La vita comune

Per una filosofia e una politica oltre l'individuo

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Nicole Gravier, Una lettera (Marilyn). Mythes et Clichés. Fotoromanzi, serie Attesa, 1976-80, collage su fotografia, cm 30x40

Una qualunque potenza di agire si conquista solo affermando qualcosa in ciò che accade. Si diviene capaci di agire, si ha la forza per farlo, nella misura in cui si sia riusciti a contemplare e ad affermare qualcosa in ciò che accade o in ciò che esiste

Una qualunque potenza di agire si conquista solo affermando qualcosa in ciò che accade. Si diviene capaci di agire, si ha la forza per farlo, nella misura in cui si sia riusciti a contemplare e ad affermare qualcosa in ciò che accade o in ciò che esiste.

Si tratta di un’operazione preliminare che, sola, consente l’accumulazione della forza necessaria per agire e, eventualmente, opporsi a qualcosa. Come potrebbe l’oppresso trovare la forza per resistere all’oppressione se non affermando qualcosa che esiste proprio nella sua vita attualmente oppressa? Non si tratta di rassegnazione, ma al contrario della capacità di liberare in ogni avvenimento, in ogni situazione dell’esistenza, in ogni momento del tempo, ciò che vi è in essi di sottratto all’ignominia e alla distruzione. Potremmo chiamare ottimismo disperato questo atteggiamento, visto che si fonda su un presupposto indimostrabile come la vita: che anche nelle situazioni più infami e disastrose si dia qualcosa che sorvola, salvo, la catastrofe, costituendo l’unica condizione per resistere al disastro e trovare una via di scampo.

Considerando un caso personale, quello dell’infermità dello scrittore Joe Bousquet, Gilles Deleuze propone un esempio che possiamo facilmente generalizzare. Non si tratta di dire «sono ferito, sono infermo», ma di selezionare in quello stato, nello stato in cui ci si trova, la sua «parte di eternità», il suo senso (ciò che Deleuze chiama anche evento), affermando così la potenza – per quanto debole possa essere – di quello stato. Con le parole di Deleuze: «la ferita che egli porta profondamente nel suo corpo, la afferra, nondimeno e a maggior ragione, nella sua verità eterna come evento puro»1. Che si tratti di uno stato fisico o sociale, di una ferita o dello sfruttamento, le cose non cambiano; in entrambi i casi – si abbia o meno a portata di mano la possibilità di mutare effettivamente lo stato nel quale ci si trova – la forza non proviene che dall’affermazione di ciò che si può. Anche l’eventuale rivolta politica contro l’oppressione non trova la propria condizione di possibilità se non in quell’affermazione che è una sorta di seconda nascita, perché ci fa divenire figli del senso che riusciamo a dare a ciò che siamo: «figlio dei propri eventi e non delle proprie opere, perché l’opera stessa è prodotta soltanto dal figlio dell’evento»2.

Il dispositivo dell’individualizzazione, che abbiamo visto essere un luogo decisivo delle tecnologie di potere contemporanee, è esattamente l’opposto di questa affermazione della potenza, del senso e dell’evento.  

Il dispositivo dell’individualizzazione, che abbiamo visto essere un luogo decisivo delle tecnologie di potere contemporanee, è esattamente l’opposto di questa affermazione della potenza, del senso e dell’evento. L’atomizzazione implica precisamente la riduzione di ogni senso a mero stato di cose individuale. Anche qui l’esempio della malattia è paradigmatico: di fronte alla malattia ci si sente soli innanzitutto perché in essa agisce un dispositivo individualizzante. Ma l’unico stigma che la malattia porta in sé è la sua immaginaria essenza individuale. Contro il dispositivo individualizzante, l’unica via d’uscita risiede nella percezione che tutte le cose, compresi noi stessi e i nostri accidenti personali, sono eventi comuni.

