L’inizio del lavoro visto dalla sua fine

Parlare al presente

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Fiamma Montezemolo, Neon afterwords, 2016 - Courtesy Kadist.

«The persistent feeling […] that the world as it was could never be more than a fraction of the world, for the real also consisted of what could have happened but didn’t»
(P. Auster, 4 3 2 1) 

Capire dove, nel corso più o meno lungo del passato, si è prodotto il futuro che stiamo vivendo: ecco l’obiettivo minimo a cui ogni storica o storico mosso da autentica urgenza politica dovrebbe ambire. Ma poi, se oltre a capire si vuole cambiare, questo da solo ancora non basta. Bisogna allora spingersi più in là, mostrare non solo ciò che è e ciò che è stato, ma anche ciò che avrebbe potuto essere, portare la storia a ebollizione fino a rivelarne il nocciolo incandescente di potenzialità non realizzate e però, almeno in linea di principio, realizzabili. Con L’inizio del lavoro (Carocci, 2018), Federico Tomasello riesce nel compito non facile di tenere insieme entrambe queste prospettive euristiche, in un esercizio di storiografia militante che, pur senza cedimenti sul piano del rigore scientifico, non si rifugia mai dietro il pretesto di un’oggettività distaccata da antiquario. Merito di un angolo di osservazione scorciato, non neutrale, esplicitato già nelle battute introduttive e radicato nelle contraddizioni di un vissuto generazionale: quello cioè di coloro a cui forse per primi è stato dato di vivere nell’età della fine del lavoro, del «prendere forma dell’aporia di società divenute incapaci di garantire il supporto in cui esse stesse avevano inscritto il vettore fondamentale dell’inclusione» (p. 9).

A partire da questo dichiarato ancoraggio nei paradossi del nostro tempo, il libro procede à rebours andando a indagare la genesi di quell’inscrizione, l’origine ottocentesca dei processi che hanno portato alla costruzione del «nesso identitario fra lavoro e cittadinanza» (p. 143), perno di molte delle costituzioni europee del dopoguerra. Rispetto però alle ipotesi storiografiche più consolidate, che tendono ad assegnare alla vicenda quarantottesca il ruolo di cesura epocale, Tomasello risale ancora indietro di un passo, scegliendo di concentrarsi sulla temperie sociale, culturale e politica della Francia degli anni Trenta. Un evento fa insieme da terminus a quo del ragionamento e da pietra di paragone per misurare gli scivolamenti, le trasformazioni, le rotture del discorso pubblico sotto la monarchia di Luglio: la rivolta dei tessitori lionesi nel novembre 1831 contro i commercianti di seta, la cui eco segnerà a fondo, dentro e fuori il parlamento, le traiettorie teoriche delle principali forze politiche. Primo vagito del nascente movimento operaio o, forse meglio, canto del cigno del mondo artigiano davanti all’avanzata del modo di produzione capitalistico? Poco importa, almeno ai fini dell’analisi di Tomasello, meno interessato a decidere dell’esatta natura della cosa che a verificare «l’interferenza fra il suo regime temporale evenemenziale e quello lungo delle idee, del lessico e dei concetti politici» (p. 135). Il libro segue dunque con precisione le relazioni tra il dispiegarsi progressivo degli effetti dell’insurrezione di Lione e le metamorfosi pratiche, istituzionali e ideologiche dei due campi – peraltro al loro interno piuttosto disomogenei – in cui la scena pubblica del regime orleanista viene allora a dividersi: quello governativo-liberale e quello dell’opposizione repubblicana e (proto)socialista.

