La scuola di questo pianeta
A cosa servono le valutazioni, le competenze e i punteggi?
Con sua grande sorpresa molti studenti vennero da lui a lamentarsene. Desideravano che fosse lui a stabilire i problemi, a rivolgere le domande giuste; loro non volevano pensarci, ma soltanto scrivere le risposte che avevano imparato. E alcuni di loro erano fortemente contrari al fatto che desse a tutti lo stesso voto. Come si poteva distinguere gli studenti diligenti da quelli che non avevano studiato niente? A che scopo lavorare tanto? Se non c’erano delle classifiche competitive, tanto valeva non fare nulla.
Gli studenti di Urras, pianeta liberista e capitalista, sono smarriti dal metodo adottato da Shevek, fisico del pianeta Anarres, dove esiste invece una politica collettivista che non conosce proprietà privata e competizione. Da una parte la razionalità della competizione produttiva canalizzata nello scopo, dall’altra un sistema egualitario ma essenziale, vincolato alle disposizioni che l’organizzazione sociale si è data. La critica che sottende I reietti dell’altro pianeta (The dispossesed, 1974), classico della fantascienza di Ursula le Guin, scomparsa qualche anno fa, non risparmia nessuno in verità, nemmeno il sistema sociale di Anarres e la sua forma di governo anarco-socialista. Un’ambigua utopia, recita il sottotitolo del romanzo, che descrive i dilemmi di due sistemi sociali con una visione dell’emancipazione diametralmente opposta.
L’idea dell’educazione come processo di emancipazione è problematica di per sé. Lo è stata in passato, anche sul pianeta terra, quando l’educazione tanto in famiglia quanto nella scuola, era unicamente di tipo disciplinare e autoritaria, ovvero orientata alla normalizzazione dei comportamenti; ma lo è anche oggi nella «società libera» e senz’altro più competitiva. Se nella scuola «disciplinare», il presupposto era di tipo «correzionario» – ricompense e punizioni al fine di adeguare alla «norma» – in quella «liberale e liberista» di oggi, oltremodo centrata sulla performance e l’acquisizione di competenze, il presupposto sono i risultati validati da un valutatore esterno (Invalsi) e il successo individuale. L’aziendalizzazione della scuola è stato il prezzo della sua «liberazione». Ma è stata vera «liberazione»?
Lucio Lombardo Radice nel suo saggio Educazione e rivoluzione che esce sulla rivista Riforma della Scuola nel 1968 – in tempi in cui qualcosa si andava riconfigurando, almeno culturalmente – scriveva che la scuola non può che guardare al futuro. Per un marxista il futuro è il tempo delle possibilità a venire, della rivoluzione in prospettiva di una società migliore. Evidenziava, anzi, come fosse impossibile immaginare il futuro senza la scuola. E in effetti, più di tutte le altre istituzioni della società, la scuola guarda avanti perché il suo compito è formare ed educare coloro che nel futuro dovranno vivere. Gli esseri umani sono una specie che «produce» significati che traduce alle generazioni, anche grazie alla scuola, e attraverso di essi costruisce quell’organizzazione di senso che definiamo «cultura». In effetti, senza un’idea di futuro, la scuola non ha senso.
Tuttavia, si tratta di capire quale futuro la scuola immagina e contribuisce a costruire. Perché vi è una contraddizione da considerare, propria di tutte le istituzioni, e quindi anche della scuola. Le istituzioni, per loro «natura», tendono a preservare il loro stato. Esse sono espressione della società che le ha generate e rispondono ai bisogni che essa presenta. La scuola, proprio perché governata da pratiche «istituzionalizzate», per funzionare produce e riproduce le condizioni necessarie alla sua esistenza. La critica marxiana ne rintracciava il fine nella riproduzione di un modello, vantaggioso per la sola classe dominante, che stabiliva i criteri per l’accesso alle posizioni privilegiate nella gerarchia sociale. Per certi versi, è ancora così.
«Quale tipo umano si propone di formare la scuola in rapporto alla relazione individuo-società?», si chiedeva in quegli anni Lombardo Radice, consapevole che la scuola del capitalismo industriale si basasse sulla legittimazione della cultura borghese di cui era il prodotto. È significativo che egli avesse compreso, anni prima della svolta verso la società della conoscenza, in che direzione stessero andando i processi educativi. Auspicava il prevalere del lavoro intellettuale-creativo su quello manuale, l’innalzamento delle qualifiche culturali che avrebbe reso i lavoratori più colti – «ogni lavoratore uno scienziato», addirittura scriveva – e la necessità dell’apprendimento continuo utile alla formazione dell’uomo onnilaterale marxiano. Come se avesse previsto il futuro?
