La Rivoluzione dell’anonimato
Sull'intelligenza politica della Comune di Parigi
Alla radice del termine, la Comune implica una pratica di condivisione. È la ricerca della propria parte, un esercizio partigiano che misura un tempo proprio della rigenerazione, libero dagli affanni della subalternità e della schiavitù per ritrovare la propria ragione storica. Proprio questa funzione resistente ha prodotto sempre una rilettura o rievocazione della storia della Comune sfuggente a qualsiasi ufficialità, al conformismo di una narrazione domestica e patriottica come invece è capitato al nostro Risorgimento. Nell’arco di ottanta anni si erano alternati repubblica, due imperi, sovrani ultrareazionari e costituzionali, giornate insurrezionali finite nel sangue e su tutto una vorticosa ansia di legittimare la grandezza nazionale e reprimere ogni voce dissidente. Non era servito disciplinare la città attraverso il suo ripensamento urbanistico, Parigi era viva e inaspettatamente, nonostante le ripetute sconfitte patite, il ricordo della Rivoluzione ancora attuale. Dopo Sedan, con l’esercito prussiano a circondare la capitale, la borghesia francese spaventata dal pericolo dei rossi iniziò a tessere piani di pace con Bismarck denunciati in tutto il loro cinismo da Blanqui: «La patria muore ma la borsa non s’arrende». Karl Marx ha fissato con parole indelebili il carattere repressivo del governo Thiers, il suo aperto terrorismo di classe e deliberato insulto alla «vile moltitudine». Ne conseguiva da un lato la necessità di centralizzazione e dall’altro lato lo scatenamento della repressione.
È in questo contesto che si arriva al 18 marzo, la giornata epica descritta nelle memorie di Louise Michel, lei stessa una fra le prime ad accorrere per impedire che i cannoni di Montamartre, i cannoni del popolo, venissero presi e a convincere la guardia nazionale, vale a dire la milizia volontaria cittadina della tradizione rivoluzionaria, a schierarsi al fianco del popolo. In poche ore, la notizia di quanto stava avvenendo a Montmartre si propagò in tutta la città e di nuovo con grande generosità i parigini accorsero a difendere i propri compagni. Parigi è libera per volontà del suo stesso popolo ed è proprio questo il motto che inizia a circolare: il popolo di Parigi senza delegare nessuno aveva salvato se stesso e la propria determinazione a vivere libero e autonomo. Il popolo di Parigi si era ripreso la propria città, secondo la celebre suggestione di Walter Benjamin. Era la «forza collettiva» che aveva progressivamente preso coscienza della propria capacità di determinare l’azione politica, non solo attraverso le giornate ma nell’intelligenza di organizzare una pratica politica radicale. Fu Blanqui, subito dopo la grande giornata del 18 marzo 1871, il più tenace a mettere in contrapposizione il popolo parigino e la sua cornice nazionale, ferma alla dimensione rarefatta della partecipazione attraverso il voto.
La festa con cui la cittadinanza si riappropriò dello spazio cittadino, secondo l’interpretazione di Henry Lefebvre, trovava dunque senso e simboli nella consapevolezza dei protagonisti di aver aperto una nuova epoca in cui il principio elettivo non convalidava più scelte già assunte, ma attivava una responsabilità collettiva che rendeva vitale il suffragio, conferendo al popolo la capacità di autodeterminarsi.
Il 18 marzo aveva mostrato che era giunto il momento di gettare le basi delle nuove istituzioni repubblicane insieme all’esigenza di fondare l’imprescrittibile diritto municipale da affiancare al tradizionale diritto della nazione, come si leggeva nell’avviso al popolo del Comitato Centrale della Guardia Nazionale. Ed è proprio questa coralità priva di egemonie che caratterizzò la prima fase della Comune di Parigi, il tratto di gran lunga più significativo nella costruzione del suo mito. In molte delle testimonianze dei protagonisti questa intensa, vitale e spontanea partecipazione che aveva reso il popolo di Parigi una «communauté agissante, une communion explosive», venne tradotta con un concetto molto efficace: la Comune era la rivoluzione dell’anonimato, un moto cioè tanto improvviso quanto collettivo nato dalla volontà di autorganizzazione e divenuto subito mentalità condivisa. Una coralità che si espresse nell’impegno di «universalizzare il potere e la proprietà», come si legge nel documento votato dalla Comune il 19 aprile e unanimemente considerato il suo testamento politico.
Per rendere effettivo questo potere diffuso era necessaria una totale riorganizzazione della società in cui lo Stato fosse subordinato alla dinamica municipale, in una prospettiva costituzionale federalistica. Dall’assemblea di quartiere, alla federazione delle Comuni per la Nazione, fino all’amministrazione dei villaggi da parte di riunioni contadine, la reticolarità dei centri di potere avrebbe permesso alla partecipazione diretta del popolo la capacità di aggiornare continuamente le strutture di governo. Nel principio federalistico stava il motivo per immaginare Parigi come la nuova Washington, modello per impiantare in un futuro non remoto gli Stati Uniti d’Europa. La Comune era in ogni luogo in cui il popolo si riuniva. Stretti nell’assedio delle armate governative, comandate a ristabilire la sacralità della nazione, le donne e gli uomini della Comune resistevano. Rimbaud, Courbet davano forma poetica al coraggio di non piegarsi; il centralismo del Comitato di Salute pubblica ne fiaccava l’entusiasmo con la maledizione del partito: le fiamme delle pétroleuses consumavano ogni tentazione di tornare indietro.
Inseguiti dal terrore della reazione, gli ultimi comunalisti si trincerarono a Père-Lachaise per essere fucilati come fratelli e sorelle, da federati. Fra i morti erano gli unici a essere vivi.
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