Ciò che sin qui abbiamo cercato di mostrare è che la natura di quanto, in ogni situazione, può essere oggetto di affermazione è sempre trans-individuale, comune. L’oggetto di un’affermazione è sempre qualcosa di comunicabile e di condivisibile, dunque un elemento virtualmente collettivo, e mai puramente individuale, giacché l’individuo non è altro che la privazione del suo essere comune. Se un individuo appare solo attraverso la negazione dei tratti comuni che lo costituiscono, affermare alcunché di individuale sarà affermare una negazione, dunque sarà, letteralmente, una contraddizione in termini. Ciò su cui vorremmo insistere, in conclusione, è che la liberazione dell’elemento comune, l’affrancamento dalla negatività che lo individualizza, la percezione di esso come presente e vivo in ogni momento, sono le condizioni senza le quali un agire collettivo diviene impossibile.

I modi più diffusi di leggere il presente si dividono tra il cinismo di coloro che vedono nell’organizzazione delle società capitalistiche avanzate l’unico e dunque il migliore dei mondi possibili, l’euforia di chi vede in questa stessa organizzazione l’attualità di un comunismo «solo» attualmente espropriato dal Capitale, e il sentimento apocalittico di chi, trovando le nostre società irrimediabilmente corrotte, non riesce a immaginare che una palingenesi dopo il disastro. Ma i cinici non si accorgono, o fanno finta di non vedere, che se nelle società occidentali si danno esempi di vita comune, essi si costituiscono come necessariamente alternativi all’appropriazione, presentandosi come una sorta di critica oggettiva interna a quella logica possessiva dell’individuo isolato che governa l’ideologia capitalista. Per parte loro gli euforici, che pure giustamente indagano il presente alla ricerca di un’attualità della vita comune, non si sforzano troppo di distinguere quest’ultima (che, con Marx, chiamano general intellect) dai dispositivi che la attraversano disgregandola talvolta nella maniera più radicale e dando luogo ai fenomeni depressivi e paranoici a cui abbiamo accennato qui. Gli apocalittici, infine, si privano fin dall’inizio della possibilità di pensare ad un’affermazione della vita comune, perché di questa, per loro, nel nostro mondo non vi è più alcuna traccia – e com’è noto nessuna specie estinta ritorna a vivere.

Contro questi ultimi, quella che Jacques Rancière ha chiamato «hypothèse de confiance»3 (e che è l’analogo, sul piano politico, del nostro «ottimismo disperato») suggerisce che l’atomizzazione, e dunque il disastro, non è e non può mai essere l’unica e l’ultima parola della storia, perché la vita comune resiste anche nelle situazioni meno favorevoli. Rispetto agli euforici, l’ipotesi della fiducia invita a indagare con più attenzione i dispositivi dell’isolamento che incistano profondamente la vita comune, perché senza una loro disattivazione «molecolare» la vita comune appare sfigurata. Ai cinici, diciamo invece di stare poco allegri, perché dovunque la vita comune, acquisendo fiducia nel proprio essere, si imponga come istanza collettiva, lì l’organizzazione dell’appropriazione e dello sfruttamento è messa in pericolo.

Ignorare la domanda «che fare?» è invece già sapere che la vita comune è fine a se stessa, che si sottrae alla discrepanza di mezzi e fini, che non ha da realizzarsi nell’avvenire costruito secondo un programma 

Ma come, ci si chiederà infine, come fare? Sarebbe già un passo avanti se a questo punto si fosse sentito il bisogno di passare dal «che fare?» leninista al come, abbandonando la sottomissione del fare, della vita attiva e politica, alla presunta esigenza di un programma. Sarebbe un passo avanti sapere o sentire che in fondo la risposta alla domanda «che fare?» è semplice, ed è sempre la stessa: «sottomettersi ancora una volta alla logica della mobilitazione, alla temporalità dell’urgenza. Sotto pretesto di ribellione. […] Un analgesico, un miraggio […]. Un mezzo per ignorarsi ancora un po’. Come presenza. Come forma di vita»4. Ignorare la domanda «che fare?» è invece già sapere che la vita comune è fine a se stessa, che si sottrae alla discrepanza di mezzi e fini, che non ha da realizzarsi nell’avvenire costruito secondo un programma. Ed è già sentire che non esiste transizione dall’affermazione della vita comune alla sua organizzazione come istanza collettiva, perché l’unica transizione effettiva è quella che, disattivando i dispositivi di cattura della vita comune, conduce fuori dal circolo dell’individualizzazione.