Sì. Ma non poteva prevedere la capacità del capitalismo neoliberista di attribuire segno opposto a queste condizioni: proletarizzazione del sapere, ovvero alta scolarizzazione per svolgere lavori semplici (dequalificazione); moltiplicazione delle specializzazioni, e quindi moltiplicazione dei corsi di formazione, corsi di laurea e master «professionalizzanti»; life long learning, formazione continua come risposta all’incapacità del mercato di assorbire le professionalità che crea. Naturalmente i presupposti che immaginava erano altri. La relazione tra scuola e società avrebbe dovuto garantire una divisione sociale dei ruoli basata sulle aspirazioni e i desideri di ognuno, e il lavoro non sarebbe rimasto una forma di sfruttamento ma sarebbe diventato possibilità di realizzazione degli individui attraverso il sapere e la conoscenza. Vi è questo alla base del sogno socialista, ma non è andata proprio così. Quell’idea è rimasta un’utopia seppellita definitivamente dalla «svolta manageriale» della scuola.
Per venire ai tempi recenti, la riforma sull’autonomia scolastica della fine degli anni Novanta, in linea con quanto avviene nella pubblica amministrazione in tutta Europa, introduce nella scuola la «cultura d’impresa», ridefinisce l’apparato di governo dell’educazione, attribuisce poteri e responsabilità ai dirigenti scolastici e apre al regime dell’efficientismo e della meritocrazia. Il dirigente scolastico nei panni del manager diventa quasi il «datore di lavoro» dei docenti, coordinatore e supervisore delle attività, vigilante che fa rispettare i ruoli e le regole. Come nelle grandi aziende che operano sul mercato, il lavoro del dirigente-manager è fare in modo che tutte le risorse (anche quelle umane!) vengano impiegate al meglio ai fini della razionalità aziendale. Dietro l’apparente sburocratizzazione si nasconde una gestione verticistica che si affanna sulle procedure e sui risultati da restituire al valutatore. La burocrazia non scompare, bensì aumenta; le politiche liberiste in realtà hanno bisogno di regole, anche piuttosto rigide, che permettano di realizzare l’autonomia. Cosa c’entra con l’educazione tutto questo? Per riprendere la domanda che formulava Lucio Lombardo Radice, quale «tipo-umano» vuole formare la scuola oggi? La risposta ce la dà l’Istituto Nazionale per la Valutazione del sistema Educativo (Invalsi), in un breve documento divulgativo che ne sintetizza la mission:
Le industrie e le burocrazie del Novecento avevano bisogno di lavoratori istruiti più che di iniziative. Di dipendenti uniformi tra loro e capaci di uniformarsi a ruoli e procedure perché, nel settore pubblico come in quello privato, pochissime persone pensavano e decidevano per tutti (…). E quanto si imparava sui banchi di scuola serviva per tutta la vita1.
Quella società, si legge nel documento, ha lasciato il posto al mondo più complesso di oggi che ha bisogno di «persone più autonome, intraprendenti, responsabili, disposte a prendere iniziative e a imparare per tutta la vita». Insomma, Invalsi è chiaro: la scuola vuole formare «persone preparate per lavori che non esistono ancora e problemi che non possiamo prevedere».
Nel considerare la crisi occupazionale, oggi, una domanda occorre farsela. Non è che tutto questo serve per dire che – siccome il mondo è cambiato (ma quali sono le cause?) e la società è diventata dinamica e flessibile (cioè basata sul precariato) – abbiamo bisogno di persone «disposte a prendere iniziative» e capaci di integrarsi nel regime della meritocrazia entrando in competizione per l’accesso alle «poche» ricompense che la società offre? Parafrasando: imparate a comprendere il precariato, siate flessibili e se non ci riuscite vuol dire che non siete stati capaci di investire sul vostro «capitale umano», concetto molto impiegato nella scuola di oggi che, non a caso, viene introdotto intorno agli anni Sessanta dagli economisti liberisti americani, i quali ritenevano che il rapporto investimento-produttività riguardasse anche l’educazione.
Questo approccio economico al comportamento umano sposta il discorso (anche dell’educazione) sulle responsabilità individuali ma senza prendere in considerazione il modo in cui sono realmente distribuite le risorse nella società. Davvero tutti partono dallo stesso punto di partenza e hanno le stesse possibilità di investire su di sé e far fruttare quell’investimento? Perché è anche da questo che dipende la reale efficacia del capitale umano. Altrimenti la scuola delle competenze, dei punteggi, della valutazione, la scuola-impresa che intende preparare persone per «lavori che ancora non esistono» non solo penalizza la conoscenza nel conformarla alle misure utili alla valutazione, ma penalizza anche l’eguale distribuzione delle possibilità.
Se le cose stanno così, torna significativa, anche se provocatoria, la risposta che Shevek, il geniale fisico del pianeta Anarres, non senza preoccupazioni, da agli studenti che ritengono inutile studiare in un mondo senza competizione, senza classifiche e non meritocratico: «Se non volete fare la tesina, allora non dovete farla».
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