In fuga
M49: un libro di Massimo Filippi
L’ultimo libro di Massimo Filippi, M49. Un orso in fuga dall’umanità, edito da Ortica, casa editrice «che persegue con i fatti quella solidarietà così lontana dall’attuale competizione fratricida», è insieme una tecnica di costruzione poetica e un modo di convivenza politica. Questa sua natura ancipite ha condizionato anche la scrittura del sottoscritto facendo collassare quella che doveva essere una recensione in vortice di desideri che, come si intuisce in Avviso alle fuggiasche in cui l’autore esplicita il motivo che lo ha spinto a scrivere un libello irriverente nei confronti del conformismo intellettuale contemporaneo e diffamatorio verso un mondo umanamente sempre più oscuro, spiazzano e spaziano tra la mia voglia di ispirazione, la volontà testimoniale dello scrittore e, più di tutto, la passione vitale e mortale di un orso che ha trascorso parte della sua vita recluso in una gabbia. Filippi rimanda al mittente ogni concessione alla politica emergenziale e utilitaristica del meno peggio e lo fa concentrando i suoi strali contro la deriva umanitaria che la macchina antropocentrica del capitale e del libero mercato innesca per inibire ogni soggettività desiderante.
È così che il campo virtuale della scrittura che si fa racconto – raccontare significa creare relazioni reciproche tra il noi umano e l’oltre mondo e ascoltare i suoni e i versi dell’inumano ‒, la pagina bianca del libro, diventa una situazione in cui intervengono i sogni, l’immaginazione e le aspettative di chi scrive, di chi legge e, soprattutto, di una bestia a cui è stata preclusa la possibilità di muoversi, di raccontarsi con le unghie e con i denti. Cosa rimane infatti di un orso adulto che «mangia, beve, corre, pensa, ruglia, lascia tracce e le cancella»? Solo una lettera e un numero, un codice alfanumerico che lo include in una specifica categoria etologica – mammifero che appartiene al sottordine dei caniformi – escludendolo dal resto e cioè dal mondo. La nominazione M49 – per quanto appartenga al lessico carcerario – rappresenta proprio questo tentativo di collocare la bestia, questa bestia – nel recinto della significazione e della rappresentazione umana. M49 è un codice (a sbarre) che dice e proclama animale, parola contenitore, clone di vita e di morte, luogo comune, come afferma Derrida, che cancella ogni differenza e ogni singolarità in nome di una specificità che assume le fattezze di un parco, di uno zoo, di un allevamento, di un macello, di una gabbia, così come di una foresta (ancora vergine) o di un santuario (ancora arca).
Ma M49 è una storia e ha una storia. Dopo essere stato oggetto di un esemplare esperimento biopolitico di ripopolazione – l’ennesima inclusione in uno spazio specifico come quello, antropicamente strutturato, delle montagne e delle valli trentine – l’orso viene ricatturato in quanto naturale disturbatore della quiete pubblica e ricacciato nella sua gabbia. Nonostante l’assidua sorveglianza a cui era sottoposto e le continue attenzioni elargite da esperti e amministratori locali, riesce a fuggire per ben due volte eludendo «la sorveglianza, i muri, le sbarre e le telecamere». Nuovamente catturato si trova attualmente recluso nel carcere di massima sicurezza noto come Centro di Fauna Alpina di Casteller. I tre capitoli che strutturano il libro sono ritornelli che scandiscono queste tre prospettive desideranti. Per Filippi però la cosa importante è disinnescare il meccanismo antropocentrico della prima, seconda e terza persona (umana) che struttura lo statuto espressivo della letteratura. In questo senso l’uso (e il riuso) dei punti di sospensione o la mancata punteggiatura fanno del terzo e ultimo capitolo un’unica frase, una para-tattica congegnata per non interrompere il flusso desiderante di una scrittura finalmente plurale, unica voce attribuibile a unorso in cui nuove parole come vitamorte o un grafema come l’asterisco costituiscono nodi sensuali che materializzano la lingua minore di una vita dilazionabile all’infinito piuttosto che «il ben più perentorio e temibile la vita».
