Architettura, Politica e Autonomia

Intervista a Pier Vittorio Aureli

Claire Fontaine, Untitled (Rotary spike Schwarz Rot Gelb, Schwarz Rot Senf, Schwarz Rot Scheisse), 2016 (1000x667)
Claire Fontaine, Untitled (Rotary spike Schwarz Rot Gelb, Schwarz Rot Senf, Schwarz Rot Scheiße), 2016.

È da qualche giorno in libreria il saggio «Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo» (Quodlibet, 2016). Per l’occasione abbiamo posto alcune domande all’autore Pier Vittorio Aureli, architetto e docente presso l’Architectural Association di Londra.  

1. Autonomia è una parola importante nel tuo libro, fin dal titolo. Partiamo da qui allora. Nella tradizione operaista la politica e l’architettura finiscono entrambe per assumere il concetto di autonomia come quella dimensione che si sottrae alla subordinazione e alla cattura del capitalismo, ponendosi dentro e contro il capitale. Per l’architettura, però, autonomia sembra essere soprattutto autonomia rispetto alla priorità del costruire e alla professionalizzazione del lavoro dell’architetto, mentre per Tronti, soprattutto negli sviluppi degli anni Settanta, l’autonomia del Politico consiste, al contrario, nella riproposizione weberiana della politica come professione e vocazione. Sei d’accordo?

Tafuri e Archizoom compresero, attraverso la critica dell’ideologia, che l’architettura moderna, le sue teorie e la sua storiografia altro non erano che una mistificazione del vero proposito della città capitalista: domare la minaccia operaia 

In architettura, autonomia è stata spesso intesa come autonomia disciplinare. Ciclicamente gli architetti, soprattutto in tempi di crisi, rivendicano l’integrità della propria professione come un’arte che ha una validità in sé rispetto al proprio contesto sociale ed economico. Nel mio libro propongo una diversa interpretazione di autonomia: movimento che si pone il problema di come eccedere la subordinazione a quella che Castoriadis definiva la logica identitaria-inclusiva del capitalismo. Questo movimento che attraversò trasversalmente diversi saperi, dalla letteratura all’architettura, elaborò una serie di temi e tra questi il più urgente fu la critica dell’ideologia. Fu a partire da questa volontà di critica che l’operaismo influenzò il lavoro di storici dell’architettura e architetti come Manfredo Tafuri e il collettivo Archizoom. Costoro in modi diversi posero la questione di come proprio la tradizione progressista del modernismo fosse il maggiore ostacolo a un’avanzata coscienza di classe del movimento operaio per quanto riguardava il progetto della città. In modi diversi Tafuri e Archizoom compresero, attraverso la critica dell’ideologia, che l’architettura moderna, le sue teorie e la sua storiografia altro non erano che una mistificazione del vero proposito della città capitalista: domare la minaccia operaia. Questo fu un passaggio fondamentale che richiedeva agli architetti un’analisi impietosa di che cosa fosse veramente l’architettura e che ruolo avesse giocato nella formazione della metropoli capitalista. Sia Tafuri che Archizoom misero in pratica il famoso assunto di Engels così come egli lo formulò nel suo famoso pamphlet Zur Wohnungsfrage, ovvero che non esiste una città o una architettura operaia, ma solo una critica dal punto di vista operaio della città esistente, cioè della città capitalista. Quella di Tafuri e Archizoom fu una spietata critica dell’ideologia, una critica che non si preoccupava di quello che sarebbe dovuto venire dopo, perché per entrambi il dopo poteva solo essere dettato dal percorso della classe operaia.

Nel caso di Rossi, invece, il discorso è diverso e per certi versi più affine alla cosiddetta svolta dell’autonomia del politico trontiana. È importante sottolineare che Rossi non ha niente a che fare con Tronti e viceversa, nel senso che entrambi (peraltro nati nello stesso anno, 1931) non si conoscevano e operavano in ambiti intellettuali molto diversi. Eppure, non solo entrambi rimasero molto legati al Partito comunista (nel caso di Rossi, quantomeno fino agli anni Sessanta), ma entrambi, in modi assai diversi, intesero il proprio impegno politico dentro una prospettiva di comunismo di massa, cioè di un comunismo egemone, non più subalterno, non minoritario: un comunismo che non era più costituente, ma potenzialmente costituito.

