La pulsione: un epicedio della sessualità pacificata
Un libro di Lorenzo Bernini
L’iguana di Anna Maria Ortese è un cantico delle transizioni di fase: entità che sembrano strenuamente radicate in certe forme sostanziali – quelle che per Leibniz giustificano l’unità temporale e l’identità transtemporale delle sostanze – attraversano un continuum di impercettibili stati di variazione, al cui termine si trovano trasformate in tutt’altro, come l’acqua in ghiaccio o il vapore in gocce. Nulla rimane, eppure si continua ad esser sé, in una specie di flusso senza sosta, in cui i confini di specie, le divisioni di genere, i limiti delle entità materiali e le serrate delle categorie sociali si rilasciano a un gioco di passaggi tutt’altro che onirico: tutto è crudamente vero.
L’esperienza della trasformazione – l’unica esperienza reale – gratta via la patina oculare che impone le divisioni tra l’iguana e l’essere umano, la serva e i padroni. È così che «la vita, il cupo mare che ci circonda, cambia perfino di sostanza […] sì da trasformarsi, è il caso di dirlo, in tiepida aria. E ciò solo perché il pensiero ha intravisto la parte mancante di sé, bellezza o mostro, non importa»1. E si badi: non è l’esperienza del diverso, ma quella del nondiverso, ad avviare i cambiamenti di stato. Ci si avvede del nondiverso (bellezza o mostro, non importa) che appartiene già e sempre a quel multiverso malamente condensato nella finzione retorica dell’«io». L’esperienza della trasformazione mostra la co-appartenenza dell’io a molti generi, a molte specie e a molti strati della vita materiale. Se ne ricava un io più ampio del mondo, perché, oltre a sé, contiene tutto il mondo. Solo se ci si avvede di questo, ci si può potenzialmente trasformare in tutto.
A lungo ho creduto che questo fosse il precipitato ultimo del campo di ricerca che si è soliti definire queer studies. Appunto: lo studio del queer, cioè dello storto, dello sghembo, che molti vorrebbero ridurre all’orientamento sessuale, ma che all’opposto si dispiega come una cromatografia delle differenze, perché tra queste si possano apprezzare le prossimità, anziché le distanze. Il queer è il raschietto di cui ci si dota per rimuovere almeno un po’ delle cristallizzazioni culturali che ci «costruiscono» in un certo modo – nel caso di chi scrive, un occidentale europeo bianco classe-media cisgender abile eterosessuale (e molte altre cose che, come buona costruzione sociale raccomanda, sono opache al mio sguardo). Il queer, come scrive Eve Kosofsky Segdwick in un delizioso catalogo semantico2, ha solo in parte a che fare con l’orientamento sessuale, sebbene questo (o meglio, la sua connaturata flessibilità) rientri certamente nella lista degli ingredienti che si combinano nella nostra identità alchemica (tutt’altro che stabile). Ecco: Lorenzo Bernini scrive un bel libro, Il sessuale politico. Freud con Marx, Fanon, Foucault (ETS, Pisa 2019), per dire: «Questo è vero, per carità, ma solo in parte». E sarà il caso di vagliare le sue ragioni, se è vero che a me il queer piace proprio perché, in fondo, lo si trova anche nell’iguana, nel puma e nel cardillo di Ortese3.
Varrà la pena cominciare dalle fine, svelando sin da subito il finale de Il sessuale politico. Del sessuale, a Bernini interessa il carattere perturbante, quello non-riproduttivo e anti-sociale, tipico del sesso anale, che della differenza ama il carattere non edulcorato di differenza, di contro all’eticismo dell’indistinzione e della socialità gioiosa, in cui rischia di scivolare il queer, tendenzialmente lesbico, che piace a chi scrive. Per evitare ogni equivoco: Bernini non solo simpatizza con il queer «sociale», ma esalta molti aspetti di quello che in fondo s’è affermato come il trend dominante negli studi queer. Eppure, da buon critico del sociale, Bernini ritiene sia opportuno instillare qualche dubbio nei tedofori della socialità queer. Proclivi all’ottimismo della ragion sessuale, costoro credono che il soggetto umano si predisponga a una decostruzione continua e senza termine ultimo, come l’infinito attuale della filosofia moderna: un soggetto divisibile all’infinito, che, ad ogni atto di divisione, lascia scoprire altri soggetti, a loro volta attuali eppure infinitamente divisibili. Il testo di Bernini, almeno nella mia lettura, suona come un avvertimento: scava scava, alla fine a un nucleo ultimo ci arrivi e come. La scorza dura, di fondo, che piega la vanga del queer sociale, è la pulsione sessuale. Certo, come vedremo, si tratta di un nucleo che garantisce assai poca stabilità, ma che non è troppo incline alle «nuove alleanze» auspicate da molti paradigmi del queer sociale.