Pertanto questo libro è sempre in fuga, fuga dall’umanità e fuga dall’animalità prima di tutto, ma anche fuga da tutte le recinzioni – reali e simboliche – che ci costringono a una vita sospesa, una vita tassonomicamente assistita, fuga che è anche una diserzione dalla grammatica dominante del linguaggio letterario. La fuga infatti implica sempre un rifugio dove nascondersi ed è forse questa la più grande lezione storica chi gli animali non umani ci prospettano, da sempre, perché «stare dentro la fuga è questione inestricabile dal vivere mortale».
Quello che si evince e si sperimenta leggendo questo libro è il tentativo di risignificare la terminologia tautologica delle astrazioni lessicali al fine di innescare una vera guerriglia semiotica contro gli abusi della lingua ufficiale. Il codice M49 sussume dunque le due astrazioni che sintetizzano in modo esemplarmente performativo la nostra abitudine ad associare la vita senziente alla capacità di comunicare: l’umanità e l’animalità – l’articolo determinativo determina il potere dicotomico di replicazione del doppio standard da cui è impossibile astenersi per non essere tagliati fuori dal regime di una socialità conforme – sono le due parole totem in grado di materializzare il mondo delle specie, delle gerarchie e, inevitabilmente dello sfruttamento; mentre il si neutrale (che esplica la dimensione pacifica del terzo capitolo) diserta il doppio moltiplicando «[l’] alfabeto sconosciuto che la bocca ancora non sa pronunciare»1.
È per questo che i tre capitoli – Il mio nome è tra dove è l’orso a scrivere; Tra infinite sbarre dove è il lettore a leggere; Tra-me (e me) dove scrivere e leggere si neutralizzano vicendevolmente, disattivando la struttura paradigmatica del senso umano a favore del sensuale animale, sono interamente strutturati sulla lettera M, la quale, a sua volta, genera tutti i paragrafi del libro in modo tale che un codice nato per sequenziare e tracciare esistenze passi dall’osceno ciclo della reificazione capitalista alla scena autentica della vitamorte, in una sorta di lettrismo rovesciato. Del resto Filippi, citando Deleuze, non scrive altro che per amore.
La vitamorte di un orso oggi purtroppo non si autodetermina. Essa non è né libera di vivere né tanto meno di morire. Il potere infatti, soprattutto quando si rivolge a quei soggetti ritenuti non conformi al modello umano per eccellenza – bianco, eterosessuale, benestante, proprietario ‒, come afferma Foucault, ti fa vivere spingendoti contemporaneamente nella morte. E il movimento delle bestie rappresenta un vero e proprio scandalo per l’umanità, abituata a far morire o a far vivere per legge. «M’ergo – furioso ribelle incauto – tra – le – due – morti (quella simbolica prima della reale e la reale dopo quella simbolica» dice infatti l’orso.
E ancora: «Scavalco le vostre tassonomie, confini e classificazioni». Questa interpretazione fonetica è una traduzione scatologica del movimento. Le tracce lasciate dall’orso sono merda (d’autore), indizi del suo passaggio e muri, filo spinato, gabbie, recinti e reti elettrificate sono gli ostacoli che oppongono il chiuso all’aperto, spazio elettivo degli animali secondo Rilke, ma anche spazio pertinente ai loro destini, escatologia senza trappole vere o fotografiche.
