La rivoluzione in tempi non rivoluzionari

Una vita liberata

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Claire Fontaine, Ma l'amor mio non muore (2016) - veduta dell'installazione presso l'Accademia di Francia Villa Medici a Roma. Courtesy: l'artista e T293.

Oggi alla Fondazione Basso, ore 17.30 (via della Dogana Vecchia, 5 Roma), si presenta il nuovo libro di Roberto Ciccarelli «Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista» (DeriveApprodi, 2022). Intervengono con l’autore: Ubaldo Fadini, Dario Gentili, Chiara Giorgi, Giacomo Marramao. Per l’occasione pubblichiamo un estratto dell’introduzione, ringraziando l’autore e l’editore per la disponibilità e invitando i nostri lettori a leggere un libro che non è un soprammobile (come tanti libretti inutili pubblicati dall’industria culturale), ma un’arma che serve a fare cose. 

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Rivoluzione passiva

Siamo entrati nella condizione postuma quando il mondo è stato dichiarato impossibile da cambiare e ogni tentativo di liberare la vita sembra essere destinato al fallimento. Dagli anni Ottanta del XX secolo è stata celebrata la fine della storia e del mondo, del moderno e del postmodernismo, della società e della politica. Consummatum est. L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma già questo permette di comprendere l’immaginario totalitario in cui è stata incastonata la nuova escatologia della storia, la più insidiosa perché teorizza la fine di tutte le fini. Da un lato, è stata sostenuta la fine di tutte le «grandi narrazioni»; dall’altro lato, è stata ribadita una narrazione ancora più grande basata sulla fine di tutte le altre. La narrazione totalizzante che pone fine a tutte le narrazioni totalizzanti ha lasciato impregiudicato il sistema che ha fatto della crisi la propria ragione d’essere: il capitalismo.

L’idea di una rivoluzione non è scomparsa. La troviamo in una posizione capovolta e prigioniera di un’illusione retrospettiva che proietta la realtà in un passato indefinito e vede nel presente un blocco unico dove le parti cambiano solo di posto. La rivoluzione appare oggi un’ipotesi controfattuale che imprime la sua potenza solo sul rovescio dell’immaginario distopico delle Serie Tv o dei romanzi a cui sono ispirate e non nella realtà prosciugata dalle potenze necessarie per arrestare il crollo e fare nascere un altro mondo. Il suo desiderio è un fantasma che attende l’ora dell’alba e resta sospeso nel crepuscolo di un possibile senza relazioni con la potenza di agire e di pensare. Si presta sempre meno attenzione all’idea per cui il possibile non si trovi in un mondo separato dalla realtà ma sia parte di un movimento che lo unisce a qualcosa mentre qualcos’altro lo rigetta all’indietro e si concretizza negli incontri tra ciò che è determinato nel reale e ciò che è determinabile nel virtuale. Come sonnambuli ci trasciniamo in un sistema che sembra avere colonizzato ogni aspetto dell’esistenza e crediamo che la vita sia una marionetta nelle mani di un potere assoluto o di una causa senza soggetto. Nasce così l’impressione di uno schiacciamento che rende angosciosa la vita e preferibile il nulla in attesa che un meteorite colpisca la terra devastata da pandemie, guerre, diseguaglianze e disastri climatici accettati come eventi inevitabili, non intesi come effetti di un’organizzazione del mondo. Oggi è più facile riflettere su come moriremo che rispondere alla domanda su cosa può la vita che viviamo. In un orizzonte claustrofobico non sembra esserci resistenza, né creazione. Attendiamo la catastrofe finale mentre in realtà partecipiamo alla sua riproduzione in una condizione storica senza prospettive che non siano quelle di sopravvivere a noi stessi.

Questo pensiero è il prodotto di una politica che ha capovolto la rivoluzione nel suo opposto trasformandola in una rivoluzione passiva, quella che con Antonio Gramsci intendiamo come una politica trasformistica governata, non senza contraddizioni, da gruppi sociali dominanti la cui azione opprimente ed elusiva esclude la possibilità e l’attualità di una rivoluzione politica e sociale generalizzata. Ai nostri giorni possiamo rideclinare il concetto negli stessi termini, ma in un contesto diverso, dentro un processo di dimensioni globali come il neoliberalismo capace di coniugare, travisandole, alcune istanze di giustizia – equità intesa come redistribuzione tra i ricchi, il benessere sociale come performatività dell’individuo – con altre di natura conservatrice – la gestione delle gerarchie in un individualismo proprietario, la manutenzione della divisione sociale del lavoro o la finzione ecologica della «transizione verde» del capitalismo fossile.

