Quando laviamo i piatti?

Luciano Nanni vs Umberto Eco. Breve storia di una diatriba estetologica

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Assemblea al Dams di Bologna.

Il contesto del DAMS

Quest’anno ricorre il cinquantenario dello storico Dams di Bologna, fondato da un’idea del grecista Benedetto Marzullo. Nel corso di Laurea di Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo insegnarono docenti come Piero Camporesi, Renato Barilli, Furio Colombo, Umberto Eco, Ugo Volli, Giuliano Scabia, Gianni Celati, Luciano Anceschi, Ezio Raimondi, Tomás Maldonado, Paolo Fabbri, Luigi Squarzina, Luciano Nanni, Omar Calabrese, Lamberto Pignotti, ecc. Non si trattava solo di un corso di laurea come tanti, ma rappresentava gli assi cartesiani delle dinamiche culturali del tempo. La metafora militare dell’avanguardia ben si attagliava a quel corso di studi innestato nella vita reale della materia artistica stricto sensu.

Nell’ottobre del 1983 arrivai in una Bologna ancora ferita a morte dall’esplosione del 1980 alla stazione ferroviaria della città. A giugno era morta la giovane e brillante critica d’arte Francesca Alinovi, barbaramente uccisa. Il clima culturale di Bologna, in quegli anni, era intriso di stimoli di ogni genere. Ero un osservatore dal basso, un cultore curioso della macchina del vedere, un notaio di tracce espressive colte nella loro molteplice e spaesante immanenza. Le prime lezioni furono folgoranti e, sin da subito, entrai – come tutti – dentro le spire di una trascinante disputa intellettuale sul tema dell’identità dell’opera d’arte. Protagonisti di questa vexata quaestio erano due professori: Luciano Nanni, docente di estetica, e Umberto Eco, docente di semiotica.

La reliquia e il paradosso del piatto non lavato

Proprio in questi giorni è uscito un librettino – no profit – di Luciano Nanni, intitolato «Come e perché consigliai a Eco e sodali di lavare i piatti», pubblicato da Modo Infoshop, Bologna. Il testo riassume in breve, e con intensità, la storica querelle tra Nanni ed Eco. Si tratta di un libro-reliquia che bisognerebbe mettere in un ostensorio aspettando che ogni anno riveli di sé un suo qualche livello di significato, sotto forma liquida e non digitale.

Io rimproveravo a Eco e sodali – scrive Nanni – diciamo cosi, di non lavare i piatti. Di mangiare il secondo nello stesso piatto in cui avevano mangiato il primo senza lavarlo, con il risultato di malamente confondere la realtà dei due sapori. In altre parole, dopo aver correttamente costruita una rete semiologica teorica e averla immersa nella comunicazione quotidiana per evidenziare le modalità di formazione e di vita dei segni della nostra comunicazione pratica, nella nostra comunicazione di tutti i giorni, la immergevano di nuovo, senza svuotarla di quanto trovato, nella vita dell’arte con il risultato di constatare che la vita dei segni nell’arte si presentava anomala, impastata appunto con la logica della comunicazione pratica.

Tutto cominciò, ufficialmente, nel 1977 allorché Luciano Anceschi aveva indetto un convegno intitolato Perché continuiamo a fare e insegnare arte. Uno dei relatori, Umberto Eco, attirò la pericolosa e fervida lama mentale di Luciano Nanni. Questi non ebbe il tempo di intervenire perché l’Aula Magna della Pinacoteca in via Belle Arti di Bologna doveva chiudere. Eco invitò Nanni a scrivere un saggio su ciò che avrebbe detto quella sera (senza esserci riuscito) e a mandarglielo per la rivista «Versus». Quel saggetto divenne un testo di circa 350 pagine che poi fu pubblicato, nel 1980, dall’editore Garzanti, col titolo «Per una nuova semiologia dell’arte». Il libro mette radicalmente in evidenza certi intoppi dell’estetica linguistico-semiologica di Roman Jakobson e dello stesso Eco. Il bersaglio era, soprattutto, la parte 3.7 del «Trattato di semiotica generale di Eco». Successivamente Nanni pubblica, sugli stessi argomenti, ma con apertura a problematiche più ampie, «Contra dogmaticos» (Cappelli, 1987), «Tesi di Estetica» (Book editore, 1991), «I cosmi, il metodo: diario d’arte e di epistemologia» (Book editore, 1994) , «Il silenzio di Ermes» (Meltemi, 2002), ecc. La polemica si accese nuovamente con «Tesi di Estetica», libro con il quale Nanni risponde alle critiche che gli vengono mosse da Eco ne «I limiti dell’interpretazione», testo del 1990. In questo volume, Eco organizza, in un capitolo dedicato a Nanni, un’affrettata serie di appunti letti nel 1981 alla biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, in occasione della presentazione del volume di Nanni «Per una nuova semiologia dell’arte». Ma quali erano (e sono ancora!) le ragioni del contendere?