Non bisogna dimenticarsi che queste posizioni maturano in anni di massima offensiva operaia, quando era possibile pensare di poter forzare l’economico con il politico. Credo che, per Rossi come per Tronti, in quel momento fosse possibile andare oltre la critica dell’ideologia e, nel caso di Rossi, progettare la città comunista. Penso che gli scritti e i progetti di Rossi fino al 1973 siano scritti e progetti volti a definire una prospettiva comunista sulla città, una prospettiva intesa non più come critica, ma come possibilità realista. Nel caso di Rossi, questa ambizione si profila molto bene nel suo programma di insegnamento e soprattutto nel progetto didattico e politico che tenta di mettere a punto in occasione della Triennale di Milano del 1973.

2. Tronti sostiene che, nell’attuale passaggio d’epoca, l’iniziativa sia passata al capitale, ribaltando così il gesto fondante dell’operaismo. Insistendo sulla dimensione teorica dell’architettura, che rivendichi fortemente, ritieni in fondo anche tu che oggi sia la Teoria la roccaforte dell’antagonismo? Davvero non esistono più pratiche architettoniche che possano avere un connotato immediatamente pratico-politico? Nel caso, quali sono?

Acutizzando la contrapposizione tra teoria e pratica, come se la prima fosse inutile speculazione accademica mentre la seconda l’unico modo legittimo di fare architettura, si è completamente abbandonata la possibilità di una critica rigorosa non solo della produzione in architettura, ma anche dei modi di produzione dello spazio urbano 

Quando ho iniziato a occuparmi dei temi trattati nel libro, nella prima metà degli anni Duemila, non esisteva più un discorso teorico sull’architettura, né tanto meno un’analisi politica dell’architettura e della città. Per almeno due decenni in Italia – ma per certi versi anche all’estero – la ricerca teorica in architettura è letteralmente scomparsa, sostituita da mesti commentari accademici o dalla critica giornalistica. Ricordo una lezione del teorico dell’architettura Michael Speaks (un allievo di Jameson), che diceva: «Theory was fun, but now we have work to do». Acutizzando la contrapposizione tra teoria e pratica, come se la prima fosse inutile speculazione accademica mentre la seconda l’unico modo legittimo di fare architettura, si è completamente abbandonata la possibilità di una critica rigorosa non solo della produzione in architettura, ma anche dei modi di produzione dello spazio urbano. Il risultato sono le odierne discussioni tra il naif e il demagogico sui rammendi delle periferie o le polemiche sulle archistar dal tenore moralistico, senza capire il contesto economico e politico in cui questo fenomeno è emerso. Nello scrivere Il progetto dell’autonomia, cercavo di reagire anche a questa situazione, facendo vedere come in una determinata congiuntura storica – lontana anni luce dalla nostra – alcuni architetti avevano messo a tema il proprio sapere, che fino ad allora era stato un sapere strumentale, per costruire un progetto che fosse allo stesso tempo un progetto politico e un progetto sull’architettura e sulla città. Qui andrebbe messa in evidenza la centralità del progetto nella pratica dell’architettura. Almeno dal Rinascimento in poi, il progetto – proprio per la sua natura al tempo stesso astratta e reale – confonde la distinzione teoria/pratica. Per questo penso che la ricerca teorica non sia una roccaforte, una torre d’avorio in cui rinchiudersi e affrancarsi dalla realtà, ma al contrario il tentativo, lo sforzo di comprendere la realtà.

Proprio in questo senso negli ultimi anni sono emerse pratiche architettoniche che hanno messo in discussione la separazione tra prassi e ricerca teorica. Penso ad alcuni compagni e compagne che anche dentro situazioni di precarietà accademica e professionale stanno costruendo percorsi teorici in grado di coniugare, in modi assai innovativi, ricerca storico-critica di alto profilo e pratiche di progetto. Vorrei menzionare alcuni casi che conosco bene come il gruppo di architetti, studenti e ricercatori di Architecture Lobby negli Stati Uniti, che stanno tentando di sindacalizzare gli architetti, o il movimento di comuni Embassy Network a San Francisco, in cui alcuni attivisti sono stati molto influenzati dalle teorie operaiste sull’autovalorizzazione. Tutte queste esperienze sarebbero impenasabili senza un rigoroso discorso teorico sull’architettura e la città che molte di queste persone hanno intrapreso attraverso lo studio, l’insegnamento e la scrittura.