Rispetto all’originale espressione gramsciana in questo libro reinterpreto la rivoluzione passiva nei termini plurali da contestualizzare a seconda degli usi di rivoluzione «neoliberale», rivoluzione senza rivoluzione, rivoluzione–restaurazione, rivoluzione dall’alto, rivoluzione conservatrice e controrivoluzione preventiva. Queste formule rispondono all’esigenza di assorbire e canalizzare le richieste di una profonda discontinuità politica in una progressiva, continua e flessibile restaurazione di un ordine senza giustizia. Da quasi mezzo secolo le controriforme che hanno costellato la storia di questa rivoluzione non hanno riformato nulla se non le condizioni che rendono praticabile la vita dei dominanti e spingono gli oppressi ad adattarsi a una vita parossistica e servile in una crisi senza sbocchi né alternative. Nella rivoluzione al contrario la vita è un continuo rinvio a un futuro negato, a una pratica separata dalle sue potenze e dalla concreta possibilità di esercitarle in maniera democratica e generativa, al ricordo di un’epoca dell’età dell’oro che non è mai stata tale.

L’apocalisse culturale del capitalista umano

La condizione postuma non è l’interregno dove emergono i fenomeni morbosi della decadenza umana. È il risultato di una contraddizione politica prodotta da una rivoluzione senza rivoluzione in una storia il cui esito non è scritto. In questa prospettiva la postumità non ha un significato univoco. Postumo non è solo chi è venuto dopo la fine (di una rivoluzione «attiva», per esempio), ma è anche chi scopre che un’altra vita comincia dopo la guarigione dai postumi di una malattia, di un incidente, di un’esperienza intensa e sublime, di una sconfitta politica di enormi dimensioni. Questa seconda idea permette di pluralizzare la condizione postuma e rappresentarla non come la fine del mondo in generale, ma come la liberazione da un mondo determinato, quello della soggettività neoliberale sulla quale è costruita l’attuale rivoluzione passiva.

La fine di tutte le fini riguarda un modo di concepire e praticare la vita che è passato dal sogno di incarnare il proprio capitale umano alla realtà di chi conduce una vita di scarto. Questa modalità storicamente determinata è definita nel libro capitalista umano. Si tratta di un personaggio che viene spesso confuso con l’«Uomo» in generale, oppure è ridotto a un modello di individualismo consumista e egoista, mentre invece è l’esito di una costruzione, il risultato di una crisi, l’esperienza di un’apocalisse culturale che coinvolge la società neoliberale e il suo principale soggetto: l’individuo sovrano armato di un Io a pezzi, estenuato da un’agonia che tuttavia non cancella la potenza di cui ha bisogno per alimentare i propri tormenti. La forma di vita del capitalista umano, metà uomo e metà capitale, è il centro della narrazione sulla fine di tutte le fini, il perno di una rivoluzione che dichiara la fine di ogni rivoluzione. Apocalittico oggi non è il mondo, né la sua storia, ma una specifica connessione tra l’agire e il pensare che dilania la vita e distrugge il pianeta imponendo una determinata configurazione dei saperi e dei poteri che scambia gli effetti con le cause, sovraordina l’atto alla potenza o viceversa, rovescia la libertà nel suo opposto di (auto)sfruttamento e consuma la vita in un’impotenza riflessiva. Quando parlo di “apocalisse” intendo invece una forma della politica, non un’ontologia della storia. Tale forma è l’esito di un conflitto sui modi in cui la potenza si esprime nel capitalista umano e su quelli in cui andrebbe liberata dalla sua presa. Il conflitto è praticato molto spesso in maniera unilaterale e non è del tutto compreso da chi lo subisce. Oggi manca una conoscenza critica condivisa delle teorie del capitale umano, della storia del neoliberalismo e delle loro implicazioni intellettuali e materiali. Questo libro è una storia del presente in cui si ricostruisce l’ampiezza dello scontro in corso e ragiona a partire dalla seguente alternativa: il problema del capitalista umano è sopravvivere in una condizione postuma senza storia, il nostro è liberare la storia dei suoi postumi e sperimentare una potenza oltre quella che l’ha ridotta al racconto della fine di tutte le fini.

