La curatela come acrobazia
Una mostra a Casa Morra
Che cosa sia il tempo, se nessuno me lo chiede, lo so. Ma se qualcuno mi chiede di spiegarlo, allora ecco che subito non lo so più. Più o meno così esprimeva l’interrogazione sul tempo Sant’Agostino nelle sue Confessioni, testo fondante del pensiero Occidentale. E prima di lui Aristotele e molto dopo Kant si sarebbero interrogati sulla dimensione fondamentale dell’esistenza, come nel Novecento l’ambiguo mago di Messkirch, Heidegger. E dopo ancora, nei labirinti del tempo sarebbero rotolate le parole delle macchine narrative di Jorge Luis Borges e Octavio Paz, insieme a tanti altri.
Nel secolo scorso però, la filosofia si è spesso attardata nella ricerca di una improbabile temporalità autentica, quando di autentico, parola maledetta, non c’è niente. Soprattutto in una dimensione aporetica come quella del tempo, che tutt’al più, come ha dimostrato la fisica, non esiste, almeno così come lo abbiamo pensato. Ovvero non esiste come dimensione separata dallo spazio. Eppure il capitalismo è capace di colonizzare anche questa dimensione, tanto che dell’astuzia inventiva del neoliberismo possiamo constatare l’efficacia tutti giorni, in quella sensazione di fretta, angoscia e mancanza di tempo che sempre ci attanaglia. Nell’essere perennemente in ritardo, nel tempo rubato al sonno, e in quello che non si vuole perdere. Nella difficoltà di abitare le nostre vite, e di saperle connettere con quelle degli altri, nel costruire quel comune che solo rende degna la vita.
E intorno a queste difficoltà delle nostre vite si interroga una mostra curata da Lucrezia Longobardi negli spazi di Casa Morra a Napoli, Lo Spazio Esistenziale. Definizione #2 (Salita San Raffaele 20c, fino al 31 luglio). Seconda tappa di un ciclo volto ad indagare la dimensione dell’abitare e quindi dello spazio esistenziale, che ora si concentra, appunto, sulla questione del tempo. Le opere di Berlinde de Bruyckere, Roberto Cuoghi, Helene Fauquet, Flavio Favelli, Luigi Ghirri, Liz Magor, Vettor Pisani e Rachel Whiteread, sono chiamate a dar vita a quella che, più che una mostra in senso classico, si può chiamare una esperienza che il visitatore fa accompagnato dalla curatrice. Che in effetti in queste stanze vive per tutta la durata dell’esposizione.
Particolare da tenere ben presente per capire l’essenza di questa operazione, che si discosta da quella curatela mainstream per la quale i libri e gli autori citati sono per lo più un riferimento glamour svuotato di senso, in accordo con quello sfiorire del teorico registrato da Trimarco nei primi anni Ottanta. Qui, invece, il teorico si ribalta nella costruzione di uno spazio nel quale ci accolgono, tra gli altri, il tempo come loop di Cuoghi con Foolish Things (2002), quello dell’antropocene di Favelli con Abissi (2011), quello smarrito nelle pieghe del quotidiano di Whiteread con Colours (2008) e quello entropico dello Scorrevole (2011) di Pisani, rispetto al quale solo l’ironia riesce a mettere in moto un movimento di scarto.
Attraversare queste stanze è un’esperienza straniante che restituisce la dimensione enigmatica del nostro tempo, un dimensione resa abitabile dalla relazione e dall’amicizia. Infine, un’operazione che – potrebbe sembrare un paradosso rispetto all’avvertimento di Trimarco ricordato prima, ma sarebbe un equivoco logico pensarlo – evoca la dimensione lyotardiana della critica, e quindi della curatela, come vera e propria opera d’arte. Del resto, abitare in questo tempo e in questo spazio, richiede doti da acrobata.
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