La patria è altrove
L'abitare secondo Iginio De Luca
La casa dell’Architettura di Roma, all’ex acquario comunale, ha ospitato fino al 26 luglio una interessante personale di Iginio De Luca, ExPatrie a cura di Giorgio de Finis, sulla vita degli abitanti di Metropoliz, spazio occupato dell’ex salumificio Fiorucci al numero 913 di via Prenestina.
La mostra è costituita da una serie di foto e da un breve documentario introduttivo sul lavoro svolto da De Luca tra gli occupanti in relazione soprattutto con il Maam (Museo dell’Altro e dell’Altrove), situato nello stesso Spazio di Metropoliz e gestito e diretto da Giorgio de Finis. Tema centrale della mostra è sicuramente la complessa dinamica dell’abitare un luogo, un’esperienza che, nella sua ricerca, si situa tra antropologia, etnologia, metafora e anche esperienza estetica. Notevole importanza ha il breve documentario introduttivo perché, nel lavoro di backstage, veniamo a conoscere il versante performativo dell’opera di De Luca e de Finis.
La prima nozione dell’abitare, anche per i migranti di Metropoliz, come per chiunque possegga un’abitazione, è quella del muoversi all’interno di uno spazio familiare, che mette in gioco le discipline vicine, ma a volte quasi contrapposte, dell’architettura e del design di interni. Riguardo all’architettura e alla costruzione di uno spazio antropomorfo de Luca si pone in un primo momento come un vero e proprio geometra che misura lo spazio in cui vivono i suoi abitanti, facendone una precisa griglia planimetrica, ma la sua operazione non si limita a questo.
La maggior parte degli abitanti può infatti rimaneggiare mentalmente lo spazio della casa, costruire un’eventuale nuova stanza o spazio e proporlo come non-luogo di una casa ideale e immaginaria, costruita sul versante simbolico del disegno e della pianta. Dunque ci troviamo di fronte a due versioni discordanti dello Spazio Architettonico o dello Spazio tout court. Da un lato De Luca ci introduce a una griglia intesa come struttura, secondo quella metafora architettonica che Derrida definiva fondativa della stessa filosofia. L’architettura come struttura matematica, che metaforizza nelle sue costruzioni un cosmo ordinato come Organon, a sua volta architettonico e definito secondo ordini di armonia geometrica.
Luoghi a loro modo illusori, ma reali, che ridefiniscono lo spazio e i suoi rapporti in una dimensione che non è quella liscia dell’Utopia, ma è quella, quasi inquietante del Sogno
Dall’altro introduce in questa stessa forma la variazione, ma forse sarebbe meglio dire la Differenza, del desiderio. La stanza in più, è un luogo forse utopico, non esistendo nella realtà, ma essendo inclusa nella planimetria delle case come disegno dei suoi stessi inquilini, rimanda sorprendentemente alle eterotopie. Luoghi a loro modo illusori, ma reali, che ridefiniscono lo spazio e i suoi rapporti in una dimensione che non è quella liscia dell’Utopia, ma è quella, quasi inquietante del Sogno.
Attraverso i disegni e i suoi non spazi de Luca, insieme agli abitanti di Metropoliz, mina il linguaggio architettonico, lo sovverte e lo disarticola in qualcosa che, nella sua inesistenza, diventa comunque possibile. Lo spazio chimerico così immaginato diventa un vero e proprio evento spaziale, e d’altronde non era stato lo stesso Derrida a chiedere un’architettura dell’Evento che integrasse l’architettura della Struttura?
La riflessione di De Luca e de Finis non riguarda però solo l’architettura, ma anche, come, già detto in precedenza e sottolineato nel catalogo di Insideart da Franco Speroni, il design di interni, che, nella sua precisa ascendenza filosofica, ricorda più, parole di Speroni, «l’assemblaggio e il ready made» e quindi la decorazione come spazio molto più liquido di quello architettonico che definisce e ridefinisce come vera maschera antropologica e soggettiva anche la vita di chi abita quelle case. In questo senso le case non sono, e le foto delle case non sono, solo dei luoghi, ma dei veri e proprio ambienti metaforici, dove abitare significa rimodellare di continuo le identità.
E qui arriviamo alle foto, ovviamente la parte centrale del lavoro di De Luca, che si concentra non solo sui luoghi, quanto sul rapporto tra spazio e persone vive. Il lavoro consiste nella sovrapposizione di fogli di poliestere opalino intagliati secondo la planimetria della singola casa alle foto degli stessi abitanti fissate su lastra fotografica. Di nuovo quel che nelle foto viene subito alla luce è l’architettura, che quasi si impone sulle immagini sfocate dal poliestere. Ma questa prevalenza dell’architettonico, secondo le parole stesse del fotografo, è solo illusoria in quanto le griglie delle case non sono disposte casualmente sulle singole foto, ma arrivano ad illuminare una serie di piccoli dettagli (occhi, unghie smaltate, mani, vestiti), aventi di nuovo il compito di rileggere la struttura formale della foto, immaginando nuove possibilità ermeneutiche.
Se nel documentario quel che contava era il backstage per sottolineare il versante performativo e teorico dell’opera, ora diventa importante la postproduzione come lavoro dell’immagine stessa sul fotografo. I dettagli illuminati dall’architettura infatti svolgono la funzione del punctum descritto da Roland Barthes rispetto al fulcrum. Il dettaglio viene incontro all’occhio di chi guarda l’immagine rovesciandone la prospettiva e risignificandola, forse all’infinito. In un primo momento ci si potrebbe chiedere come entri questa operazione nella precedente riflessione sullo spazio abitativo: la risposta è in una relazione biunivoca tra spazio architettonico, abitativo e biografia per immagini.
Se il titolo della mostra ExPatrie sembra rimandare alla condizione di rifugiati dei migranti di Metropoliz, le foto ricollegano questa condizione apparentemente di rottura alle variabili e invarianze di condizioni culturali intimamente plurali
La planimetria ha il compito di rilevare, attraverso i dettagli che disvela, tutta una serie di elementi biografici delle persone ritratte. Occhi, vestiti, mani, diventano delle pratiche comportamentali attraverso cui le persone ridefiniscono il proprio sé allo stesso modo in cui tramite l’arredamento definivano la propria casa. In questo caso intervengono ad aiutarci termini come cultura ed etnologia. De Luca sa benissimo che l’intrusione della fotografia, come l’entrata in casa di persone estranee, ha il sapore di una violazione bataillana, di una piccola impercettibile violenza, o almeno tensione agonistica tra fotografo e persona ritratta.
BESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswyBESbswMa è proprio questa sottile impudicizia a sottolineare le differenze tra tutte le persone di etnie diverse, a riconoscerne il vincolo biografico e culturale che le persone stesse si portano dietro. C’è chi reagisce all’intrusione con allegria, chi quasi con fastidio, chi con impercettibile malinconia. Da qui possiamo risalire a varie forme dell’abitare come esperienza antropologica, anzi etnologica e quindi risalire, tramite la dimensione architettonica, alla pluralità e alle differenze che costituiscono indefinitamente l’esperienza di gestire uno spazio, una casa. Se il titolo della mostra ExPatrie sembra rimandare alla condizione di rifugiati dei migranti di Metropoliz, le foto ricollegano questa condizione apparentemente di rottura alle variabili e invarianze di condizioni culturali intimamente plurali.
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