Parliamo della liberazione eppure il suo soggetto è sempre più confuso. Nel dibattito sulle emergenze climatiche, ad esempio, è stato identificato con un’umanità generica. È un’idea che rischia di dissolvere la specificità dei rapporti di potere che hanno imposto un’organizzazione distruttiva della vita, producono epidemie mortali e impongono forme intollerabili di esistenza ma sorvolano sulle responsabilità di chi ha contribuito a realizzarle. Non siamo tutti uguali quando non arriviamo alla fine del mese, un diluvio allaga le città o il caldo torrido uccide di più gli anziani poveri e i senza casa. L’umanità non è un tutto indifferenziato ma resta divisa in governati e governanti, oppressi e oppressori, sfruttati e sfruttatori. Non basta evocare la fine del mondo per ritrovare un afflato unificante. Anzi, questa può essere l’occasione per scatenare una guerra di tutti contro tutti. Non è mai chiaro chi dovrebbe cambiare il mondo. I governanti in cui sono in pochi ad avere fiducia ma ai quali si continua a delegare il futuro? I fantasmi della volontà generale che si incarnano nel popolo? E perché non scatta la scintilla della liberazione? Quali sono le ragioni della reticenza, per non dire dell’ostilità, rispetto al bisogno di sottrarsi alle promesse di una libertà fittizia che ci fa vivere da nemici e oppressi da noi stessi prima ancora che dagli altri? A queste domande la rivoluzione passiva risponde con il paradosso che identifica la rivoluzione con la conservazione, produce una vita intossicata che si adatta alla crisi, al crollo o al collasso e si conferma indifferente alla sua impotenza. Il risultato di questa operazione, che non è solo discorsiva, è il capitalista umano.

Il libro prospetta una soluzione creatrice. Nella condizione postuma abitiamo una potenza praticata in maniera afflittiva rispetto a noi stessi, gli altri e la Terra. È possibile praticare una liberazione esercitando questa potenza in un’altra maniera di pensare e agire. Da passiva una rivoluzione può diventare attiva se agisce nella prospettiva che libera una vita nella direzione di una catartica politica. Questa prassi permette di adottare il prospettivismo storico della liberazione contro l’illusione retrospettiva dell’apocalisse.

Potenza/impotenza

La rivoluzione passiva del capitalista umano è basata su un assunto teorico: il mondo coincide con l’Io, l’Io possiede un potere assoluto sulle proprie azioni, tale potere è il prodotto della volontà di padroneggiare il mondo e non è determinata da altro che da se stessa. Ciò che definisco «apocalisse» è il segno di una crisi profondissima che ha spezzato il capitalista umano facendo vacillare il suo impero nell’impero. In questa situazione si attribuisce la causa dell’impotenza a una patologia della volontà che non è all’altezza del suo potere, alla coscienza assediata da uno stato psichico depressivo e luttuoso, a una perdita della libido o a un acquiescente e rassegnato adattamento allo stato di cose presenti.

In questo libro darò invece un’interpretazione spinozista dell’impotenza intesa come lo stato negativo di una potenza in atto, non come una condizione originaria dell’essere fondato su una mancanza ontologica, una malattia della psiche, un baco nella razionalità o una colpa che divora la coscienza. La potenza di agire e pensare è ovunque una sola e medesima, ma è sempre declinata rispetto ai modi in cui è espressa e a un rapporto tra le forze del corpo e della mente, degli affetti e dei concetti, dei soggetti e delle istituzioni. Questa potenza non è contenuta solo nell’Io, nè è riducibile all’espressione della sua volontà. E, quando muta da una forma all’altra, non è superiore ai suoi effetti perché agisce attraverso essi. Così intesa l’impotenza è l’attualizzazione di una potenza effettiva che nega un’altra possibile. Quest’altra potenza non si trova in un iperuranio ma agisce all’interno delle cause che la rendono attuale in un modo ma non in un altro.

La potenza è una relazione tra un’attività e una passività che può portare all’isolamento, all’alienazione e alla separatezza oppure al potenziamento, alla gioia e all’estensione non ancora sperimentata dell’esistenza. L’impotenza è un’articolazione di questa relazione ed è la causa della rinuncia alla sperimentazione di una convenienza con le potenze degli altri, condizione per attualizzare una potenza in maniera virtuosa. La tristezza e la passività prodotte da una simile attuazione mancata sono gli effetti di azioni inadeguate rispetto a idee conosciute ma non praticate in maniera adeguata o di idee confuse che guidano azioni contraddittorie e generano conseguenze disastrose. Dunque l’impotenza non è solo un atto della mente, un infarto dell’individuo o il girare a vuoto dell’Io su se stesso, ma è una delle forme possibili di azione, passione e pensiero, l’espressione di esperienze personali o sociali variamente combinate, una delle modalità di una potenza che alimenta una condizione di subalternità. Questo discorso è incomprensibile se non consideriamo il rapporto tra la potenza e l’impotenza come un fatto sociale integrale in cui gli aspetti metafisici dell’esperienza si intrecciano con quelli affettivi, politici, istituzionali o economici nell’ordito in cui una vita si fa e si disfa. Questa dialettica è di fondamentale importanza per comprendere e riprendere l’iniziativa oltre la rivoluzione passiva. La conoscenza delle sue cause e dei suoi arcigni meccanismi è già una liberazione ed è la premessa non scontata di un’anti–rivoluzione passiva, o rivoluzione attiva.

