Malvasia dell’immaginazione

Il migliore, tra gli assaggi possibili

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Donghai Li, MAAM - Museo dell'Altro e dell'Altrove.

Stare sotto il vulcano. Guardare i suoi fianchi ricamati dalle cicatrici profonde dei terrazzamenti che arrivano fino a quota 700. «Là ci stavano i fichi, li raccoglievamo a ottobre. Li seccavamo. Negli inverni tante volte la cena era pane e fichi secchi».

Che colore, che consistenza e che sapore avranno avuto quei fichi, cresciuti poco più sotto di 200 metri dalla cima della montagna? Ossia del vulcano, che non si nomina mai. È la montagna o, per i più scarni di parole, semplicemente iddu. Questa potente incombenza non ha bisogno di specifiche. La specifica viene anzi tenuta lontana, la presenza è già in ogni istante. Il faro del Mediterraneo, oggi come duemila anni fa quando i greci ne restarono folgorati, a intervalli assolutamente irregolari, che durano anche mesi interi, getta nel cielo poderosi mazzi di lapilli di un arancione rovente. Se non si vedono, si sentono. La montagna si schiarisce la gola, scatarra, tossisce. Canta melodie post minimaliste e indecifrabili. Fa cadere acquerugiole di sabbia nera che coprono le tavole apparecchiate nel patio. Ma sputa anche altro, che ti arriva addosso e non sai. Capita ogni anno che ogni tot ci sia qualcuno che mette il piede sul molo di Scari, scendendo dall’aliscafo, e dopo 40 secondi si giri e decida di imbarcarsi nuovamente.

Io, ogni anno, e questo è il sesto dal primo incontro, cerco l’ultima Malvasia di Stromboli.

Qui se ne produceva a iosa. Ma non erano produzioni quantitative. In totale e benedetta assenza di disciplinari di produzione, durante l’Ottocento e fino ai primi del Novecento la Malvasia di Stromboli, si produceva con maniacale cura. «L’isola era tutta una vigna, dalla montagna fino al mare». Il suo colore scuro era frutto di estremi appassimenti al sole («anche 40 giorni») e dei pigmenti del corinto nero. Era un passito scuro e minaccioso, il cui assaggio incuteva necessario rispetto. Non un vino da tutti i giorni. Viaggiava l’Europa dei signori e allora piaceva così, coi suoi scrigni di noce, miele, albicocca secca, fico secco dovuti al lungo appassimento. Oggi enologi e sommellier lo espellerebbero dai contesti wine spectator dicendo che il sole e i giorni uccidono il terroir. Infatti la Malvasia delle Lipari, che una decina di piccoli produttori ancora oggi continuano a produrre, e che imbottigliano (cosa che Cusolito coi suoi 200 litri non fa), sta via via cambiando aspetto e profilo aromatico.

L’eccellenza, che resta la punta di diamante del piacere e va perciò cocciutamente perseguita, dovrebbe essere quantomeno libera di seguire strade fuori dalle cartografie ufficiali 

I maîtres à boire dicono che troppo sole e troppo tempo uccidono il potenziale odoroso del futuro passito. Lo appiattiscono e lo fanno uguale ai passiti nel resto del mondo. Lo scrivono, lo applicano assegnando punteggi. Sono stufi, dicono, di passiti tutti uguali. E così i produttori eoliani, mano a mano, mutano la Malvasia. La fanno più chiara, magari togliendo del tutto il corinto nero. La appassiscono per tempi più brevi, anche una sola settimana. Fanno bei passiti, è vero. Sono vini eleganti, con una fresca acidità e profumi di fiori e frutta fresca. Qualcuno eccelle. Bene. I gamberirossi approvano. Alcuni piacciono anche a me. Eccome. Ma a prescindere, scusate, cosa resta? Dove sta l’omologazione tanto aborrita? Nella prassi sedimentata per decenni in un territorio, misurata con le condizioni isolane, con centinaia di prove ed errori o nelle ricette alloctone che cercano la purezza dell’autoctonia, imponendone l’esternalizzazione affidata alla santa sapienza enologica? Difficile (o troppo facile) la risposta.

L’eccellenza, che resta la punta di diamante del piacere e va perciò cocciutamente perseguita, dovrebbe essere quantomeno libera di seguire strade fuori dalle cartografie ufficiali. È questa la ragione per cui, ogni anno la Malvasia di Salvatore Cusolito devo sentirla. Devo andare da lui, sedermi, farmi pungere dalle zanzare e perdermi ad ascoltarlo.

I difetti sono senza danno alla gioia della ricerca 

Tasto, nell’assaggio, non tanto il difetto dell’annata. Almeno un difetto tecnico c’è sempre, senza sbaglio enologico, assente per forza in una cantina in cui l’enologia è espulsa, e l’igiene anche. Ma i difetti sono senza danno alla gioia della ricerca. Io, in fondo, cerco solo il suggerimento. Questo goccio d’oro è un’isola che immagina, desidera e fa toccare (il naso e la lingua toccano alla perfezione) un pezzo di futuro. Bisogna scarnificarla, nel passaggio tra la lingua, il palato e la gola. Bisogna dissolverla e oleogrammarla.

Oggi è la Malvasia dell’immaginazione. Il migliore, tra gli assaggi possibili 

Le terrazze sono invase dai canneti, ma Vince ha pulito due ettari di terra e tre anni fa ci ha impiantato barbatelle di Malvasia. Vince è Vincenzo, il primo figlio di Eugenia e Salvatore, nato a Melbourne, battezzato con il nome del patrono di Stromboli ma subito rinominato all’inglese. E inglese è rimasto, una volta tornato all’isola, il suo nome pronunciato con l’inflessione più calabra che sicula che hanno gli strombolani nel parlare, e Vince diventa Vinze. Quella Malvasia di Vinze la aspetto. La aspetto. L’anno scorso le piccole viti si erano ammalate. Le foglie martoriate da bolle pelose, una scabbia vegetale non identificata. Tremavo con lui. Poi la buriana è passata, senza ricorso a sistemici di sorta. La aspetto quella Malvasia. E ho paura. La mescolerà con quella del padre, privandoci di quell’imperfezione che lascia intatto il sogno? La farà secondo vangeli parkeriani? La farà con gli stessi difetti paterni, scambiandoli per unicità? Oppure sarà un goccio d’ambra, di corniola, di.

Oggi è la Malvasia dell’immaginazione. Il migliore, tra gli assaggi possibili.

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