Sul piano dell’agire collettivo la percezione di una vita comune conduce, fra l’altro, all’idea che la resistenza o l’opposizione ad un qualsivoglia potere costituito (e in particolare a quel potere che oggi ha tra i suoi strumenti i dispositivi individualizzanti) non possa essere l’effetto di una volontà militante di resistere o di opporsi, senza che questa volontà si radichi preliminarmente e – potremmo dire – involontariamente nell’affermazione di un elemento comune. L’opposizione, allora, non si manifesta più nei termini di una rivendicazione rivolta a un potere, al fine di ottenere il riconoscimento di qualche diritto, ma nella difesa di un territorio in sè da sempre sottratto alla «giurisdizione» economica o statale, cioè nella semplice evidenza che in relazione a quel territorio comune non è possibile alcun tipo di appropriazione. In questo senso, la potenza di ciò che è comune avrà come unica sua esigenza quella di evitare o destituire le pretese appropriative dell’economia e dello stato.

Conseguentemente, non si tratterà di immaginare una qualche insurrezione a venire, ma di destituire qui e ora ogni pretesa appropriativa, attraverso la sola affermazione della potenza di un tempo comune 

Questa politica involontaria5, radicata nell’affermazione della vita comune, implica la sospensione dello schema strumentale mezzi/fini e, con ciò, del dominio del tempo cronologico. Si basa infatti sulla persuasione che un qualunque istante del tempo come una qualunque situazione della vita personale o collettiva non possano essere sacrificabili in vista di qualcos’altro, ma debbano valere per se stessi, essendo in ognuno di essi sempre già contenuto tutto il tempo e tutta la vita del mondo. Liberarsi dal dispositivo dell’individualizzazione significa, in questo senso, liberare ogni momento della vita dalle catene che, legandolo nell’ordine temporale di un destino colpevole, lo istituiscono come momento meramente individuale, per tornare ad affermare invece l’innocenza del suo essere intemporale e comune. Conseguentemente, non si tratterà di immaginare una qualche insurrezione a venire, ma di destituire qui e ora ogni pretesa appropriativa, attraverso la sola affermazione della potenza di un tempo comune.

Affermare una potenza, ovvero «contemplare la propria potenza di agire» è – come dice Spinoza – il massimo bene per l’uomo e conferisce la serenità dell’acquiescentia in se ipso, perché scioglie gli accidenti di una vita dalla rete del destino, elevandoli così a eventi trans-individuali, perché consente di percepire gli elementi che costituiscono una vita singolare come elementi della vita comune. È questa stessa contemplazione (che è anche l’unico vero farmaco contro la solitudine e l’impotenza che non danno via di scampo all’individuo isolato) a far sì che le qualità che ci costituiscono (così come i beni con i quali entriamo in contatto) ci si presentino come qualità il cui valore consiste precisamente nel loro essere inappropriabili. Nella difesa di questo essere consiste tutta la politica della vita comune. Essa implica «soltanto» la capacità collettiva di tenere alla larga le forze che pretendono di appropriarsi di ciò che non è possibile possedere.

Estratto da Paolo Godani, La vita comune. Per una filosofia e una politica oltre l’individuo, in libreria da lunedì 9 maggio (DeriveApprodi, pp. 108, euro 12).

Note

Note
1G. Deleuze, Logica del senso, cit. 133.
2Ivi, p. 134.
3J. Rancière, Comunisti senza comunismo?, in AA.VV., L’idea di comunismo, DeriveApprodi, Roma 2011, p. 198.
4Tiqqun, La comunità terribile, DeriveApprodi, Roma 2003, p. 63.
5Cfr. F. Zourabichvili, Deleuze e il possibile (sul non volontarismo in politica), in «aut aut» n. 276/1996, pp. 59-78.

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