Lasciatemi anche aggiungere che io non ho mai capito l’opposizione tra teoria e prassi. Come ha recentemente detto Giorgio Agamben vi possono essere pratiche molto astratte e teorie che invece possono essere molto concrete, perché ci aiutano a capire fino in fondo la situazione in cui ci troviamo. Purtroppo in architettura teoria significa oggi più o meno un discorso erudito che si antepone alla pratica e che ammanta quest’ultima di un’aura concettuale. Sono assolutamente contrario a questo uso della teoria come qualcosa di ancillare alla pratica. Innanzitutto penso che la prassi stessa possa dar luogo a interpretazioni teoriche di grande portata, a patto però che la pratica non sia un banale fare qualsiasi cosa. Credo anche che ricerche di carattere teorico possano a volte avere una concretezza in sé nel momento in cui ci disvelano una determinata situazione offrendo di quest’ultima un’interpretazione completamente diversa. La ricerca teorica non è la messa a punto di una ricetta in cui si dice «fai quello, fai quell’altro», ma la riflessione su una serie di problemi da proporre alle persone con cui si condivide un percorso politico e intellettuale e a cui si dice «guarda questa è la situazione, si potrebbe iniziare da qui, queste sono le cose importanti, questa è la storia che ci ha portato fin qui». Questo vale anche per ricerca storica, il cui potere debole (come lo definiva Tafuri) può sovvertire l’ordine del presente che spesso, come sappiamo, si fonda su interpretazioni ideologiche che la società dà del proprio passato.

3. Nel libro fai riferimento a due mostre internazionali – quella del 1972 al MoMA di New York e quella del 1973 alla Triennale di Milano – come momenti chiave per la trasformazione del lavoro di Rossi e dei suoi allievi e dell’architettura radicale nell’italian style del postmoderno internazionale. Questa operazione era agita consapevolmente dai protagonisti o subita attraverso il lavoro di promozione e internazionalizzazione di curatori come Emilio Ambasz e Germano Celant? C’è una linea di continuità e radicalizzazione tra questa operazione dei primi anni Settanta e il fenomeno contemporaneo delle archistar?

L’operazione di assorbimento dei movimenti radicali degli anni Sessanta e la trasformazione in avanguardie artistiche postmoderne non fu casuale. Non bisogna dimenticare il ruolo politico di istituzioni come il MoMA, e cioè chi c’è dietro e chi mantiene questa potentissima istituzione culturale il cui compito è stato ed è tuttora quello di domare e assorbire l’inquieto mondo dei movimenti artistici 

Credo che l’operazione di assorbimento dei movimenti radicali degli anni Sessanta (e qui non mi riferisco solo a quella che oggi viene definita architettura radicale) e la trasformazione in avanguardie artistiche postmoderne non fu casuale. Non bisogna dimenticare il ruolo politico di istituzioni come il MoMA, e cioè chi c’è dietro e chi mantiene questa potentissima istituzione culturale il cui compito è stato ed è tuttora quello di domare e assorbire l’inquieto mondo dei movimenti artistici. Attraverso mostre di grande successo e impatto mediatico, il MoMA ha cercato di catturare e addomesticare proprio quelle istanze artistiche più ingovernabili che rischiavano di mettere in discussione il sistema dell’arte e le istituzioni che organizzano questo sistema. Quando Ambasz organizzò The New Domestic Landscape, la grande esposizione che presentò al pubblico americano il mondo del design italiano, lo fece epurando da questo mondo i conflitti che avevano segnato la storia del design italiano. Ambasz mise sullo stesso piano i professionisti del design e i collettivi (come Archizoom e Superstudio) che avevano cercato di mettere in discussione proprio il mandato professionale e sociale del designer all’interno dei modi di produzione. New Domestic Landscape ebbe una fortuna critica immensa, ma ridusse il tutto a un vago sperimentalismo trasgressivo, radicale appunto, parola che incasellò e banalizzò un pensiero che andava ben oltre la provocazione concettuale. La stessa cosa successe più o meno con le teorie di Rossi e Tafuri che conobbero la ribalta internazionale grazie all’attività dell’Institute of Architecture and Urban Studies, una sorta di think tank che in quegli anni cercava di stabilire nel Nordamerica un’avanguardia architettonica colta e che utilizzò l’Italian Theory come un modello culturale e non come un blocco di riflessioni e ricerche scaturite direttamente da una congiuntura politica ben precisa. Queste operazioni di assorbimento vanno inquadrate all’interno delle politiche culturali svolte tra gli anni Sessanta e Settanta da fondazioni e think tank come la Ford Foundation (quest’ultima finanziò alcune delle più influenti ricerche urbane prodotte in quel periodo), il cui compito – spesso avallato e finanziariamente appoggiato da elite politico-economiche – era quello di assorbire e contenere le ricerche artistiche più avanzate. Qui sarebbe da approfondire il ruolo del curatore, questa sorta di sacerdote senza una teologia, il cui compito è proprio quello di amministrare, cioè di organizzare dentro parametri narrativi rassicuranti ricerche e progetti che eccedevano questi parametri. Non è un caso che proprio alla metà degli anni Settanta nascono, sul modello della Biennale di Venezia, le grandi mostre a tema come la Biennale di Architettura all’interno della quale viene rafforzato il fenomeno dell’archistar a discapito dei movimenti e dei gruppi di ricerca che negli anni Sessanta avevano reinventato il modo di fare e studiare l’architettura non più come attività di un singolo autore ma come lavoro di gruppo. A questo contribuì anche il clima politico che si profilava alla fine degli Settanta con la fine del ciclo di lotte e l’inizio del riflusso. All’inizio degli anni Ottanta vi fu da parte dell’establishment culturale e politico l’urgenza di esorcizzare le istanze di rottura scaturite dalle lotte degli anni Sessanta e Settanta, e il fenomeno del postmoderno (termine introdotto per la prima volta proprio nell’ambito del discorso sull’architettura) fu certamente il blocco culturale che mise in opera questo processo di neutralizzazione e spoliticizzazione.