Luciano Nanni durante una lezione al Dams di Bologna, 13 Dicembre 1984.

Il tema è: come si determina l’identità artistica di un’opera? La domanda se la sono posta in parecchi nel Novecento e anche dopo la boa del XXI secolo. Ma restiamo nel Novecento. Tra gli altri, questa domanda se l’è posta anche Roman Jakobson in «Linguistica e Poetica». Eco ha lavorato nella sua stessa direzione, arrivando a proporre quella che possiamo chiamare, toccando il nucleo duro della discussione, teoria (o, come scrive Nanni pseudo-teoria) dell’«idioletto estetico» o «testuale» che dir si voglia («codice privato di un solo parlante»), sul quale si abbattono le meteore epistemologiche di Nanni. Codice imprendibile, per Eco, e appannaggio esclusivo dell’autore che lo genera.

Il lavoro ermeneutico è, così, impostato sulla strada della ricerca di quell’«idioletto estetico» che, data la sua imprendibilità, è avvicinabile solo per «approssimazione infinita». Per dargli la caccia si utilizza, allora, il sistema interpretativo della semiotica che, accuratamente, è in grado di renderci il corpo dell’opera nei suoi elementi costitutivi. Il problema è che, purtroppo, le certezze semiologiche, pur nella loro plurale meticolosità conoscitiva, da sole non ci conducono alle plurali verità di un’opera, ma soltanto (ed è più che legittimo) ad una sua descrizione semiologica. La causa dell’identità artistica di un’opera viene, in tal modo, ricercata all’interno della medesima.

A fare, quindi, di un messaggio (di qualcosa già acquisito con lo statuto del segno e allora da decodificare) un’opera d’arte è per Eco, come per Jakobson, qualcosa che ha a che vedere con la struttura dell’opera, con la sua organizzazione linguistico-semiotica, con le qualità che la costituiscono, con i nodi idiolettali per scegliere i quali bisogna far riferimento al pettine sfuggente dell’autore. Più ci si avvicina al funzionamento di tali nodi (che si presuppongono inconoscibili) e più si è prossimi alla verità. Non si capisce, comunque, come ci si possa avvicinare a qualcosa di cui non si conoscono, né è possibile conoscere (salvo confessione dell’Autore riguardo al suo privatissimo codice da decriptare), le coordinate geografiche. L’idea, data per certa, che l’opera d’arte debba essere considerata un messaggio, alla stregua di qualsiasi atto comunicativo, sul quale accanirsi nell’interpretazione seguendo il canale privilegiato dell’indagine sull’«idioletto estetico», non soddisfaceva nel 1980 e continua a non soddisfare Luciano Nanni che propose allora, e riconferma oggi, una soluzione non ideologica.

Tre idioletti al posto di uno e la questione delle due «langue».

Nanni cancella l’idioletto estetico di Eco sostituendolo con tre idioletti: idioletto linguistico della pertinenza, idioletto critico, idioletto artistico. Tutti e tre all’esterno dell’opera e coincidenti con i livelli culturali di approccio all’opera. Il primo è lo stile linguistico con cui la pertinenza (il saggio critico) viene redatta. Il secondo è il punto di vista (il paradigma) presupposto alla pertinenza: attraverso diversi paradigmi ovvero idioletti critici (psicoanalitico, antropologico, ecc.) si possono dare diverse letture di un’opera. Con ciò non si postula il fatto, dice Nanni, che la critica possa fare tutto quello che vuole con l’opera, ma solo quello che può. Da un lato, perché i paradigmi culturali utilizzati dalla critica, inconsciamente, producono ciò che si dice e ne attivano il controllo: si fa parlare l’opera, ma solo attraverso le coordinate e indicazioni del paradigma stesso. Dall’altro, perché l’opera si nega (tramite, dice Nanni, il suo «non-corpo-reale») ai paradigmi (alle chiavi di lettura) che non le sono congrui. Essa non si lascia interpretare in qualsiasi modo, ma secondo i modi della propria realtà.