Quando in Il mio nome è tra M49 scrive «Maledetti quelli che chiedono grazia… rivendico la mia pericolosità e la gran voglia, se serve, di far danni grandi, enormi, universali» egli diventa il verso – lingua minore, estremo tentativo di opposizione alle rappresentazioni di Stato – della rivolta contro i significati naturalartificiali imposti dalla governamentalità tecnocratica dell’attuale macchina necropolitica con cui il capitalismo continua a esercitare il potere di astrarre la vitamorte di tutte le bestie e di tutti i fuggiaschi di questo mondo e da cui estrarre ossimori terrificanti: «guerre umanitarie, buona sperimentazione, droni democratici, effetti collaterali, bombe intelligenti, pace armata» e fuoco amico, aggiungo io. Ossimoro che è divenuto il mezzo attraverso il quale il potere tiene il fuori (ciò che s/fugge ) dentro (ciò che non si muove). E allora, in questa era chiamata superficialmente antropocene – ennesimo, piuttosto, riposizionamento della forza della specie che da privilegio si trasforma addirittura in era geologica – il mio nome è tra significa dire il mio nome è nessuno. In Tra infinite sbarre è la vitamorte che scrive. Essa, «fedrifaga e traditrice di regni e di specie», si chiede e ci chiede da dove arrivi il coraggio di circoscrivere il fango muffoso e marcio del vivente in recinti scritti, tautologici ma veri come gabbie, astratti ma reali come tassidermie. Gli animali sono dunque archivi di note propedeutiche al sapere, parole nella nobile lingua della scienza, ursusu arctor, marchio a fuoco su corpi nati senza nome; cabinet of curiosity, musei dove la morte scalza meravigliosamente la vita; wunder kammer dove posare lo sguardo: M49 (e i primi 48 e i successivi ci saranno ancora quando leggerete questo libro?).
Se vogliamo una risposta la possiamo trovare nei mondeggiamenti intrecciati cari a Haraway. Nature, culture, soggetti ed oggetti, nomi, numeri e codici non esistono all’infuori della sfera umana. Solo nel mondeggiare, nell’incontro tra mondo animale e mondo umano possiamo scorgere specie compagne, perfino di fronte a una gabbia in cui è recluso unorso. Perché è del mondo che bisogna occuparsi e avere cura; nel mondo già siamo posti in essere. Come esseri umani collaboriamo, da sempre, a questa inarrestabile relazione che costruisce mondi senza contenuto, «pratiche di modellamento, co-creazioni rischiose, fabule speculative»2. Raccontare storie insieme a una creatura situata storicamente come M49 per Filippi significa imbattersi su una strada densa di pericoli (scrivere per) ma anche di gioie (scrivere con).
Giungiamo così Tra/me (e me) a con-divenire nella fitta ragnatela delle specie compagne del pianeta infetto, sbarazzandoci anche della nostra agency, culto dell’ennesimo riposizionamento del soggetto assoggettante. Per Filippi infatti questa capacità di prendere decisioni autonomamente specifiche rappresenta la propensione, tutta umana, a colonizzare mondi, mentre è pensando il pensiero degli altri che si mondeggerebbe l’eterno stato di eccezione in cui siamo oggi coinvolti, sparigliando privilegi di classe e di specie, de-antropomorfizzando resistenze e resilienze e intercettando la rivoluzione – per dirla con Rosa Luxemburg – mentre «salta recinti, specie, regni e confini».
Perché la questione da sciogliere come un nodo gira sempre intorno alla coincidenza tra io e me, tra un corpo eretto con la testa sulle spalle e un corpo strisciante e acefalo, il corpo senza testa sutura le cicatrici interiori dell’io-soggetto e lenisce l’alienazione del me-oggetto, insomma l’immagine della natura immaginata non è ontologia da proteggere né essenza da preservare o da sfruttare; non è un codice da decifrare; non è calcolo dei soggetti per rivoluzioni a venire; non è algoritmo che addiziona, divide, sottrae; semmai è secchio immondo; sacco idroponico di permacultura; reazione a catena di virus, batteri, muffe, enzimi e negri, froci, orsi, maiale e poveracce; nuova utopia illuminata dagli «acustici fosfeni delle lucciole», insomma orsa maggiore, viatico per stelle-asterischi sempre visibili anche dal pianeta più infetto, come questo libro scritto da ragni e serpenti nell’odore stordente dell’erba. «Morire non di una sola malattia, ma di tutte insieme e di nessuna in particolare, morire uguale, eppur così diverso morirsi come ognuno muore, immobile e senza peso il cuore». Una menzione speciale va alla grafia e alle tavole di Andrea Nurcis che disegna solo per amore, come Massimo Filippi.
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