4. Nel libro dedichi un capitolo al dibattito che si sviluppò negli anni Sessanta intorno alla questione dell’intellettuale, dell’organizzazione del suo lavoro, della produzione culturale e della sua integrazione nell’industria. Possibile che la sussunzione dell’architettura, anche della sua teoria critica, all’interno dello star system internazionale nasca da una mancato approfondimento di questa analisi, innestandosi in fondo sul paradigma individualistico di un artista/intellettuale che a cavallo tra anni Settanta e Ottanta si fa imprenditore di se stesso?

Il fenomeno dello star system in arte come in architettura trova terreno fertile proprio nella mancata analisi rigorosa sul ruolo dell’artista, dell’architetto, dell’intellettuale all’interno dei modi di produzione. Riflessioni simili a quelle avanzate da Benjamin negli anni Trenta, Fortini negli anni Sessanta o da Tafuri sul lavoro intellettuale in architettura sono completamente mancate 

Sono d’accordo con la vostra lettura: il fenomeno dello star system in arte come in architettura trova terreno fertile proprio nella mancata analisi rigorosa sul ruolo dell’artista, dell’architetto, dell’intellettuale all’interno dei modi di produzione. Riflessioni simili a quelle avanzate da Benjamin negli anni Trenta, Fortini negli anni Sessanta o da Tafuri sul lavoro intellettuale in architettura sono completamente mancate e questo ha favorito l’ideologia dell’architetto come autore individuale che, come dicevo prima, è stata esacerbata proprio dalla cultura postmoderna. Oggi del fenomeno dello star system si tende a dare una lettura moralistica e quindi si riduce questo discorso alla vanità, all’ego dell’autore e alla sua presunta complicità con il mercato. Credo che questa lettura del fenomeno non sia soltanto moralistica e quindi sbagliata, ma anche falsamente rassicurante perché non prende in considerazione le radici storiche molto profonde di questo fenomeno; radici che ci portano proprio all’origine del modo in cui l’architetto e l’artista in quanto lavoratori free-lance si sono venuti a formare. Quindi sono d’accordo che questa riflessione per essere produttiva deve inserirsi in una più ampia riflessione che vede il lavoro creativo come paradigma del lavoro imprenditoriale su se stessi.

