Logica del preludio

Su godimento, valore d'uso e avvenire

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Carmelo Romeo, Manifesto del Partito Comunista - per Germinale alla Mana Art Market (1972).

Tu venne da Me-Ti e disse: – Io voglio partecipare alla lotta delle classi. Ammaestrami. – Me-ti disse: – Siediti-. Tu si sedette e chiese: – Come devo combattere? – Me-ti rise e disse: – Stai seduto bene? – Non so, – disse Tu stupito, – in che altro modo dovrei sedermi? – Me-ti glielo spiegò. – Ma – disse Tu impazientemente, – io non sono venuto per imparare a stare seduto. – Lo so, vuoi imparare a combattere, – disse Me-ti pazientemente, – ma per far questo devi star seduto bene, perché adesso per l’appunto stiamo seduti e vogliamo studiare seduti -. Tu disse: – «Se si aspira sempre ad assumere la posizione migliore e a tirare fuori il meglio da quel che c’è, insomma, se si aspira al godimento, come si fa allora a combattere?» Il maestro replica: «Se non si aspira al godimento, non si vuole tirar fuori il meglio da quel che c’è e non si vuole assumere la posizione migliore, perché allora si dovrebbe combattere?»
Bertolt Brecht, Me-Ti Il Libro delle svolte (p. 182)

Come riappropriare il presente come territorio di godimento, che è preludio e avamposto di un pensiero rivoluzionario e di un’azione emancipata dall’aspettativa del proprio futuro 

Brecht, o più precisamente il saggio Me-Ti da lui ideato, pone qui una questione cruciale per il presente: come riconoscere il godimento come forza rivoluzionaria, come riconoscere e intensificare il presente come habitat di una forza di godimento, che sola può sostenere il desiderio di un avvenire – e con esso la fatica e la persistenza di una lotta per un diverso avvenire. Come riappropriare il presente come territorio di godimento, che è preludio e avamposto di un pensiero rivoluzionario e di un’azione emancipata dall’aspettativa del proprio futuro.

Tale questione appare centrale nella biopolitica contemporanea: in quel presente in cui all’operare è sottratta una durata, schiacciato in una proiezione verso il futuro (il futuro del valore, della retribuzione, della crisi, della vulnerabilità) e il passato colmo di altri frammenti di presente mai «realizzati»: frammenti di lavoro mai attualizzatosi in valore, mai guadagnatosi il diritto a una continuità produttiva, esistenziale, come il lavoro preparatorio di tanti progetti che mai si realizzano, sospeso come in un incantesimo in una condizione di eterna preliminarietà. Un presente in cui il momento in cui possiamo degnamente definirci dei «produttori» è continuamente posticipato, in una logica che costantemente dilata il futuro come orizzonte di possibile realizzazione e al contempo congela nel presente la gioia che dovrebbe essere al cuore di ogni forma di produzione.

Il presente è così schiacciato tra la rincorsa di questo futuro e un passato gonfio di rivoluzioni mai realizzate, eppure sempre potenziali 

Il presente è così schiacciato tra la rincorsa di questo futuro e un passato gonfio di rivoluzioni mai realizzate, eppure latenti, sempre potenziali, se ci poniamo nella posizione giusta per stare in ascolto. In questo presente in cui l’attività umana è da un lato sussunta in anticipo come potenziale valore di scambio e al contempo privata del respiro necessario a riconoscersi come autopoiesis, per immaginare una rivoluzione è necessario riappropriarsi del godimento di imparare, quantomeno, a immaginarsi una rivoluzione – e nel far questo, uscire dall’eterna anticamera in cui il presente tiene ogni agire prigioniero. Per immaginare altri tempi, altri modi di produzione, è necessario concentrarsi su quel che muove, dalla posizione in cui siamo, il desiderio di produrre: una produzione non soltanto economica, ma sociale, affettiva, politica, poiché ogni forma di produzione è al suo cuore trasformazione di materia creativa: è produzione e prolungamento di un mondo.

