Gratuità, relazionalità, affettività sono i tratti di una pratica ambivalente. La «cura» come paradigma etico-politico, mentre si configura come risorsa imprescindibile per l’organizzazione del lavoro contemporaneo? «Cura» è un termine chiave per >…
La cura del capitale
Quando il management è sentimentale
Che cosa significhi cura lo sappiamo soprattutto dalla pratica. Categoria forse più empirica che teorica, come è già stato notato, è assai complesso circostanziare il concetto e per spiegarlo servono specificazioni relative al contenuto, all’oggetto, all’azione, a chi la conduce, a chi la riceve, ai luoghi nei quali si esplica. Le donne, per altro, si ritrovano sempre collegate alla cura poiché il lavoro di cura è automaticamente riportato a competenze che vengono ritenute femminili nonché a un ruolo di genere, meccanismo che rivela anche gli aspetti normativi connessi: tensione tra il piacere e l’obbligo a darsi; adesione/imposizione a/di un modello «naturalmente» amorevole e accogliente; aspettative fusionali del soggetto e pressione emotiva e morale che viene dal contesto esterno. Molta idealizzazione del lavoro di cura deriva dalla figura della madre e della cura materna, cura appassionata e spassionata per eccellenza.
Per lunghi secoli mai ne viene menzionato il valore. Eppure, la cura è pur sempre un rapporto perfettamente inserito in uno spazio e in un tempo, con tutte le implicazioni che ne derivano sul piano propriamente socio-economico. Le donne stesse hanno paradossalmente contribuito a radicare tale visione, tra mistic
Da lì, lo spettro metaforico della perfetta dedizione che, nutrendo, trae il proprio stesso nutrimento, in modo disinteressato (gratuito) e pressoché privo di contraddizioni, si allarga ad altre declinazioni della cura (cura della casa, cura nel lavoro, cura nelle relazioni…), inserendo rimandi e significati che enfatizzano l’aspetto edificante, la fondazione etica del compito, che si ripaga attraverso il proprio contenuto simbolico. Per lunghi secoli mai ne viene menzionato il valore. Eppure, la cura è pur sempre un rapporto perfettamente inserito in uno spazio e in un tempo, con tutte le implicazioni che ne derivano sul piano propriamente socio-economico. Le donne stesse hanno paradossalmente contribuito a radicare tale visione, tra mistica e de-valorizzazione, subendo il fatto che il lavoro di cura fosse considerato dall’organizzazione economica come un prodotto secondario. Chi si occupa dei figli, della casa, ha affrontato lo stigma di una società fondata sul lavoro salariato – che oggi, tuttavia, si va sgretolando.
Il concetto di cura ha ottenuto, insomma, un posto limitato nell’analisi economica, benché si tratti di un processo fondamentale per la prosecuzione e il mantenimento della vita umana. Il femminismo è riuscito a dimostrarne l’importanza essenziale all’interno del sistema capitalistico, mentre gli economisti marxisti hanno considerato la cura e il lavoro domestico come improduttivo dal punto di vista capitalistico, cioè quello della produzione di plusvalore.
Non è strano domandarsi se, nel presente, la cura, intesa nel suo significato più esteso di riproduzione sociale (il complesso delle interazioni e degli scambi che si generano, nel vivere, all’interno del tessuto sociale; i processi cooperativi e di convivenza e di relazione; l’intelletto sociale incarnato nei corpi; la creazione di legami e di forme di riconoscimento e sostegno reciproco non necessariamente associati a legami parentali) non abbia assunto un ruolo più direttamente pervasivo per la vita economica.
Parte della sfida nel rispondere a questa domanda, che rimbalza, sta nel notare come il contenuto della cura, ovvero la vita nei sui diversi addentellati e la sua manutenzione, diventi esplicita fonte di (plus)valore. Dall’altro lato, va ricordato come la famiglia sia stata esplicitamente teorizzata e progressivamente strutturata dal neoliberismo come «un’unità di produzione» perfettamente funzionalizzata ai disegni capitalistici, organismo permeabile alla cura intesa come controllo del vivente. Usando le parole di Tristana Dini dal suo recente libro La materiale vita. Biopolitica, vita sacra, differenza sessuale, «la cura femminile rivolta a chi dipende è divenuta oggi carica – in sede famigliare – di indispensabili premure, di misure educative e sanitarie, di nuovi controlli sollecitati da un biopotere che preme sulle vite individuali»1.
Penso, come esempio significativo di tale dinamica, al culto del figlio, un bambino occidentale che deve essere oggetto di tutte le attenzioni e le ortopedie per farne un condensato di perfezione così da consentirgli di giocare la propria eccellenza nella futura competizione per il mercato del lavoro. I servizi di cura, educativi e formativi, le spese che vengono imposte per raggiungere l’obiettivo, si moltiplicano, ordinando la realizzazione di aspettative supposte razionali che rimuovono molte variabili significative come, per esempio, la classe di appartenenza e i circuiti nei quali si è inseriti.
