La quarantena esistenziale
del post moderno

Reportage nell'umanità del capitalismo

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Lucia Marcucci, Love (1972).

È una indagine sui dispositivi di controllo sociale che determinano isolamento e con esso la convinzione di essere individui slegati, in cui la vita passa attraverso senza risplendere mai di bagliori comuni 

Se Godani non fosse un filosofo ma un giornalista potremmo dire che il suo libro La vita comune è un reportage sull’uomo ai tempi del finanzcapitalismo, sui sommovimenti che sono di tutti, le angosce per il mutuo da pagare, le preoccupazioni per il lavoro da trovare. È una indagine sui dispositivi di controllo sociale che determinano isolamento e con esso la convinzione di essere individui slegati, in cui la vita passa attraverso senza risplendere mai di bagliori comuni.

È una specie di mostra questo libro dalla copertina romantica, ogni quadro esposto descrive una delle gabbie che ci imprigionano, a guardarlo si ha la tentazione di esclamare «è vero!» o «ha ragione!» tanto le pennellate, fatte di rimandi letterari, di critiche cinematografiche, di narrazioni di frammenti del reale, sono precise e taglienti. Ed è in questa operazione che Godani disvela il paradosso capace di rovesciare queste passioni tristi nei loro opposti gioiosi e liberatori: nell’atto di riconoscerci immersi in questa condizione oppressiva nella quale hanno ricacciato il mondo, scopriamo che si parla di un «nostro» reale, di un reale comune, non singolo.

È come vedersi dall’alto. Scoprire che il sentirsi soli di fronte all’incubo del debito è condizione di ognuno è quella che Godani chiama «la strategia del disconoscimento», grazie alla quale la depressione può trasformarsi in una «visione comica della vita, della vita come commedia umana di cui ognuno è il carattere rappresentato e il commediante che lo interpreta. Solo questa visione comica della vita consente di liberarsi del fardello depressivo dell’unicità individuale e di vivere la propria vita per ciò che è: la vita di tutti».

E anche qui si smaschera il trucco: nell’affermare l’esistenza di una vita comune la colpa si estingue non trovando più il soggetto in cui incarnarsi 

Assai sottile la trattazione della paranoia, l’altro sentimento che si nutre di questa quarantena esistenziale che è il post post moderno, descritta come l’ossatura di quell’attitudine poliziesca che ha reso la politica indagine «su chi sia il proprietario di una colpa». E mentre si legge si pensa alla lotta contro «il pericolo migranti», alla giustizia come senso di una gogna, al rancore che dilaga senza mai farsi rabbia sovversiva. E anche qui si smaschera il trucco: nell’affermare l’esistenza di una vita comune la colpa si estingue non trovando più il soggetto in cui incarnarsi.

«Un comunismo ontologico», dice il filosofo Godani, è il rovesciamento della pervasiva forza del biocapitalismo. Sottrae al moloch il terreno su cui prospera, la chiusura dell’uomo nelle sue proprie angosce, che finalmente intravede in questo nuovo baricentro, spostato dall’individuo alla società, la possibilità di una via d’uscita collettiva.

L’arroccamento identitario delle formazioni xenofobe, delle risposte sovraniste alle crisi economiche, più che la destituzione della categoria individuo ne è il potenziamento 

Sa bene l’autore che di fronte alla radiografia delle attuali prigioni esiste il pericolo di un equivoco. Esso si annida nella possibilità, tutt’altro che remota, anzi ferocemente attuale, che si faccia del ritorno agli arcaici vincoli comunitari, territoriali, «non di rado apertamente razziali», la leva per un possibile scardinamento di questo isolamento. «È un rimedio che rischia di essere peggiore del male» avverte Godani, che, forse, relega la questione a una trattazione marginale.

È pur vero che nel dispiegamento della sua trattazione l’autore spiega bene che l’antidoto è situato in una vita collettiva, ovvero una vita transindividuale. L’arroccamento identitario delle formazioni xenofobe, delle risposte sovraniste alle crisi economiche, più che la destituzione della categoria individuo ne è il potenziamento. Ma ci è mancato un più forte rimando alla necessità che il nuovo senso di questa percezione debba necessariamente incarnarsi in una riedizione di lotte sociali per il rovesciamento del senso comune, per il dilagare di nuovi circuiti di entusiasmi, di solidarietà, di architetture politiche. No, non basta «tenere alla larga le forze che pretendono di appropiarsi di ciò che non è possibile possedere». Possiamo spingerci a immaginare dell’altro, e poi a costruirlo.

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