Ora che abbiamo sbirciato nelle pagine finali del libro, possiamo guardare a come l’autore inizia a tessere la sua trama. Si parte da Freud, e, come per lo Spinoza degli scolii, il succo, dice Bernini, lo si trova tutto nel Freud delle note a piè di pagina. Volgarizzo la tesi per amor di brevità: al sessista ed eterosessista padre della psicanalisi va riconosciuto un merito, che va ben oltre la sua produzione cosciente e che si ritrova piuttosto in un inconscio che parla nelle note, nei commenti, nei trafiletti. L’analisi di Bernini è non solo molto godibile, ma puntuale. In primo luogo, il merito che ci deve indurre a «esser giusti» con Freud sta in una distinzione tra istinto sessuale e pulsione sessuale niente affatto funzionale alla domesticazione della sessualità (che pure Freud riteneva essenziale al viver civile). La pulsione sessuale ignora «le finalità dell’autoconservazione e della riproduzione ed è perversa, dissipativa, potenzialmente polimorfa» (p. 64). Per quanto la si tenti d’imbellettare, questa componente selvaggia e fantasmatica rispunta regolarmente nell’umano, proprio come rispunta negli interstizi più riposti degli scritti di Freud. E benché questi si sforzi di ricondurre il sessuale alla norma (etero)sessuale, fallisce a ogni piè sospinto – e, suggerisce Bernini, non senza gusto. Bernini libera quindi l’inconscio di Freud dalla mordacchia della normalità (etero)sessista e lo fa parlare come cantore di una sessualità enigmatica, sregolata e mai regolabile: il soggetto freudiano «è una bomba sessuale pronta a esplodere in tutte le direzioni seminando il terrore nella civiltà (ma senza far vittime)»; mentre la civiltà non è che «la camicia di forza che contiene il corpo sessuale (con disgusto, pudore e morale) impedendogli di saltare in aria» (p. 81).
Addio al queer pacificatore! Altroché, qui c’è di mezzo un bombarolo. Questo scenario m’inquieta assai più che la tranquilla isola di Ocaña dell’«iguanuccia» di Ortese. Riscattato il Freud (inconsciamente) stragista, Il sessuale politico tesse fili narrativi che non rispondono a una diacronia precisa. Il libro segue soprattutto le tracce del freudomarxismo, ovvero quella fusione ad alto tasso di instabilità che unisce Marx a Freud in vista di una liberazione completa dalle strutture di dominio capitalista – in cui per certo rientra la sessualità ipernormata. Il viaggio di Bernini è lungo, e scelgo, da autocrate recensorio, di guardare soprattutto a una delle varie figure analizzate, ossia Mario Mieli, che fa seguito a Wilhelm Reich e Herbert Marcuse. Più radicalmente e consapevolmente di questi ultimi, Mieli è incarnazione sfrontata dell’aspirazione auto-liberatoria della pulsione sessuale. Con Mieli, questa non parla più nelle note a margine, ma si dota di un corpo. Una sorta di shahīd della pulsione, che come il martire dà la propria vita per la testimonianza drammatica di un mondo tutt’altro che possibile: la civiltà della norma sessuale mal si concilia con la libera pulsione. Anche in questo caso, come per la bomba freudiana, fortunatamente non ci sono di mezzo morti – se non Mieli stesso, autore di un malaugurato, tutt’altro che fantasmatico suicidio.
