L’aura delle parole

Che cos'è un'OperaViva?

Claire Fontaine, Today your room was serviced by..., 2008
Claire Fontaine, Today your room was serviced by..., 2008.

Qual è l’aura delle parole? Che a pronunciare parole come desiderio, amore, vita siamo sicuri di intenderci? Quasi fossero evidenze preservate dalla dannazione del linguaggio di separarci dalla cosa? Basterebbe forse invocarle e infarcirci una rivista per dare a tutti e ricordare a ciascuno la medesima eco di un’esperienza, magari anche priva di equivoci? Per sentirle con la pelle e non con l’orecchio? Ci ha provato youporn prima di operaviva rivista, nel suo sforzo categorico, se non proprio oggettivo senz’altro calcolato su un algoritmo condiviso: milf, blowjob, hairy… Eppure tra l’inteso della nozione, parametrata, e il modo di intendere dell’utente passa l’abisso di un desiderio che non trova quello che cerca, nonostante il giallo della parola e l’evidenza del suo contenuto tutto sommato non fuori tema.

Sì, esiste un’aura delle parole. E come ogni aura da un po’ non è autentica. Che a farne il riflesso del senso, dell’inteso, è la varietà degli equivoci (meschinità del fraintendere il visibile, direbbe Paolo Virno) a dispiegarsi. Interessanti, proprio perché non interpellano il senso ma il modo, non l’inteso bensì l’intenzione. È Walter Benjamin a spiegarlo nel Compito del traduttore, al quale spetta di rilevare proprio ciò che alla lingua sfugge: il «modo» dell’inteso, l’intenzionalità. È questo a fare l’affinità tra le lingue, non la simmetria tra le foreste delle parole, ma la «tonalità affettiva» che le accomuna. Per questo il traduttore, prima di essere voce, sarà orecchio, capace di sentire l’eco nella propria lingua di ciò che risponde alla lingua straniera. Per questo, egli non si rivolgerà alla singola opera, ma a quel comune di tutte le lingue, che accomuna le lingue nell’intenzione e le separa nell’inteso. Così, la traduzione starà fuori da una lingua: «senza porvi piede».

Di idee pratiche di cosa sia una «tonalità affettiva» è piena la vita quotidiana: a dire «un bacio» e a intendere «vaffanculo», forse anche più a sentirlo peraltro. A parlare con irreprensibile etichetta strabordando odio. Mentre si compilano anonime liste della spesa dalle quali scomparirebbe il soggetto, che poco dopo rincasa in massa insieme alla famiglia. Quando la domenica a Capannelle giochi ai cavalli e, nonostante le quotazioni, punti tutto su Troublemaker, che ovviamente perderà. Basta mettersi in quella posizione tangenziale del traduttore indicata da Benjamin, che in realtà è posizione dell’«ingegno filosofico», che dei significati, dei sensi delle parole tende a vedere la relazione, dunque l’uso: quella «tonalità affettiva» di cui è intessuta la lingua, materia di suoni e di passioni.

Da qui si spiega l’affermazione di uno psicanalista, Charles Melman: «La langue maternelle est celle dans laquelle on bande». Non che sia quella parlata con o imparata dalla madre dunque (né col padre), ma quella della grammatica del desiderio. Che per fortuna si può provare a reinventare, nonostante l’origine. O certi esempi di traduzioni beckettiane segnalate da Paolo Nori, che per un «I was feeling awful» divaricano l’inteso in: opzione uno nella traduzione di Valerio Fantinel, «Avevo una tarantola di inquietudini in petto»; opzione due di Daniele Benati, qualcosa di più vicino a: stavo di merda. Per l’intenzione, stiamo ovviamente con Benati.

Anche Marcel Proust avrebbe sofferto di cratilismo, la tentazione di vedere nel segno l’imitazione della cosa, se non la cosa stessa. Un nesso di natura andato perduto nell’evoluzione linguistica. Certo, all’ippodromo, la tentazione è ancora forte di continuare a puntare su Uffa che noia e su Questi amori, ma non perché la relazione è finita male col cavallo. Che vi sia un piacere anche solo nel proferire parola lo dimostrano Adamo ed Eva, che infatti nel nominare le cose, dopo la meraviglia, hanno un loro godimento: l’equivalente odierno dell’inventare categorie di youporn?

Forse no, per questo torniamo al compito del traduttore: redimere con la propria lingua quella lingua comune prigioniera dell’opera. Far risuonare nella propria lingua il come, il modo, l’uso, il comune che singolarmente separa ogni lingua, che singolarmente ci separa. Per liberarci dell’opera occorre allora che la lingua sia viva: «Una comunità emancipata è una comunità di narratori e di traduttori» [Jacques Rancière]. Di traduttori capaci di far risuonare quel modo comune che ci allontana nella determinazione della parola. Di narratori capaci di meraviglia per le cose e di goderne nel dargli un nome. Da usare. Solo a questa condizione l’opera è anche vita. Traduzione di una vita comune.

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