È propriamente, e non casualmente, la scuola di Chicago, con Gary Becker e Theodore Shultz, già nei primi anni Settanta, a indicare la famiglia come un’unità decisionale che massimizza la propria utilità nel consumo ma anche nel determinare la destinazione di tempo umano per le varie attività di produzione. La funzione di produzione della famiglia viene connessa ai concetti di capitale umano e di fungibilità del tempo-denaro umano (time-budget delle attività umane). I bambini vengono individuati come un eterogeneo stock di capitale umano2. In tutto questo c’è assai poco di morale o di affettivo. I teorici del capitalismo neoliberista sono solo indifferentemente consapevoli del ruolo economico rivestito dai processi della cura, o della riproduzione sociale, e li piegano a una funzionalità capitalistica.
Premono per un progressivo processo di potenziamento dell’individuo-impresa, attraverso il supporto e il concorso di ambiti e fenomeni di norma reputati non economici fino al rovesciamento dei rapporti del sociale rispetto all’economico, nell’intento di minimizzazione i costi e di massimizzare il controllo sociale.
Il capitalismo neoliberista percepisce l’ineludibile dipendenza e fragilità umane, così come l’attitudine a farsene carico, come un bacino da sfruttare, e punta all’impresizzazione della cura, avviando una sorta di management della vita
Attraverso tali suggestioni, qui troppo scarnamente proposte, possiamo allora individuare una traccia: il capitalismo neoliberista percepisce l’ineludibile dipendenza e fragilità umane, così come l’attitudine a farsene carico, come un bacino da sfruttare, e punta all’impresizzazione della cura, avviando una sorta di management della vita. Un complesso di processi che viene anche definito «economia sociale di mercato» e che ha il suo aspetto cruciale nella privatizzazione delle forme di assicurazione sociale.
Si può esaminare il modo in cui l’healthcare management o management sanitario vada crescendo in relazione allo sviluppo della domanda di servizi sanitari che aumentano parallelamente alla difficoltà dei mezzi finanziari disponibili per il settore sanitario pubblico. La direzione seguita dalle politiche economiche attuali, per quanto riguarda la cura sanitaria, privilegia la necessità di tener conto della competitività, della concorrenza e della solvibilità, con relativo e progressivo abbattimento delle differenze tra impresa pubblica e privata. Oppure, possiamo prendere in considerazione il welfare aziendale e le forme di welfare sussidiario come precisi modelli di segmentazione dell’inclusione differenziale e della precarietà differenzialmente distribuita, che si fanno espliciti nelle diverse gradazioni offerte da forme di salario differito o di assicurazione privatistica non basate su alcun principio universalista di garanzia, in un dettaglio di «accessi», cioè di servizi di cura (flexible benefit), un ricchissimo catalogo di «prodotti e servizi» che vanno dal dentista all’assistenza per i genitori anziani alla babysitter e che godono di forme di detassazione delle imposte sui redditi.
Il lavoro di cura diventa insomma, in queste diverse e veloci rappresentazioni, direttamente parte del capitale, mentre, contemporaneamente, si continua a disconoscere l’attività lavorativa di cura delle donne. Se la biopolitica è una «trasposizione o una perversione della cura materna»3 come scrive ancora Dini rifacendosi ad Angela Putino, aggiungo che è anche un tentativo articolato di spostamento dal lato del capitale della «parte maledetta», strumentalizzando il desiderio di essere vivi, di stare in vita, di riprodurre la vita, di mantenere in vita. Allo stesso modo, il regime neoliberale ha avviato il trasferimento dal lato del lavoro a quello dell’impresa (capitale) attraverso la figura del precario-impresa o impresario di se stesso o lavoratore autonomo, sfruttando tensioni di libertà e desiderio interne al soggetto stesso.
Uscire da queste maglie, dalla «saturazione biopolitica»4, non è facile. Ma a portarci fuori non saranno che una consapevolezza e una lotta che si pongano a questa altezza, sui terreni della valorizzazione avanzata, laddove la base dell’accumulazione capitalistica estende una capacità di cattura che si aggiunge alle forme più tradizionali (e non meno sfruttate) del lavoro salariato e/o etero diretto. Biopolitica non è dunque una parola vuota se la decliniamo politicamente, cioè la incarniamo, poiché è espressione attuale di un processo di sfruttamento capitalistico cangiante, sulla vita e sui corpi, il quale, oltre a dispensare povertà economica, prova a immiserire anche il nostro universo sentimentale. Da questo punto di vista, l’agire rivoluzionario presente non può che fare anche della resistenza alla perversione sentimentale indotta dal capitale, il proprio obiettivo. La sovversione dell’infelicità non può che passare dalla tematizzazione politica, e conflittuale, di tali questioni e problemi. È questa la nostra cura.
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