I liberali innanzitutto, che tra le proprie fila annoverano nomi del calibro di Guizot e Tocqueville. Qui le giornate di novembre fanno da catalizzatore di spostamenti concettuali significativi, grazie anche all’azione costante della neo-rinata Académie des Sciences Morales et Politiques e alle prime inchieste sulle condizioni di vita dei ceti popolari e urbani condotte sotto la sua egida, in cui Tomasello riconosce il laboratorio che darà forma al quadro epistemico e metodologico delle future scienze sociali. Un nodo di sapere e potere viene allora stringendosi attorno a questo oggetto da poco inventato, la società; attraverso le lenti della statistica e del discorso medico, il pauperismo comincia a essere visto non più come fenomeno esotico o barbarico esterno ai confini dell’ordine proprietario ma come prodotto – deprecabile e però necessario – tutto interno agli assetti economici del XIX secolo; nuove strategie di integrazione e governo della manodopera vengono messe in campo (patronage, libretto operaio, casse popolari di risparmio, primi abbozzi di assicurazione obbligatoria); e nel magma indifferenziato della questione sociale si inizia a separare il grano delle classes laborieuses dal loglio di quelle dangereuses, col lavoro che assurge al ruolo di shibboleth morale e di essenziale strumento pedagogico.

Pur partendo da tutt’altri presupposti, gli ambienti vicini al mondo operaio finiscono per convergere su esiti non interamente dissimili. Di nuovo, i tessitori lionesi segnano in questa parabola uno scarto decisivo. Non tanto però sul piano delle rivendicazioni immediate – ancora legate a «istanze artigiane di matrice corporativa» – quanto su quello del linguaggio politico impiegato per rappresentarle, linguaggio che ci si sforza di mettere all’altezza della congiuntura per renderlo «capace di posizionarsi nell’ordine dei discorsi della Francia borghese dell’Orleanismo» (p. 118). Una lotta per la nominazione si apre attorno a una certa costellazione terminologica – popolo, classe, proletariato – e il soggetto classe operaia emerge dunque non come premessa ma come risultato di questa guerra di posizione semantica. Pezzi di discorso liberale vengono presi, deturnati, reimpiegati ai fini di una ginnastica di soggettivazione che mette i subalterni in condizione di parlare. E, non a caso, il lavoro (salariato) diventa la chiave di volta dell’autorappresentazione operaia. Il binomio novecentesco di lavoro e cittadinanza affonda qui le sue radici, all’incrocio tra pratiche liberali di governo e politica dei governati. Logiche dell’assujettissement: assumere su di sé la parola d’ordine lavorista è il prezzo che la parte dei senza parte deve pagare per accedere allo spazio del discorso pubblico. Del resto, Tronti docuit, «in una società nemica non c’è libera scelta dei mezzi per combatterla. E le armi per le rivolte proletarie sono state sempre prese dagli arsenali dei padroni».

Tomasello non sembra voler mettere in discussione l’opportunità e l’efficacia dell’operazione, di cui anzi sottolinea lo spettacolare successo: i limiti stessi del diritto e della politica vengono ridefiniti, la loro sfera allargata fino a ricomprendere l’intera estensione dei conflitti sociali. Ma l’efficacia, ci viene anche ricordato, ha un costo: perché «il processo di soggettivazione del lavoro» coincide con l’«elisione dal campo dei progetti di emancipazione ottocenteschi di altre tematiche originariamente costitutive del socialismo utopico» (p. 133). Sovversione della famiglia e della razionalità borghesi, sensualismo, esoterismo, eguaglianza femminile, critica della pedagogia, della tecnica, della penalità: questioni aperte e subito richiuse, sacrificate al moloch della centralità del lavoro. Il «singolare collettivo» classe operaia si forma solo al prezzo di una riduzione del «più vasto campo di soggetti e problemi della questione sociale, del pauperismo e della subalternità» (p. 139). Si respira, in queste pagine finali, un tipo particolare di malinconia di sinistra, il cui oggetto perduto non è una rivoluzione sconfitta o tradita ma una rivoluzione che avrebbe potuto essere e non è stata. Di qui, una domanda che è anche ipotesi politica: ora che il lavoro sembra aver esaurito il suo potere performativo e la sua capacità di presa sul reale, è possibile pensare che il soggetto dell’emancipazione a venire possa essere costruito non più a partire dalla sua posizione all’interno del processo di produzione ma all’interno di quello di distribuzione della ricchezza? Si aprirebbe allora lo spazio di un fronte largo di alleanze, un intreccio inedito di nuove e vecchie istanze diverrebbe praticabile; e la «classe più povera e più numerosa», di sansimoniana memoria, tornerebbe a parlare al presente.

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