A questo proposito non bisogna dimenticare che il vero ideologo dell’artista/architetto come autore-imprenditore di se stesso è stato Giorgio Vasari che nelle sue Vite esalta l’artista come autore individuale che può riscattarsi dalla propria posizione precaria completamente affrancata dal sindacalismo delle arti attraverso il duro lavoro, la competizione e il successo. Vasari esalta questi valori e misura il successo dell’artista in base alla produttività e al compenso che riceve. Celebra Raffaello perché non solo riesce a ottenere compensi stratosferici ma perché è in grado di organizzare la sua bottega come modello imprenditoriale efficiente nel quale mette in competizione persino i suoi collaboratori per aumentarne la produttività e le abilità artistiche. In questo situazione il successo, la fama e le loro conseguenze economiche non sono più una questione di ego e di auto-promozione, ma sono il risvolto della precarizzazione del lavoro artistico nel quale – come disse una volta a lezione Tafuri – l’artista/architetto è condannato ad avere successo. La controrivoluzione postmoderna non ha fatto altro che esacerbare al massimo questa condizione già in nuce nel Rinascimento e nella quale stardom e precarizzazione di massa sono le facce della stessa medaglia.

5. All’inizio del tuo libro citi «Socialisme ou Barbarie» e poi i «Quaderni Rossi» come le esperienze che hanno posto le basi della teoria politica radicale nel secondo dopoguerra. «Socialisme ou Barbarie» è stata senz’altro importante per la nascita dell’Operaismo, ma anche per la nascita dell’IS, che negli stessi anni dell’Operaismo aveva posto con forza la centralità della dimensione urbana e architettonica al fine di trasformare la vita nelle metropoli occidentali. La contrapposizione che racconti nel tuo libro tra, da un lato, Manfredo Tafuri e l’ideologia architettonica e, dall’altro, Aldo Rossi e il concetto di luogo come elemento di conflittualità all’interno della città, sembra ricordare la rottura all’interno dell’IS tra Constant che insisteva sulla necessità di progettare e costruire una New Babylon e Debord che a un certo punto decide per una svolta politica espellendo dall’IS l’ala artistica. Ci sono e quali sono secondo te le similitudini e le differenze tra l’approccio Operaista e quello Situazionista rispetto alla questione architettonica e urbanistica?

Schematizzando si potrebbe affermare che la differenza sostanziale tra l’Internazionale Situazionista e l’Operaismo consiste nel fatto che la prima si accontentò di essere una piccola società, una elite che Debord organizzò come un vero e proprio commando retto da una disciplina militare, mentre il secondo fu un movimento che puntava a immettersi in un più vasto movimento di massa, che avrebbe voluto essere anche egemone dentro il movimento operaio 

Schematizzando si potrebbe affermare che la differenza sostanziale tra l’Internazionale Situazionista e l’operaismo consiste nel fatto che il primo fu un movimento destituente mentre il secondo fu un movimento costituente. Il primo si accontentò di essere una piccola società, una elite che Debord organizzò come un vero e proprio commando retto da una disciplina militare, mentre il secondo fu un movimento che puntava a immettersi in un più vasto movimento di massa, che avrebbe voluto essere anche egemone dentro il movimento operaio. Non è un caso che i soggetti d’elezione del Situazionismo e soprattutto di artisti come Constant furono gli zingari e il giovane proletariato urbano, cioè coloro che rimanevano ancora ai margini della società industriale. Il situazionismo fu un movimento destituente perché, se da una parte riconosceva che il terreno di lotta era un terreno segnato dallo sviluppo industriale, puntava tuttavia a rompere con l’alienazione della società industriale sviluppando pratiche come la deriva, la costruzione di eventi, il nomadismo abitativo, il cui proposito era il recupero dell’esperienza fuori da quella dimensione che Debord identificava con lo spettacolo, ovvero la trasformazione in merce della vita stessa. Per questo motivo il Situazionismo non si risolse mai a scegliere tra la rivolta romantica e la lotta di classe. Questa esitazione – peraltro molto interessante – si può vedere bene proprio nel contributo artistico/architettonico non solo di Constant con la sua New Babylon, ma di Asger Jorn, l’unico membro artista dell’Internazionale Situazionista che Debord non allontanò dal movimento e che tentò di superare la teoria del valore di Marx proponendo una teoria in cui al valore determinato dal lavoro si sostituisse il valore artistico.