Il terzo idioletto (quello artistico) coincide con quella grammatica culturale che mette in moto e legittima i due idioletti precedenti, facendo sì che un’opera d’arte che è fatta di segni («oggetto storico» in senso prietiano) funzioni come se non fosse fatta di segni («oggetto materiale» sempre in senso prietiano). Grazie a quest’idioletto un’opera diviene interpretabile (si attiva una diversa pluralità di significati). L’idioletto artistico (o convenzione culturale) regola, in pratica, la vita sociale di un’opera. In campo politico, sostiene Nanni, gli idioletti critici avrebbero, volendo, i loro equivalenti nelle diverse (di)visioni che i partiti hanno (avevano!) del mondo. L’opera d’arte, per essere più chiari, diviene messaggio per Nanni solo attraverso l’interpretazione, e non prima. Da qui l’indecidibilità in sé dell’opera d’arte: decidibile solo, di volta in volta, dalle intenzioni interpretative di ognuno. Esistono, insomma, per Nanni due «langue»: quella della comunicazione tout-court, e quella specifica dell’arte con funzionamenti diversi. Non si possono applicare all’arte i modelli interpretativi appartenenti alla «langue» della comunicazione. Da qui l’idea – come da titolo del libretto in parola – che bisogna cambiare piatto quando si cambia portata («langue»).

I linguisti e i semiologi sbagliano, dice Nanni, a considerare il mondo dei segni come abitato da una sola ed inesaustiva (rispetto all’arte) «langue»: non si può spiegare l’arte attraverso quegli sterili stratagemmi che Popper chiama «meccanismi ad hoc». Meccanismi dai quali Eco non è immune. Secondo Nanni, in Eco il problema dell’identità artistica di un’opera non viene risolto scientificamente. Per Eco l’ambiguità di un’opera sarebbe la cifra qualitativa da esplorare, in opposizione al disordine semiosico, per produrne l’identità artistica. In più, presuppone che tale ambiguità linguistica faccia da traino alla plurale possibilità di lettura del «testo estetico», in una parola alla polisemia. Nanni sostiene, invece, che l’ambiguità estetica e quella linguistica non necessariamente sono legate. La polisemia (l’ambiguità estetica nei termini di Eco) può vivere e vive anche in testi linguisticamente chiarissimi (si pensi, ad esempio, ai Promessi sposi, ecc.).

L’opera d’arte come Zemrude

L’opera d’arte, intesa come non-segno, dice Nanni, è come la città calviniana di Zemrude: a seconda di chi la guarda, assume un’identità, e le identità possono essere a numero indefinito. Che è come dire che l’opera d’arte non è ambigua, ma, quando la si guarda, è chiarissima. Ad ogni paradigma critico corrisponde uno svelamento dell’opera, ma non in quanto oscura. Si tratta piuttosto, se vogliamo, di un invaghimento; inteso come un passare dal vago a una specializzazione del vago, a una sua espressione particolare, a un vago che si fissa in un desiderio (interpretativo).

L’opera d’arte, quindi, che nasce come un oggetto semiosico o segno («oggetto storico»), funziona oggi alla conoscenza come se fosse un oggetto a-semiosico («oggetto materiale»). Questo il teorema conclusivo di Nanni, retto da una convenzione operativa (quell’idioletto artistico) di cui si è detto. Ed è tale convenzione a determinare «l’uso artistico di un’opera». A partire dal suddetto «come se», le strade di Nanni e di Eco si allontanano senza possibilità di congiunzione. Per Eco rimane la strategia dell’idioletto estetico a controllare il funzionamento dell’opera d’arte. Per Nanni, invece, rimane l’idioletto artistico a garantire l’indecidibilità in sé dell’opera, mettendo in moto quella polisemia sincronica (quella diacronica è fisiologica) valida per l’oggi e probabilmente cancellata domani. Ma, intanto, nell’oggi in cui siamo immersi, una tale posizione ci offre gli strumenti per nuotare, attaccati alla zattera dell’epistemologia, in qual mare di dogmi e di ideologie che spesso si nascondono dietro una patina di scientificità. Non era meglio lavare i piatti subito?

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