La logica del preludio irride la struttura di valorizzazione intrinsica all’idea di opera completa. Il valore del preludio, in principio, è il suo «uso» come anticipazione, è il suo misurare un emergere e avanzare di un cristallo di materia creativa

Voglio proporre di rivendicare per il presente la logica intrinseca alla temporalità del preludio: pensare al preludio come una forma di resistenza attuata proprio a partire dal modo di produzione continuamente frammentato, che il neoliberalismo impone sul lavoro del presente, ponendo il futuro come perennemente possibile e raramente attualizzato come prassi. Come un preludio, il presente può riconfigurarsi come un tempo proiettato verso il futuro, ma al contempo autonomo rispetto al suo svolgersi: il preludio, infatti, già dal XVII secolo ha sabotato la struttura parassitaria a cui originariamente la sua funzione lo riduceva in musica ed è divenuto misura autonoma rispetto all’opera completa. Annuncia una continuità, ma allarga lo spazio di cominciamento del presente; introduce i principali strumenti di una sinfonia, ma non ne compie lo sviluppo. Così facendo, la forma preludio ha acquisito uno stato autonomo, ad esempio nei pezzi per piano di Bach, Chopin, Debussy, Rachmaninov: è eseguito spesso da solo, come focalizzazione di una promessa che non ha bisogno di uno svolgimento per acquisire valore. La logica del preludio irride la struttura di valorizzazione intrinsica all’idea di opera completa: ne occupa surretiziamente la temporalità progressiva, senza attuarla. Il valore del preludio, in principio, è il suo «uso» come anticipazione, è il suo misurare un emergere e avanzare di un cristallo di materia creativa.

È questa logica di cui il presente ha bisogno: la riappropriazione di un tempo di inizio che ospita però la possibilità di una lunga durata; un tempo che non si sottrae al futuro, ma porta anche in seno la capacità di costruire nuovi inizi. Un tempo che custodisce il valore d’uso di un’azione emancipata dal proprio svolgersi, eppure capace di memoria, di apprendimento, di godimento.

Il preludio prefigura l’avvenire come e attraverso un intenso stato di godimento: è l’opera di Fourier, scritta in un periodo di quattro mesi tra il 1803 e il 1804 in cui l’autore attendeva di andare a occupare una posizione che gli era stata promessa e decise di trascorrere il suo tempo cercando un modo per rendere gli uomini felici. Non con l’aspettativa di ottenere alcun risultato pratico, pare, ma per un puro jeu d’esprit 1. E in questo tempo immaginò un sistema di relazioni tra gli uomini in cui il godimento sarebbe stato smisurato; un sistema in cui il godimento non avrebbe avuto misura: in altre parole, un sistema in cui il godimento sarebbe stato esso stesso misura. E non a caso, sembrerebbe, nell’opera di Fourier questo pensiero si sviluppò attraverso una delicata danza di Prolégomènes, Préambule, Intermède, Cislégomènes, Extroduction, Arrière-propos, Antienne, Cis-Médiante, Trans-Mediante, Intra-pause, Cis-Laude, Ulter-pause, Ultraloguse, Ultienne, Postienne, Post-ambule.

Il preludio è un’attualizzazione intermittente di un orizzonte del possibile. È l’opera che occupa surrettiziamente la durata del capitalismo (la sua temporalità progettuale, la sua trasformazione dell’uso in eventualità di scambio, la violenza delle sue crisi e dei suoi confini) e costituisce una zona temporale momentaneamente autonoma per l’immaginazione di una gioia possibile: è l’opera che abita e stabilisce, per così dire, un fuso orario autonomo, sottratto alla logica dell’agonia, che vorrebbe il presente una perenne e progressiva caduta verso la morte (che alternativamente viene chiamata confine, disoccupazione, bancarotta ed esclusione da sistemi economici maggioritari, avvento della guerra – come se la guerra non fosse già ovunque attorno a noi). In un preludio, il lavoro del presente e l’immaginazione del futuro si danno come auto-poiesis, disobbedendo a una logica di valorizzazione progressiva. Operano una trazione verso il futuro, estendendo la durata di un inizio non misurato rispetto al compiersi di un’azione: aprono una posizione per il godimento come materia creativa su cui una polis può costituirsi, su cui una misura differente può essere inventata.

