L’isola del fare insieme
Santarcangelo Festival 2050
Che se inciampi le cose ti corrono addosso e tocca rifare all’inizio, a tutti i posti in cui vorresti essere e le persone con cui vorresti condividere, agli incontri mancati alla stanza dei pensieri non verificati. Una vita sola non basta anche se si prova a moltiplicarla. Luglio e la sua accelerazione. Ciao Fabrizio.
È difficile scrivere sul Festival di Santarcangelo quest’anno per vari motivi, non ultima una diffusa emotività. E la scomparsa precoce di un amico d’infanzia di cui al Bisonte si è incrociato lo sguardo attraversando di profonda commozione buona parte del festival e ancora ora. Si muore, a volte inaspettatamente, senza preavviso, non solo questo periodo ce l’ha ricordato in maniera violenta, ma forse immaginare un futuro partendo da questo assunto, ne cambia radicalmente la prospettiva.
Le parole dopo la pandemia, non vengono facili, un ammutolimento assordante ha sospeso i pensieri e tappato la bocca, oltre che il respiro, con la mascherina. Taci, anzi prova a parlare (se ci riesci), dalla distanza siderale dei corpi che già soffrivano di poche carezze. A provarci il suono della voce arriva ovattato, lontano, lo avevano conosciuto gli attori antichi o del teatro giapponese, ma la maschera era comunque possibilità artistica, di sperimentazione e non dispositivo di protezione. Proteggerci da chi da cosa? Dal mondo infetto di cui siamo cavie assoggettate dall’ennesimo virus? Dalla nostra stessa malattia che occupa un posto ingombrante nelle vite di tutti o dagli strattonamenti verso un futuro infuso e acceleratissimo, quello della tecnologia, di cui ancora forse, non ci rendiamo conto e che ci fa combattenti balbettanti?
Forse perché c’è stato un tempo in cui le cose si davano senza grande difficoltà, proliferavano gruppi e generazioni teatrali, le porte di servizio dei piccoli gloriosi teatri romagnoli, restavano sapientemente socchiuse, e noi ragazzin* eravamo invitat*, noncuranti di biglietterie e amministrazioni, a scivolare all’interno, a imparare cos’era il foyer, la quinta, un graticcio e a ritrovarci in quella prossimità privilegiata del primo ordine di palchi o a lato sul palcoscenico. Si tratteneva il respiro al buio, col cuore in gola e si aspettava il cominciamento. Ci abitava lo spaziotempo di una nuova dimensione, un futuro che si scriveva nella mano a nostra insaputa e che ci rendeva vivi e fiduciosi che quell’arte in odorama ci avrebbe accompagnato per sempre e magari sostenuto.
«Il futuro del nostro tempo non è più quello di una volta», affermava ironicamente Paul Valery. Da dove partire per immaginarlo? Nel gioco i bambini, seppur capaci di stupore non hanno coniugazioni di tempo per nominarlo, oggi è l’unico pianeta abitabile. Il futuro ha ancora un futuro? Il palco è in legno ed ha un declivio del 3%. È dotato di un fondale nero, di n°4 quinte nere laterali e di un graticcio in legno praticabile dell’altezza di mt. 10 oltre che di sipario elettrico. Si apprendeva da più grandi, esiste un dentro e un fuori in tutte le cose un guardare ed essere visti che si interscambia costantemente nella politica relazionale e in quella affezione che, si spera, ne consegua. Se per immaginare un futuro serve un passato, l’interrogazione del Festival di Santarcangelo prova a trovarne un fil rouge. Se allora non possiamo parlare, scriviamo con la luce, sembra affermi elegantissima e un po’ retrò la scritta al neon Futurofantastico innestata, come un’opera di land art nel pratone dell’ex area Imbosco.
Motus è impeccabile come sempre nella concezione estetica dello spazio fisico e simbolico e senza lasciare nessun dubbio denomina e colloca «Lo spazio», in un conatus mitopoietico aperto a più traduzioni. Lo stile è essenziale e rigoroso, una revisione Felliniana concettuale, ma estremamente evocativo attraverso l’uso del neon azzurro o forse «celeste», verrebbe da pensare, luogo di accadimenti scelto per eccellenza e abitato da quel «corpo» citando Maria Ortese di Corpo Celeste, che qui si fa presenza e attraversamento continuo. «Sono lieta, in mezzo alle mie tristezze mediterranee, di essere qui. E dirvi com’è bello pensare strutture di luce, e gettarle come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare, o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra, se vengono a occupare i linguaggi, il respiro, la dignità delle persone».
Si respira, seppur in corpi docili e ubbidienti dotati di mascherina, il teatro torna ad essere fuori, sotto il cielo, alle intemperie, dato generosamente, visibile a tutt*. Ci si immedesima nel pubblico invitato a sbirciare e che con la scusa di passeggiare col cane sulle sponde rigogliose del fiume Uso, si sofferma rapito dallo spettacolo da cui sembrerebbe escluso ma che invece lo coglie in uno sguardo rovesciato, partecipe, come una pianta, come un paesaggio, come un animale assorto.
Molti, quasi tutti i lavori invitano alla partecipazione attiva del pubblico, i confini sono labili, la posizione anticoloniale, le porte lasciate socchiuse in quell’esercizio di desiderio che nutre la creatività del fare insieme. Santarcangelo è un’affezione, è un’atmosfera, è un’isola che apre sempre le sue porte. È un’occasione di incontro a cui si approda ogni anno pieni di speranza. È l’isola teatro da raggiungere, con i treni, con le macchine dai luoghi scelti, il rincontrarsi degli affetti. C’è la pratica del vivere insieme uno spazio nel breve periodo di una settimana, c’è tempo di assimilare il visibile, ma ancor più il desiderio di riabbracciarsi. E le chiacchiere al bar.
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