Nel libro porto fino alle estreme conseguenze l’unificazione già prospettata altrove nella mia ricerca tra l’etica della potenza e l’analisi delle passioni di Baruch Spinoza con il materialismo dei rapporti sociali di produzione e della forza lavoro di Karl Marx. Questa operazione, già emersa nello spinozismo politico, spunta qui e lì nel pensiero critico contemporaneo anche se è realizzata in maniera ancora parziale e incompleta. Prendiamo ad esempio il «realismo capitalista», una categoria usata per descrivere la potenza–impotente separata dalla possibilità di attualizzarsi in un «reale» dominato dal «capitalismo». In questo caso l’impotenza è considerata l’effetto di uno stato di «intossicazione» soggettiva e la subalternità sarebbe dovuta a un’alterazione psicofisica che compromette la conoscenza e l’azione nella realtà. È stato osservato che Spinoza permette di considerare il fatto che la libertà si apprende conoscendo le cause dell’impotenza, condizione necessaria per liberarsi dalle «passioni tristi» che spingono ad adottare comportamenti reattivi ispirati da immagini congelate di sé e del mondo. Tuttavia lo spinozismo è irriducibile a una clinica lacaniana della soggettività e non può essere ricondotto a un’altra psicoanalisi freudo–marxista. Spinoza non «offre le migliori risorse per pensare cosa un paternalismo senza padre potrebbe essere», ma permette di decostruire anche questa singolare idea. Tanto meno predica una morale del dovere essere o, all’opposto, un’anarchia delle pulsioni. Lo spinozismo non è l’«ideologia del tardo capitalismo» e nemmeno un’«ingegneria morale» come vaneggiano altri. In questi discorsi non si vede, o si vuole respingere con argomentazioni pretestuose, la formazione di una costellazione tra filosofie politiche non omologhe come lo spinozismo e il materialismo, l’esito di una lunga genesi che risale al XIX secolo e si è sviluppata non casualmente dopo il 1968, un anno considerato centrale in un lungo ciclo storico che ha trasformato la concezione della rivoluzione e della contro–rivoluzione a livello mondiale. In questo libro affronto il problema attraverso un’interpretazione spinozista del marxismo della forza lavoro e una lettura marxista dell’antropologia spinozista. Il progetto è abbozzare i lineamenti di una prassi della liberazione sociale e politica irriducibile al soggettivismo e alla rappresentazione del mondo prevalenti anche nelle culture critiche contemporanee.

Questo libro

Il titolo del libro parla di una vita, non de la vita liberata. L’articolo indeterminativo è l’indice di una vita comune per tutti e singolare per ciascuno. La sua idea nasce dalla comprensione materiale e da una prassi adeguata alla conoscenza di cos’è una liberazione e su come possa essere organizzata alla luce dei suoi limiti. Questa vita non risponde a un modello ideale, né esemplare. Non esiste una teleologia storica che porterà la vita a una sicura liberazione. Una liberazione non è certa, oggi meno che mai, ma resta a disposizione di chi opera nella sua prospettiva.

Questo libro è un’inchiesta intesa come esplorazione, esperienza, messa in gioco, sperimentazione. E poi anche come racconto, storia delle idee, genealogia. Inchiesta significa inoltre fare esplodere dall’interno i concetti della storia dei dominanti e prospettare un’altra storia dei subalterni, degli oppressi, dei vulnerabili e degli inquieti alla ricerca di una liberazione. Questo non è un lavoro individuale. Coinvolge sia l’autore sia i lettori. Insieme facciamo inchiesta, sperimentiamo la possibilità di un modo di esistere e pensare, indaghiamo le cause, tracciamo le prospettive, delineiamo le tendenze in una vita, attraversiamo e facciamoci attraversare dal divenire in cui siamo implicati e di cui siamo l’espressione. Fare inchiesta significa maturare un atteggiamento di confine, non ostinarsi in un comportamento di rifiuto. Restiamo sulle frontiere di ciò che siamo per divenire altrimenti da una vita capitalista.

 

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