Lo sguardo dello scolaro
Appunti su una fotografia vista dal basso
«Noi non abbiamo niente, si fa più presto a lottare, che ci perdiamo?»
in G. Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino
Notarangelo è stato un grande fotografo, come risulta evidente dal volume «E fu subito Lucania», da cui estraggo la fotografia che ispira questo mio scritto per il catalogo curato da Elia Panzarella. Tocca premettere che non sono un esperto, tantomeno un intenditore di fotografia; mi piace comunque, quando la testa e il tempo me lo consentono, soffermarmi su quelle immagini che, per dirla con Ferrarotti, documentano il quotidiano senza inseguire lo scoop; su quelle immagini, detto altrimenti, che riescono a imprigionare istanti di vita dai quali è possibile intuire la dimensione sociale dentro la quale ogni individuo è coinvolto.
Ed eccoci allora davanti allo «scolaro di campagna», del 1962, ultimo anno di quel poderoso processo storico che è stato il boom economico italiano. Lo scolaro, che chiamiamo Antonio essendo questo il nome maschile più comune in Basilicata, racchiude in se l’immagine d una Italia spaccata in due, del capitalismo nazionale che si è modernizzato sulla pelle dei contadini, tramite la loro espulsione dalle terre meridionali e l’approdo nelle città industriali del nord italiano ed europeo, dove vennero accolti, novelli operai, spesso con violenza e cinismo. Ma di testi sulla «Quistione» le biblioteche sono ormai piene e non voglio certo sostituirmi agli storici che, quelli buoni, ne hanno colto i dettagli e gli aspetti più diversi. Torniamo dunque al nostro scolaro Antonio, che ci guarda dal basso, che non ha che quella maglia strappata e quegli indumenti lerci per andare a scuola. A prima vista sembra fare pena. Le scarpe, rinforzate, sono forse del padre e quella destra pare rotta dietro ma ancora passabile. La madre gli ha tagliato i capelli con le uniche forbici in loro possesso e li ha pettinati con la stessa spazzola usata per l’asino che dorme e vive con loro, trattato come un figlio, in quanto come il figlio è un mezzo di lavoro, è una condizione essenziale per la sopravvivenza. Ma a differenza dell’asino Antonio va a scuola, con una grande borsa per i libri, dono che qualche professionista caritatevole ha fatto ai genitori, oppure frutto di chissà quale servigio da questi rivolto al galantuomo di turno.
Non sappiamo se Antonio lavora prima di andare a scuola, sicuramente dopo, anche se una piccola porzione di tempo la conserva per studiare, per prendere il quaderno dalla grande borsa ed eseguire ciò che gli ha detto al mattino il maestro. Anche se la giornata è stata particolarmente dura Antonio deve aprire la borsa e prendere il quaderno perché sono la sua unica chance. Ma questo lui non lo sa, lo sanno però suo padre e sua madre, che devono portare il quintale sulle spalle, arare, zappare, ed ubbidire a qualsiasi ordine gli verrà dato dai caporali, spesso mafiosi al soldo dei padroni della terra, i quali nel frattempo stanno al circolo cittadino, parassiti come i loro avi prima di essi.
La borsa di Antonio è vecchia e un po’ rotta, certo meno dei suoi vestiti, viene infatti custodita come un bene prezioso, lontana dall’asino che potrebbe combinargli brutti scherzi. Il manico è rattoppato sempre prima che ceda definitivamente e dentro, accanto a libro e quaderno, conserva la speranza dei genitori che il figlio possa vivere un’esistenza migliore della loro, che non soffra la stessa miseria e gli stessi soprusi, che non debba spaccarsi la schiena dall’alba al tramonto. Nella borsa di Antonio c’è il rifiuto di quel lavoro infame e di quella società ancora feudale dove, come osservò Carlo Levi esule nel paese di Antonio:
il grande proprietario, che sta a Napoli, a Roma, o a Palermo, è un nemico dei contadini, non è tuttavia il maggiore né il più gravoso. Egli almeno è lontano, e non pesa quotidianamente sulla vita di tutti. Il vero nemico, quello che impedisce ogni libertà e ogni possibilità di esistenza civile ai contadini, è la piccola borghesia dei paesi. È una classe degenerata, fisicamente e moralmente: incapace di adempiere la sua funzione, e che solo vive di piccole rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale. Finché questa classe non sarà soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere il problema meridionale.
Fermiamoci un momento. Abbiamo iniziato dicendo che Notatarangelo è stato un grande fotografo, e lo ribadiamo ancora, mi perdonerete però un appunto sulla foto di Antonio senza nulla togliere al suo autore: dall’alto verso il basso la foto tradisce il soggetto! Dicevamo che sembrava far pena, è vero, ma guardiamolo in faccia, facciamo un primo piano sul suo viso e le cose cambiano, cavolo se cambiano! In quello sguardo non c’è paura o reverenza, è uno sguardo fiero, dignitoso, per nulla passivo, non è lo sguardo di uno sconfitto, anzi guarda dritto senza darsi per vinto e, dietro gli occhi fermi, sembra trasparire anche rabbia. È lo sguardo di Antonio che si appresta di li a poco a lasciare la Lucania con i suoi genitori, come prima e dopo di lui faranno molti suoi coetanei, che diventeranno operai in qualche parte di questa nostra Europa.
Ma è bene ricordare, ancora oggi che Antonio ed i suoi amici continuano ad essere dipinti come dei poveri cristi, «vinti» dal fato e dalla natura matrigna, che l’immagine potrebbe anche essere sfocata, a tratti distorta. Antonio e molti altri scolari di campagna è vero che sono stati sballottati nelle fabbriche europee, ma è ugualmente vero che hanno resistito e lottato contro la loro subordinazione al lavoro e nella società, che hanno trasformato il mondo con le loro mani permettendoci di conoscerlo per come oggi ci si presenta. Per fare un solo esempio significativo, nell’anno della foto che stiamo discutendo, nella straordinaria rivolta di Piazza Statuto, Antonio e gli altri scolari furono combattivi più che mai, pronti a riprendersi ciò che la legge del plusvalore gli estorceva quotidianamente. Non è un caso se in quell’occasione, come in molte altre nel lungo ventennio successivo, i due terzi degli imputati per le violenze di strada furono giovani immigrati meridionali.
Al termine della bella presentazione al libro di Notarangelo Goffredo Fofi scrive che: «chi vede queste immagini dovrà per forza pensare ai suoi avi, da cui quasi tutti proveniamo nonostante si faccia di tutto per dimenticarcelo. Dovrà constatare, fuori da ogni vagheggiamento estetizzante e di nuova ipocrisia, la loro dignità tanto maggiore di quella di noi tutti, qui ed oggi, nell’Italia smemorata in cui viviamo. Che è corrotta e bastarda anche e soprattutto perché smemorata». Ancor più oggi, che la mancanza di memoria istituzionalmente sospinta erge barriere fisiche e mentali contro poveri migranti che arrivano dal mare, gli occhi di Antonio scrutano la nostra corruzione e ci dicono che anche questo odierno è un mondo vecchio e che, come nel secolo scorso, nuovi scolari delle campagne povere del pianeta stanno attrezzandosi per trasformarlo radicalmente.
Questo testo è stato pubblicato su Elia Panzarella (a cura di), La Basilicata com’era, Archivio Storico fotografico della Calabria, 2019.
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