Negli scritti, negli atti, nelle parole, Mieli celebra una pansessualità radicale. Se i due sessi, come anche scriveva Monique Wittig, sono esito dell’educastrazione, per Mieli si tratta di liberare dalla socialità normata il desiderio transpersonale, sessuale infantile, della soggettività. Eppure, di contro agli auspici decostruttivi del queer «sociale», non c’è in ballo la sola liberazione del soggetto dalla tirannia del sistema classificatorio del sesso, del genere e dell’orientamento sessuale. C’è in ballo anche, e soprattutto, un’assai meno pacificatoria accentuazione del carattere masochistico e psicotico del soggetto: «Il ginandro infine liberato sarà una forma di vita delirante, che realizza immediatamente i suoi desideri, che non sublima le sue pulsioni se non nella ricerca di nuovo godimento, che si perde in uno stato di beata schizofrenia» (p. 191). La condizione necessaria sarà rifuggire qualsiasi sublimazione, qualsiasi tentazione di cedimento alla via civilizzatrice delle libertà private, che stemperano il conflitto tra elementi non componibili. Il «gaio comunismo» di Mieli chiama a una lotta proletaria che passa anche per «il pieno recupero della pulsione anale» (p. 193). La rivoluzione sessuale chiama a prendere atto degli elementi repellenti che la pulsione sessuale convoca e disloca.
La valorizzazione di Mieli come uno dei punti di svolta della critica alla norma eterosessuale e alla normalizzazione gay è senz’altro un pregio de Il sessuale politico. Ma l’intento di Bernini non è certo quello d’indurci a imboccare la via di una dissoluzione disperata e autofaga della pulsione; né, credo, questo sia mai stato l’intento di alcuno degli autori (non a caso uso qui il maschile) alla cui voce Bernini unisce la propria – fatta eccezione forse per Mieli. Vorrei quindi tentare di dar conto delle ragioni di quell’anti-socialità queer che del libro segna ogni pagina. Essa vuole mettere in guardia rispetto alla tentazione di desessualizzare il sesso, di presentarlo come una delle infinite differenze da ricomprendere nel cromatismo costruttivista nel pluriverso irenico della continuità. Il mondo dell’umano, col suo nucleo pulsionale, è fatto di discontinuità. Si tratta di faglie non recuperabili, segnate da un carattere di decisa repulsione per la socialità – repulsione avvertita da ambo le parti, sia chiaro. Il politico sta (anche) nel saper maneggiare questo carattere senza reticenza né pudicizia. La pretesa di stemperarlo, di recuperarlo alla vista civilizzata del sesso «ammissibile», priva la pulsione sessuale della sua natura intimamente politica, segnata dall’ineliminabile conflittualità tra istanze conflittuali dell’umano. Il sesso è e rimane un campo di battaglia, e quasi sempre area di normalizzazione. Il sesso è uno di quegli ambiti in cui si costruiscono le differenze – cuore pulsante del politico – e si determinano così gli elementi di coesione e unione tra i gruppi sociali. Il queer antisociale vuole scombinare i piani dell’amore romantico e dell’intimità domestica, che nell’età dei diritti vagheggiano un regime di tolleranza universale e inghiottono la forza indomabile di una pulsione sessuale irrequieta e intemperante. Quella del sesso è una spinta contraddittoria, che si risolve in una costante antropologica, figlia della dialettica incessante tra bisogno di ordine e propensione al disordine.