Può considerarsi un preludio la canzone di protesta Ludiata Nangwi scritta nel 1968 da Joseph M’Belolo Ya M’Piku, situazionista congolese rimasto a lungo figura marginale nelle principali storie del situazionismo, e donata all’amico Raoul Vaneigem come omaggio e appassionato contributo a una lotta rivoluzionaria a cui, in quell’anno, Parigi aveva dato corpo in primo luogo come immagine ed esperienza di godimento, prima e al di là di una concreta possibilità di attualizzazione, prima e al di là del futuro in cui la radicalità del movimento situazionista venisse in gran parte cannibalizzata dalla società dello spettacolo che era al cuore della sua critica. Il testo della canzone ritrovato pochi anni fa da Vincent Meessen negli archivi di Raoul Vaneigem, imparato di nuovo e cantato da Joseph M’Belolo Ya M’Piku nel video One. Two.Three, risuona oggi nel video di Meessen, presentato per la prima volta nel padiglione belga della 56 Biennale di Venezia, amplificando dal cuore del mercato dell’arte contemporanea una potenza sovversiva, quantomeno in termini di gioia.

Nel video Joseph M’Belolo Ya M’Piku canta la sua canzone, che aveva dimenticato, nel mentre un gruppo di musiciste congolesi accorda i propri strumenti per trovare un tono comune per la melodia che suoneranno alla fine, nei corridoi del club Un Deux Trois di Kinshasa, un tempo casa dell’OK Jazz orchestra di Franco Luambo – un luogo che ospita una storia complessa, ambigua e stratificata, che sembra portare addosso le eco di altre rumba, eco di altre rivoluzioni – se stiamo in ascolto. La canzone racconta che «il potere è schiavitù», che «è la stessa battaglia che stiamo combattendo», che «tutti i problemi vengono dall’attesa». Fuori dal club, nuove rivolte popolari infiammano Kinshasa oggi e colorano di nuvole rosa le strade circostanti all’edificio.

Non è un caso che le canzoni partigiane abbiano spesso la struttura ciclica di una ninna nanna: sostengono l’azione e allo stesso tempo curano le sue ferite del passato, proiettando il ritmo verso una rivoluzione che, nel tempo del canto, è sempre ancora a venire 

Il preludio costruisce una posizione per l’immaginazione, in cui il godimento non solo sostiene, ma fonda e sviluppa un pensiero di emancipazione: il godimento di una canzone, la capacità di soffermarsi sulle sue parole, di fare una sosta sul suo ritmo forte e gentile, di sperimentare un operare dimentico del suo volgersi in futuro. Non è un caso che le canzoni partigiane, come i canti di rivolta del Maggio 1968, abbiano spesso la struttura ciclica di una ninna nanna: sostengono l’azione e allo stesso tempo curano le sue ferite del passato, proiettando il ritmo verso una rivoluzione che, nel tempo del canto, è sempre ancora a venire, non finirà con la fine della canzone, continuerà come ritmo, come una ninna nanna che conduce verso il sonno senza però postulare una sequenza progressiva.

Il preludio apre una posizione di godimento nella linea del tempo. Nel far questo, anticipa l’avvenire, perché gli consente di accedere a un’immaginazione, a un ritmo, a una durata. Perché consente al godimento, nel presente, di farsi misura di una vita possibile, di una rivoluzione possibile.

La logica del preludio è quella che resiste all’agonia del presente, restituendo all’avvenire la leggerezza del suo divenire, liberando l’agire dal futuro che intossica la temporalità del lavoro. È una logica che reclama il valore d’uso dell’avvenire – e la sua autonomia. In fondo l’avvenire, scriveva Gaston Bachelard, «non è che un preludio, una frase musicale che avanza. Una sola frase. Il Mondo si prolunga con una preparazione assai breve. Nella sinfonia che si crea, l’avvenire è assicurato solo da qualche battuta»2.

Note

Note
1Charles-M. Limousin, Le Fouriérisme, Paris 1898, p. 3.
2Gaston Bachelard, L’intuizione dell’istante – la psicoanalisi del fuoco, Edizioni Dedalo, Bari 1973, p. 68

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