Tempi della cura e della politica

La radicalità di una pratica

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Aut.Trib. 17139 - Edicola Corso Umberto, Roma (1978).

La presa di distanza dalla sfera domestica, la critica della divisione sessuale del lavoro, la denuncia di un welfare state come quello italiano, sostanzialmente incardinato sulla cosiddetta «terza gamba», appunto il lavoro domestico: furono anche questi, e non poco importanti, i punti di fuga di una generazione di donne che più di quarant’anni fa metteva al mondo la sua libertà e aiutava così il mondo a essere più libero. Ma la fuga impedì allora di cogliere e mettere a fuoco ciò di cui non tanto facilmente sarebbe stato possibile liberarsi e di cui anzi è preferibile, essenziale, non liberarsi. E da cui soprattutto sarebbe oggi possibile sviluppare un modo alternativo di pensare e di occuparsi insieme, donne e uomini, delle cose del mondo. Ed è ciò che pervade la complessità del lavoro domestico senza essere ad esso riducibile. Ciò che sfugge e continuamente fa scarto, ieri rispetto ai prescrittivi parametri del patriarcato, oggi all’altrettanto prescrittiva sussunzione neoliberale dell’anima di «quel» lavoro, visto che del fattore «D» il capitalismo ha fatto il significante generale della sua egemonia, il mantra delle performance manageriali che fanno leva sulle «motivazioni intime», sulla «realizzazione di sé», attraverso la fedeltà all’impresa e sulla soddisfazione esistenziale che dal lavoro proviene.

Retoriche della cura e idea che l’attitudine femminile alla cura sia una risorsa che produce effetti positivi all’impresa, da inglobare per il contributo che può dare sul piano economico e lavorativo per donne e uomini 

Retoriche della cura e idea che l’attitudine femminile alla cura sia una risorsa che produce effetti positivi all’impresa, da inglobare per il contributo che può dare sul piano economico e lavorativo per donne e uomini. Massima flessibilità, duttilità, e attaccamento alle priorità aziendali, cioè il contrario della conflittuale rigidità di mansioni e tempi del lavoro, che una volta era il registro di parte operaia. La femminilizzazione del lavoro non è infatti soltanto un dato statistico e non riguarda soltanto le donne.

Nell’estenuante pianificazione della loro vita lavorativa, le donne sono indubbiamente duttili, pragmatiche, razionali. Sanno tenere insieme, in un instabile equilibrio, il senso di responsabilità verso i propri cari e il desiderio di essere libere, e poi il lavoro e la maternità, la voglia di lavoro e la voglia di famiglia. Sono da sempre maestre di flessibilità.

Intorno a tutto questo, e alle infinite contraddizioni che produce, si gioca forse una possibile partita di cambiamento dell’ordine delle cose e del modo di rappresentarle e soprattutto viverle. Le donne però dovranno esserne, se mai si produrrà l’occasione, il principale soggetto critico che ripensa la propria storia e la ridefinisce come terreno di un inedito modo di affrontare i problemi, propria a partire dal sapere intorno alla cura e dalle pratiche della cura. E dagli scarti che, nell’agirla, si producono.

La soggettività delle donne che opera nel lavoro di riproduzione, cura, accudimento, si è sempre determinata e formata nel loro avere a cuore il benessere dell’altro – il figlio, il partner o chi per lui, i componenti della famiglia, oggi allargata, gli anziani – e questo non tanto o non soprattutto per motivi altruistici e oblativi – che pure ovviamente ci sono, spesso ancor oggi oltre misura, e hanno rappresentato per un tempo infinito il codice prescrittivo dell’ordine patriarcale, la riduzione coattiva dell’attitudine alla cura a dato di natura dell’essere donna – quanto per il sentirsi ogni donna vincolata all’altro da un continuum esistenziale e sentimentale, fatto non solo di assunzione di responsabilità per l’essere amato e del sapere quanto il suo benessere dipenda da lei, ma anche per un sentimento di reciprocità della dipendenza dall’altro e, insieme, dal senso della propria insostituibilità nei suoi confronti.