Ma gli occhi che scorrono sulle pagine de Il sessuale politico sono troppo adusi alle celebrazioni della continuità e del pensiero affermativo per convenire del tutto su questo richiamo. Come è naturale che sia, gli spazi ridotti delle note critiche aprono innumerevoli varchi di fuga. Dirò quindi – ed è vero – che i temi che dovrei sottoporre a vaglio per esprimere il mio dissenso sono troppi e troppo densi. Pulsione, desiderio, inconscio, forclusione, per citarne solo alcuni, richiederebbero un’analisi elaborata, che renderebbe questo mio scritto, se possibile, ancor più noioso. Da recensore pavido, non farò che adombrare il mio dissenso (limitato solamente a quanto dirò e poco più), scrivendo qualcosa che probabilmente a Bernini dispiacerà, e che pure considero un complimento: è come se al fondo del suo libro intravedessi una linea schmittiana. Certo, Schmitt era un nazista antisemita; tutto l’opposto della filosofia politica del testo di Bernini, il cui Prologo sferza i rigurgiti reazionari, sovranisti e neofascisti dei nostri tempi. Eppure, non è necessario che Schmitt e Bernini convengano sulla politica concreta per convenire invece sul politico come quel campo in cui si determina il nemico dispiegando la forza disgregativa di una qualche tecnologia del sociale. Questa tecnologia, sembra suggerire Bernini, ha molto a che fare con la pulsione sessuale: la sua forza indomabile e disgregativa permette di distillare l’ambito del tollerabile (la sessualità civilizzata) proprio mediante l’espunzione dell’esecrabile (la sessualità pulsionale). Come l’amico schmittiano è ciò che residua dalla determinazione del nemico, così il sessuale normale e normato è ciò che residua dalla soppressione del pulsionale. Senza dubbio, l’ano che celebra Bernini è il luogo di una destituzione della sovranità machista e (etero)sessista, ma rimane pur sempre il dominio del lato oscuro e irredimibile della sessualità. Una sessualità senza redenzione, che segna il carattere intrinsecamente polemico della politica.
Noi – mai sia! – non si è in cerca di redenzione. Si è in cerca piuttosto di ottimi libri, come quello di Bernini, ma anche di quella continuità delle transizioni di fase, che talora consente a un eterosessuale di esperirsi (anche, seppur transitoriamente, come) queer. Credo Bernini vedrebbe in questo mio goffo tentativo di cambiare forma sostanziale non certo un’appropriazione indebita (come ritengono alcun*), ma una naïveté un poco illusoria un poco ingrata (nei confronti di chi ha da esperire il fatto bruto di essere soggetto queer). E credo di poter anticipare un’obiezione piuttosto stringente da parte sua: io credo di intravedere nel suo libro uno sfondo schmittiano proprio perché non sono un soggetto queer e proprio perché quella lunga tradizione che egli ripercorre con cura e dedizione non tocca i nervi ben coperti della mia sessualità privilegiata. Insomma, Il sessuale politico non è un libro per tutt*, soprattutto non per chi, come me, si augura un’estensione onnicomprensiva del termine «queer». Checché creda Ortese, obietterà Bernini, noi l’iguana non la capiremo mai. Faccio mia l’opzione scettica, non mi pronuncio su una tale eventualità e mi limito a raccomandare a tutt* Il sessuale politico.
Note
↩1 | Anna Maria Ortese, L’iguana, Adelphi, 2016, p. 71. |
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↩2 | «That’s one of the things that queer can refer to: the open mesh of possibilities, gaps, overlaps, dissonances and resonances, lapses and excesses of meaning when the constituent elements of anyone’s gender, of anyone’s sexuality aren’t made (or can’t be made) to signify monolithically. The experimental linguistic, epistemological, representational, political adventures attaching to the very many of us who may at times be moved to describe ourselves as (among many other possibilities) pushy femmes, radical faeries, fantasists, drags, clones, leatherfolk, ladies in tuxedoes, feminist women or feminist men, masturbators, bulldaggers, divas, Snap! queens, butch bottoms, storytellers, transsexuals, aunties, wannabes, lesbian-identified men or lesbians who sleep with men, or… people able to relish, learn from, or identify with such. Again, queer can mean something different: a lot of the way I have used it so far in this dossier is to denote, almost simply, same-sex sexual object choice, lesbian or gay, whether or not it is organized around multiple criss-crossings of definitional lines», Eve Kosofsky Sedgwick, Tendencies, Routledge, 1994, pp. 7-8). |
↩3 | Si veda Tatiana Crivelli, L’iguana, il cardillo, il puma: animali come dispositivi teratologici nella narrativa di Anna Maria Ortese, in «Versants: revue suisse des littératures romanes », 55(2), pp. 79-88. |
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