L’operaismo, al contrario, si identificò con l’operaio massa, l’operaio alienato della fabbrica e più tardi con l’operaio sociale e, dunque, con ciò che allora era il centro della produzione e della creazione di valore. Per l’operaismo dove c’era sviluppo c’era la possibilità di rovesciarlo, più sviluppata era l’alienazione più vi erano possibilità di uno sbocco rivoluzionario. Questa impostazione è palese nella No-Stop City degli Archizoom, che prefigurava la città come una condizione in cui l’urbanizzazione aveva raggiunto il massimo dello sviluppo e in cui la città diventava la sovrapposizione delle tre fondamentali tipologie della città industriale – la fabbrica, il parcheggio e il supermarket – cose che facevano orrore ai situazionisti. Per i membri di Archizoom questo processo di alienazione, in cui città e produzione erano e apparivano come una immensa catena di montaggio di fatti sociali, era potenzialmente più utile al movimento operaio che al capitalismo, perché mostrava la dipendenza di quest’ultimo dal lavoro vivo, il vero motore dello sviluppo. Tafuri invece metteva in risalto il modo in cui all’interno dello sviluppo industriale l’architetto non era più il creatore di forme (come invece sostenevano Jorn e Costant), ma un tecnico-organizzatore di processi, e per questo guardava con interesse a figure come Ludwig Hilberseimer, Hannes Meyer e soprattutto al Le Corbusier del Plan Obus, in cui l’architetto svizzero concepisce la città non più come forma ma come processo di produzione.

Invece ci sono dei punti di contatto molto interessanti e mai studiati tra la critica urbanistica avanzata dal situazionismo e le teorie di Rossi. Come ho spiegato nel mio libro, Rossi era critico verso le teorie neo-riformiste della città-territorio che intendevano la città come un organismo che neutralizzava la singolarità dei luoghi dentro il piano continuo dell’urbanizzazione. Occorre dire che non vi era nulla di nostalgico o identitario nel modo in cui Rossi intendeva la teoria del luogo. Per Rossi il concetto di luogo, specialmente nella sua definizione architettonica di fatto urbano, identificava la singolarità, la concretezza dell’evento che eccedeva le sue determinazioni economiche e tecniche. In questo Rossi era molto influenzato da studi antropologici, soprattutto da studiosi come Marcel Mauss, le cui teorie ebbero una certa influenza tra i Situazionisti. Peraltro è interessante notare come l’immaginazione urbana di Rossi e dei Situazionisti sia stata suggestionata dagli stessi riferimenti: il Surrealismo, i quadri di De Chirico, i paesaggi di Claude Lorrain e i capricci di Canaletto – dove il pittore veneziano metteva assieme in composizioni inaspettate pezzi di città e monumenti proprio come nella mappa di Parigi di Debord – e infine la tecnica del collage e del détournement messa in atto sia da Debord che da Rossi. D’altronde Rossi, nella famosa tavola della Città Analoga e nel suo film Ornamento e Delitto, usa la tecnica del found footage usata da Debord in tutti i suoi film. A mio avviso è più che una coincidenza il fatto che Rossi e Debord amassero lo stesso luogo di Venezia: la Punta della Dogana, celebrata da Debord in Panégyrique e luogo d’attracco di una delle opere più enigmatiche di Rossi, il Teatro del Mondo. La Punta della Dogana, con la sua forma nettamente insulare che si affaccia sul bacino di San Marco, mette in forma Venezia come un arcipelago di luoghi distinti, che evocano una sorta di suggestivo Denkbild: una città di parti irriducibili tra loro e, ancor di più, irriducibili al piano continuo dell’urbanizzazione.

6. Nel finale del tuo libro, che nell’edizione originale americana risale al 2008, la tua critica al post-operaismo è molto dura: «La radicalità dell’approccio analitico avanzato dal post-operaismo è stata la sua qualità teorica e allo stesso tempo il suo limite politico […]. Il rischio del post-operaismo è proprio quello di limitarsi a essere un colto riferimento per una accademia stanca del girare su se stesso del post-strutturalismo». Nell’introduzione all’edizione italiana, però, sottolinei come tu stesso oggi trovi quel giudizio così tranchant sul post-operaismo «molto ingeneroso verso una tradizione di pensiero che è stata tra le più fertili nel mettere a tema le condizioni storiche in cui viviamo». Esattamente in cosa ricalibreresti questo tuo giudizio?