Soggetto relazionale radicale, tale per eccedenza di vissuto esperenziale della reciprocità: per questo ogni donna è consapevole che lei non può fare a meno di rispondere all’altro che ama o di cui sa di doversi prendere cura 

Soggetto relazionale radicale, tale per eccedenza di vissuto esperenziale della reciprocità: per questo ogni donna è consapevole che lei non può fare a meno di rispondere all’altro che ama o di cui sa di doversi prendere cura, conoscendo e riconoscendo un legame produttivo di vita in espansione tra lei e l’altro da sé. Produttivo di vita perché realizza un benessere che soltanto attraverso quella relazione si dà ed è essenziale per il vivere. Relazionalità radicale che può essere considerata al pari di una «risorsa etica», direbbe Judith Butler, grazie a cui il soggetto femminile può riconoscere come anche sua la vulnerabilità dell’altro – quella della sua creatura in primis – e trarne radicale motivazione del proprio prenderne cura.

Questa interdipendenza di tipo esistenziale è ignota alla dimensione storicamente data del potere – antropologia del potere dominante, ancora maschile, nonostante l’evidente crisi del maschile – e alle sue concreta applicazioni, che non ignorano la pratica della cura a cui attribuiscono tuttava uno statuto completamente diverso.

L’attitudine alla cura, al prendersi cura di qualcosa o di qualcuno fa parte della vita attiva di uomini e donne. C’è sempre stata la cura del Regno, dello Stato, degli affari, dei beni di famiglia, del bilancio pubblico, del bestiame, che non può essere abbandonato dopo un terremoto, come ci insegnano i recenti drammi italiani, delle faccende militari e tutto il resto. Soprattutto uomini se ne occupavano e ancora se ne occupano, ma anche donne, non poche qua e là già in passato, e oggi sempre più ovunque. Qui però il senso della cura coincide soprattutto con l’ambizione del potere, l’interesse economico, il calcolo dell’opportunità, l’abilità del mantenersi al comando di qualche cosa. E altro del genere. E sono ancora e non per caso soprattutto uomini a esserne al centro. Ma della cura c’è l’altra dimensione, e c’è la diversa qualità che soltanto la storia delle donne ci ha consegnato e ci fa conoscere, quella che parla della complessa dimensione del lavoro di riproduzione della vita e di giornaliera produzione delle condizioni materiali, affettive, psichiche e psicologiche, relazionali che rendono possibile la vita di creature e adulti, e l’apprendistato della parola per le creature infanti, che la stretta relazione con la madre rende possibile e alimenta.

Il mondo, globale e globalizzato, dominato dai crudeli algoritmi finanziari, dal saccheggio predatorio del pianeta, dal caos geopolitico, dalle guerre, dall’insana bolla mediatica, va come va – sempre peggio, bisogna dire – e sempre più si vive nella paura del rischio che qualche catastrofe sia in arrivo, e farà seguito a quelle che già ci sono state e sembrano non dover finire mai. La gestione della cosa pubblica appare – ed è – castale, autoreferenziale – questione soltanto di potere e dei poteri – segnata dalla mancanza di cura per le cose che contano agli occhi di chi non ha potere o ne ha sempre meno. L’impoverimento di quanti si sentono spossessati degli standard di sicurezza economica e di identità sociale, una volta certi o messi in conto come tali, è materia incendiaria, che accumula odio e rancore, mette in radicale discussione l’ordine delle cose, spinge i corrosi cuori umani verso il buco nero dei capri espiatori – le «invasioni» dei profughi del mondo, soprattutto – o le promesse di nuovi capipopolo che del sacrosanto rancore popolare contro le élites politiche hanno saputo fare la propria bandiera. Siamo nel mezzo di una bufera che mescola le carte e nasconde le ragioni della crisi e le responsabilità di chi ha in mano le vere leve del comando. L’infelicità del vivere è pervasiva, fatta, per ogni individuo che si senta atomizzato e lasciato andare alla deriva, dell’incertezza e del senso della propria vulnerabilità. Un dato a cui solo la demagogia politica sembra oggi saper rispondere e per questo dilaga e vince.

Così quel che accade non accade per caso. Decenni di egemonia neoliberista hanno distrutto le promesse di altri tempi, la dimensione della vita pubblica come realtà pensata per accogliere, carica di promesse e di benessere, dove lo Stato del welfare e dei diritti trasmetteva sicurezza e prometteva futuro. Alla rassicurante ideologia del progresso certo e lineare, è subentrata la mediatica pornografia emotiva dell’insicurezza e della paura.

