piazza, alla violenza di Stato e alla repressione degli anni di piombo. Nel primo capitolo Galimberti introduce il celebre disegno di Mario Mariotti Buona notte signor padrone (1964), in cui un lavoratore è ritratto come un piccolo incubo mentre terrorizza un padrone che dorme. L’autore nota che in realtà l’immagine contiene una miriade di riferimenti diversi, tra cui «le sollevazioni comuniste durante la repubblica di Weimar, gli scioperi selvaggi della Industrial Workers of the World, Guernica, ecc». (p. 59). Nel sesto capitolo Galimberti si concentra su un altro disegno di Mariotti. Qui notiamo che dopo il 1969, dopo l’«autunno caldo», la figura del lavoratore è cambiata: ora è enorme, minacciosa, le sopracciglia sono infuocate. È diventato un mostro – figura a cui Galimberti ritorna nell’ottavo capitolo, «The Metropolis and Its Monsters». Qui scrive: la «disumanizzazione» del lavoratore Fiat «era connotata in senso positivo, dal momento che l’operaismo tendeva a leggere la crescente de-qualificazione dei lavoratori come un’opportunità per la ricomposizione di classe» (p. 213).

Per chi già conosce la produzione teorica che abbiamo appena ripercorso, probabilmente sarà più utile il capitolo che Galimberti dedica ai movimenti femministi, «Art Against Housework». Se non vado errato, si tratta del primo testo in assoluto, in inglese, a trattare in maniera approfondita il Gruppo Femminista Immagine (Silvia Cibaldi, Milli Gandini, Clemen Parrocchetti, Mariuccia Secol e Mariagrazia Sironi)4, che faceva parte del Gruppo per il salario al lavoro domestico, così come i dibattiti animati da importanti esponenti del femminismo radicale sull’estetica, sottolineando il ruolo che hanno avuto le azioni di teatro di strada. Pannelli pubblicitari e campagne di «contro-informazione» affiancavano l’utilizzo della comunicazione, la performance e il sabotaggio come armi politiche da parte dell’autonomia.

Mariagrazia Sironi, Mileto (1978).

Come notato già in apertura, il libro di Galimberti traduce non solo dall’italiano all’inglese, dal campo della produzione artistica, letteraria o architettonica a quello della militanza extraparlamentare, ma anche dal periodo degli anni Sessanta e Settanta al presente, dal contesto dello sviluppo economico del dopoguerra e della resistenza, quando in Italia si affermava il taylorismo di massa, al neoliberismo post-fordista contemporaneo. Oggi, infatti, in un momento storico in cui «il settore culturale è gravemente sottofinanziato e i diritti umani fondamentali vengono costantemente ignorati» (p. 384) la critica operaista della cultura come «Valore dei valori», come «uno dei mezzi con cui il conflitto di classe è stato sublimato in una edificante battaglie delle idee tra le persone che condividevano un orizzonte comune» (p. 383) suona terribilmente attuale.

Gli slogan «più soldi meno lavoro» e «vogliamo tutto», il rifiuto del lavoro, il sabotaggio della fabbrica diffusa hanno ancora molto da dirci, sono un riferimento per un antagonismo anticapitalista che è trasversale ai diversi settori lavorativi, che siano considerati o meno produttivi. «In maniera simile a quanto accadeva in Italia verso la fine degli anni Settanta», conclude Galimberti, «parlare di classe operaia oggi non significa tanto parlare di un’identità stabile e coerente quanto di una condizione di sfruttamento, insicurezza, dipendenza e privazione – un’esperienza sempre più condivisa che richiede la nostra massima attenzione» (p. 386).

Note

Note
1Katja Praznik, «They Call It Creativity, We Call It Exploitation!: The Legacy of Yugoslav Socialism and the Class Character of Autonomy,» in “Paths to Autonomy” (Minor Compositions and Lost Property Press, 2022).
2Mario Tronti, «Our Operaismo» in “New Left Review” 73 (Gennaio–Febbraio 2012).
3Steve Wright, Storming Heaven: Class Composition and Struggle in Italian Autonomist Marxism, Pluto Press, 2002.
4sullo stesso argomento è uscito recentemente, in italiano: Milli Gandini e Mariuccia Secol, La mamma è uscita. Una storia di arte e femminismo, DeriveApprodi, 2021.

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