La capacità analitica del pensiero operaista e post-operaista è stata ed è straordinaria, e ha avuto un impatto decisivo nel lavoro di ricerca e militanza di molti compagni e compagne, al di là delle possibili critiche e dello scetticismo rispetto a certe analisi tendenziali (tipo il lavoro immateriale) 

Penso sia sbagliato esprimere giudizi in modo sommario come ho fatto nel mio libro. Diciamo che all’epoca identificavo il post-operaismo soprattutto con la risonanza che a ridosso delle giornate di Genova aveva avuto Impero di Hardt e Negri nei luoghi e nelle situazioni in cui mi trovavo, tra l’Olanda e gli Stati Uniti. In quei contesti ho spesso visto come alcune istanze proposte da quei libri venivano lette come apologie del movimentismo anarchico affini alla retorica del bottom-up. A mio avviso questa lettura riduceva le ambizioni nutrite dall’Operaismo classico nei confronti del potere operaio, cioè la possibilità di prendere e gestire il potere. Ovviamente il post-operaismo va oltre tutto questo e include una galassia di interventi e contributi che, anche se in risonanza tra loro, sono anche molto diversi ed eterogenei. Devo dire che la capacità analitica di questa tradizione di pensiero è stata ed è straordinaria, e ha avuto un impatto decisivo nel lavoro di ricerca e militanza di molti compagni e compagne, al di là delle possibili critiche e dello scetticismo rispetto a certe analisi tendenziali (tipo il lavoro immateriale), che a volte possono apparire un po’ schematiche.

Quando alla fine degli anni Novanta scoprii l’operaismo, vi era una scarsa conoscenza della prima fase di questo movimento, rappresentata ad esempio dagli scritti di Panzieri, da Operai e capitale di Tronti, ma anche da saggi fondamentali come Scrittori e popolo di Asor Rosa (che io trovo un libro importantissimo, per certi versi anche attuale rispetto a certe tendenze della produzione culturale contemporanea), ma anche tutta la fase di «Contropiano». Insomma a me sembrava che tutta una parte dell’Operaismo, quella che poi in parte scelse l’impegno nel Partito comunista e nella politica istituzionale, fosse stata rimossa a favore di una re-intepretazione in chiave movimentista, che nei luoghi dove mi trovavo veniva spesso accorpata agli studi subalterni o post-coloniali. Peraltro a tutt’oggi manca una traduzione di Operai e capitale in inglese e persino in Italia non è più disponibile da molto tempo una raccolta degli scritti di Panzieri.

7. Nel tuo articolo su architettura e controrivoluzione contenuto in Differenze italiane, Rem Koolhaas rappresenta emblematicamente la cattura neoliberista del discorso critico dell’architettura; Negri invece, in un testo del 2007, parlando di Bigness sembra riconoscervi, anche se criticamente e almeno in parte, una certa affinità. Può essere questa diversa posizione su Koolhaas esemplare della differenza tra operaismo e post-operaismo?

Non intendevo suggerire che Koolhaas rappresenta la cattura neoliberista dell’architettura, ma che il suo pensiero rappresenta la fase per così dire rivoluzionaria del neoliberismo. Il post-operaismo ha dato molta importanza a questo passaggio a volte riconoscendo in esso i tratti di una rivoluzione al rovescio 

