Effetto blu
Intensità e variazioni politiche dell'immagine
Eravamo sul finire dell’Ottocento, in oscillazione ambigua tra materia inanimata e vitalità autonoma delle immagini, quando tra i Frammenti sull’espressione, Aby Warburg ha scritto Tu vivi, eppure non mi fai niente. La cattività dell’immagine, dunque, che quando espone la propria vita, rischia di essere prudentemente controllata e disarmata, ricondotta all’ordinaria abitudine dei nostri sguardi. Ma una potenza rompe, di tanto in tanto, il potere mortifero dello sguardo e della sua neutralizzazione iconica. Nella fotografia impossibile di un’immunizzazione, in questi giorni, qualcosa di nuovo si muove tra le immagini. E questo movimento trova la propria voce nel territorio in cui il discorso su immagini, potere, desiderio non riflette i condizionamenti a cui siamo sottoposti dalle innumerevoli e pericolose gabbie ottico-politiche la cui circolazione continua, soffocando il nostro pensiero e le nostre resistenze.
Questo lo spazio della cura in quanto sistema ecologico in cui a dominare non è il punto di vista chiuso dello sguardo ospedalizzante o medico che è escludente rispetto alla rete relazionale riguardante le politiche di ogni immagine. Film blu era il titolo e l’immagine del primo capitolo della trilogia che Krzystof Kieslowki ha dedicato ai tre colori della bandiera francese. Blu l’immagine iniziale, bluastro il terreno e la macchina in cui Julie, la protagonista, perde gli affetti e la propria vita. Blu la condizione semi-permanente di blocco di qualsiasi attività – l’amore, gli affetti, le emozioni, il lavoro – che rinchiude la sopravvivenza di una donna al suo stesso dolore. Blu l’acqua, elemento miracoloso, di rinascita e di riconnessione profonda tra noi e il mondo. Una punta di blu per sentire il mondo e incidere con tutto quello che interessa e ci interessa, da vicino. Immagine blu abbastanza sistemica. La potenza del blu, delle immagini in blu del cineasta polacco conosce le tonalizzazioni che operano nelle immagini-cocci sul muro caduto, a Berlino. È il blu della DDR, del Cielo sopra Berlino di Wenders la cui diplopia di sguardo accoglie i polverosi cantieri della città fino alla fitte foreste del Brandeburgo. Blu come romanticismo tedesco, ci verrebbe da guardare, in cui la solitudine – di tutto e di tutti – è un momento ad apertura temporale larga, parte di una storia ricostruita dalle immagini.
È un altro blu quello che vediamo nelle immagini – scorrono in lungo piano sequenza, circolano come inquadrature senza film, somigliano a delle fotografie senza materiale di supporto – dell’indulgenza plenaria di Papa Francesco. Immagini per le quali o sulle quali numerose parole sono state dette, affiancate a commento didascalico o interrogate a partire da sviste, dubbi, domande. Sotto gli occhi di tutti, un effetto sorpresa spesso tradotto in riflessioni più o meno concertate sul ruolo delle immagini in contesti di cambiamento epocale. A riguardarci gli effetti del blu, effetti senza causa originaria secondo i quali le parole non devono spiegare o svolgere nessuna storia già scritta. Le parole, in questo caso, conoscono strade se non d’altra natura perlomeno divergenti rispetto a quelle legate a decenni di iconologia prescrittiva neoliberale. Un insieme complicato di processi preventivi e disciplinanti dello sguardo – in nome dell’autore, del montaggio, della comunicazione – viene progressivamente eroso da nuovi modi di concatenamento delle immagini in cui sembra che siano queste ultime, a chiederci, di essere viste più che guardate. Un cambiamento del blu – del cielo piovoso romano, dei lievi rumori di fondo, della solitudine del papa in bianco e in preghiera in un’atmosfera talmente surreale da essere vera – che lascia spalancato l’ingresso del reale nell’immagine stessa. La solitudine del reale, potremo forse azzardare.
Senz’altro, nell’ambito delle politiche dell’immagine, la solitudine nuova della malattia che riceve quella che Susan Sontag avrebbe definito splendidamente come una cittadinanza più onerosa. Un testo, Malattia come metafora, che andrebbe letto in questi giorni in cui, come il cielo bluastro che incombe sulle nostre teste, si annidano le parole di un immaginario colpevolizzante fatto di metafore che sono le ancelle rinnovate e nascoste del potere. Quello regolativo della vita delle persone, fondato sulla paura e meno sul lato notturno di ogni vita, che, è sempre fuori metafora. All’inizio dell’altro mondo nuovo, l’agente di Alphaville Lemmy Caution, ormai invecchiato, tornava per la prima volta nelle strade di Berlino: poche missioni o azioni risolutive da compiere, poche imprese, piuttosto fare da cassa di risonanza della solitudine di una nazione. E della solitudine di tutte le immagini – quelle godardiane, liberate dalla tirannia delle parole – che attraversano lo spettacolo capitalistico moderno.
La dimensione politica delle immagini non rappresenta un passaggio dalla finzione alla realtà: ha quindi ragione Rancière, ne Lo spettatore emancipato, a identificare la nostra costruzione della realtà come l’oggetto della finzione. Se la finzione dominante maschera la propria natura per esporsi immediatamente come realtà, è attraverso l’esperienza di uno sguardo critico che si può creare un comune senso polemico, capace cioè di aprire nuovi orizzonti di senso. Non si tratta di essere i passivi registratori visivi di questo spettacolo ma di operare, selezionare, comparare nuovi processi in cui le immagini non sono antropomorfizzate, non sono i serbatoi di umane, troppo umane attribuzioni di senso. E di nuovo, con Rancière, in questo preciso momento storico di rottura, le immagini non vogliono proprio nulla, neanche che si attribuisca loro una legittimità di vita. Vogliono essere lasciate in pace, le immagini. Non vogliono essere le immagini di giorni di guerra.
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