Il «prendersi cura», come nuovo paradigma che entri nel discorso pubblico e nella pratica aiuti il dispiegarsi della convivenza sociale, della responsabilità pubblica, del governo dei beni comuni, della politica. Questo può mutare il modo di guardare alle cose e alla qualità dei rapporti e delle relazioni umane, oggi sempre più caotiche, prive di senso e esposte a un ordine simbolico fortemente pervaso dalle logiche del potere, dove il senso della giustizia e della responsabilità verso gli altri, le altre si è ormai perso o ha perso di senso.

Il dato, ormai inoppugnabile, dell’estrema vulnerabilità umana e della necessità che ne consegue di fare i conti con l’interdipendenza di ognuno di noi con e dagli altri, offre, come positivo terreno esperienziale su cui misurarsi, quello della soggettività relazionale 

Il dato, ormai inoppugnabile, dell’estrema vulnerabilità umana e della necessità che ne consegue di fare i conti con l’interdipendenza di ognuno di noi con e dagli altri, offre, come positivo terreno esperienziale su cui misurarsi, quello della soggettività relazionale, radicale e senza sconti, che è stata propria delle donne, e viene dai depositi di esperienza femminile di quel «prendersi cura» che tiene in piedi il mondo, e che l’ibris predatoria dei poteri continuamente distrugge e mette a rischio. Su scala locale e globale. Le donne continuano a essere al centro del lavoro di cura, anche in presenza di una sussunzione e ridefinizione funzionale che il capitalismo ne ha fatto. Sussiste infatti in ambito domestico e familiare, soprattutto in Paesi come l’Italia, l’impegno di sempre, oggi affiancato dal contributo lavorativo spesso essenziale di donne immigrate, che hanno preso nelle loro mani una parte decisiva, per qualità e quantità, del lavoro di cura. E il loro lavoro è di nuovo naturalizzato non solo dal sesso – non di rado sono uomini a farlo – ma dalla condizione di complessa subalternità sociale che segna l’esistenza di donne e uomini in fuga da altri mondi e che ha dentro di sé l’eco dell’ antica «naturalizzata» subalternità femminile.

Quello scarto, quel «resto» del prendersi cura – che è appunto la forza della relazionalità radicale mai riducibile all’attività pratica della cura – può rappresentare il terreno di elaborazione di una diversa visione e pratica della politica umana, della capacità di donne e uomini di inventare idee, costruire percorsi di vita in comune, immaginare strategie del fare polis che abbiano nel «prendersi cura» dell’Altro e degli altri, dei beni comuni e dell’in-comune, la loro ragion d’essere. Ricostruendo così dal basso delle relazioni umane – tentando di ricostruire – la spazio vivo di una differente politica che animi e innervi i rapporti e le relazioni sociali. Che succede già, anche se il sistema mediatico l’ignora, vive già in atomizzate esperienze riaggregative sui territori, in emblematiche esperienze dei movimenti sociali, in dure lotte di riaffermazione dei diritti, in cui spesso «quello scarto» costituisce l’elemento vitale – la potenziale alternatività – sia pure senza avere ancora la forza di dire di una politica che si misuri con la dimensione globale dei problemi sociali, politici di senso che la crisi del mondo contemporaneo ci fa vivere. Ma ci sono di tutto questo percorsi tracciati.

Una battaglia non facile, ovviamente, tutta da pensare soprattutto come risposta alla «forza dell’evento», scrive Elena Pulcini sulle tracce di Butler in La cura del mondo, perché è dalla forza di un evento catastrofico, e inaspettato (Butler ne parlava a proposito dell’11 settembre) che le idee entrano di nuovo in azione, rompono la spirale dell’apatia e le pratiche del «prendersi cura» possono di nuovo attivare una reazione positiva al sentimento della perdita e della debolezza, e fare la differenza della politica. E oggi viviamo un’epoca, dove il rischio dell’inaspettato, a tutti i livelli, spesso catastrofico, fa parte strettamente del contesto e nuovi varchi di liberazione umana e nuovi nessi di solidarietà fra gli umani e tra gli umani e il mondo si rendono necessari. Bisogna almeno sforzarsi di pensarli.

Perché oggi è proprio il tempo di immaginare di nuovo qualcosa che abbia a che fare con la speranza, non fosse altro che per resistere al senso di infelicità e deprivazione che l’epoca ha in sé e propaga, e niente sembra potersi opporre. Il paradigma della cura è sorgivo di speranza.

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