Non intendevo suggerire che Koolhaas rappresenta la cattura neoliberista dell’architettura, ma che il suo pensiero rappresenta la fase per così dire rivoluzionaria del neoliberismo. Come sapete il post-operaismo ha dato molta importanza a questo passaggio a volte riconoscendo in esso i tratti di una rivoluzione al rovescio. Non a caso nel mio saggio descrivevo l’opera di Koolhaas nel segno della controrivoluzione nel senso in cui ne parla Virno nel suo famoso saggio Do you remember counterrevolution? Virno sottolinea come la controrivoluzione non è semplicemente una restaurazione dell’ancien régime, ma una rivoluzione in senso contrario, cioè una rivoluzione che incorpora molte istanze rivoluzionarie, ma le indirizza contro la rivoluzione. In Olanda, dove Koolhaas apre il suo studio, l’Office for Metropolitan Architecture, quando l’ethos neoliberista prese piede nei primi anni Ottanta dopo l’ondata punk e del movimento squatter, lo fece incorporando molti valori di quest’ultimo, ma declinandoli in direzione liberista. Non bisogna dimenticare che la creative class nasce a Rotterdam come una sorta di leninismo imprenditoriale simile a quello che negli stessi animava la rivoluzione della Silicon Valley. Da questo punto di vista l’opera di Koolhaas, sopratutto tra gli anni Settanta e Ottanta, è estremamente interessante perché rappresenta proprio questa fase, ovvero quello che si potrebbe definire come liberismo rivoluzionario. Con il suo entusiasmo per la metropoli capitalista – da New York, ad Atlanta, a Las Vegas – Koolhaas attacca non solo il postmodernismo storicista, ma anche le ultime illusioni dell’urbanistica riformista, introducendo quello che negli anni Novanta definisce come dirty-realism. L’opera di Koolhaas nella sua fase iniziale si appropria dei temi lanciati dai collettivi fiorentini radicali Archizoom e Superstudio, cioè che le contraddizioni della metropoli capitalista non vanno risolte, ma, anzi, vanno esagerate e sfruttate. Teorie come Generic city, Bigness e Junkspace sono gli esiti estremi di questa posizione. In questi scritti Koolhaas attacca frontalmente un certo sentimentalismo che pervade l’urbanistica, mostrando la città (o quello che rimane di essa) nella sua versione più estrema e grottesca. Bisogna dire che in questa fase del lavoro di Koolhaas vi era del sano cinismo e dunque non mi sorprende che Negri lo trovi utile per un’analisi delle condizioni della città contemporanea. Allo stesso tempo credo che il discorso sulla città di Koolhaas – al di là del fatto se egli sia un architetto neoliberista o meno – ha una grossa lacuna: la totale assenza nel suo discorso della realtà del conflitto. In tutte le analisi di Koolhaas sulla città contemporanea il conflitto di classe è completamente sparito e la città sembra farsi da sé. Alla fine, nella visione di Koolhaas, la città si fa da sola e, come egli ha scritto in Delirious New York, tende a raggiungere quel punto mitico dove il mondo è completamente fabbricato dall’uomo, al punto che vi è una perfetta coincidenza tra i desideri di quest’ultimo e la città. Come ho scritto nel saggio che voi citate, qui emerge tutto il carattere ideologicamente borghese della visione urbana di Koolhaas, nella misura in cui questa visione esclude il conflitto (che, come sappiamo, è alla base dello sviluppo urbano e del mondo capitalistico) e lo rimpiazza con una visione mitica e autopoietica delle «forze della Groszstadt».

8. L’architettura negli anni Sessanta fa sua l’ipotesi operaista della fabbrica che si fa città e della città che si fa fabbrica, in alternativa all’ipotesi risalente agli stessi anni della città-territorio. L’architettura poteva così portare il conflitto fordista dentro la città. Nel post-fordismo, l’idea della città-fabbrica è venuta meno e non configura più la realtà urbana. Alla fine è prevalsa allora l’idea della città-territorio? O abbiamo oggi a che fare con ulteriori configurazioni?

È prevalsa l’idea di città-territorio (nelle sue versioni deboli come sprawl, città diffusa), ma essa non è altro che l’immagine ideologica e mistificata della città fabbrica, che invece è diventata la struttura stessa del territorio urbano contemporaneo proprio nel momento in cui la fabbrica fordista tendeva a scomparire 

Sì, è prevalsa l’idea di città-territorio (nelle sue versioni deboli come sprawl, città diffusa ecc.), ma essa non è altro che l’immagine ideologica e mistificata della città fabbrica, che invece è diventata la struttura stessa del territorio urbano contemporaneo proprio nel momento in cui la fabbrica fordista tendeva a scomparire. Qui occorre citare il Tronti de La Fabbrica e la Società, quando affermava che nel momento in cui tutta la società viene ridotta a fabbrica, la fabbrica in quanto tale sembra sparire e in questo modo si conclude lo svolgimento ideologico delle metamorfosi borghesi. Per questo sono convinto che quella che gli urbanisti chiamano città territorio, città globale, urbanizzazione planetaria e chi più ne ha più ne metta non è altro che l’allargarsi a dismisura della città-fabbrica che mette al lavoro tutto lo spettro delle relazioni sociali e affettive, dove produzione e riproduzione diventano una cosa sola. La No-Stop City degli Archizoom è per certi versi diventata una realtà. Sin dalla sua invenzione, la fabbrica non è stata mai una forma fissa, ma un dispositivo in continua trasformazione, che include produzione, riproduzione, conoscenza, logistica.

Per questo la fabbrica ha sempre vissuto in simbiosi con il suo territorio, innervandolo e sfruttandolo, facendo diventare il territorio stesso un apparato di cattura e accumulazione continua. Manfredo Tafuri descriveva la città moderna come macchina per l’estrazione del plusvalore sociale, e si potrebbe allargare questa definizione a tutto il territorio urbanizzato, cioè a tutto il pianeta. Il mondo stesso è diventato una immensa fabbrica, una fabbrica materiale e immateriale.

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