Metamorfosi del populismo
Mentre, spesso a sproposito, tutti scrivono sui giornali e sul web di populismo, la letteratura critica disponibile in Italia è alquanto magra in confronto ad altri paesi, se si eccettuano i contributi specificamente volti all’analisi di fenomeni locali (Lega e M5s). Basti ricordare che non sono mai stati tradotti testi di riferimento come quelli di Canovan, Mudde, Shils, Wiles, De La Torre e lo stesso Germani (studioso pioneristico italiano del fenomeno peronista) non si può dire abbastanza valorizzato e conosciuto. Così che, mentre il populismo ottocentesco è abbastanza documentato (dai classici studi di Venturi su quello russo e di Hofstadter per quello Usa), la documentazione su quello novecentesco e sul cosiddetto neopopulismo – dal 1999 in poi, per adottare la corretta intuizione di Dussel – è carente e discontinua. Lo stesso contributo offerto sulle esperienze bolivariane da C. Formenti (La variante populista) è passato in ombra rispetto alle aspre polemiche suscitate dalla linea complessiva di quel libro. Ben venga dunque questo testo di Manuel Anselmi, Populismo. Teorie e problemi (Mondadori, 2017), che rifiutando facili demonizzazioni del polisemico fenomeno, ne sintetizza equilibratamente le principali interpretazioni e apporta con discrezione anche i risultati del suo lungo lavoro sul campo in America Latina.
A un primo capitolo dedicato a G. Germani, giusto omaggio al singolare pioniere italo-argentino degli studi in materia, e a un secondo su E. Shils, segue, nel cap. 3, l’analisi del volume Populism – Its Meanings and National Characteristics, curato da G. Ionescu ed E. Gellner nel 1969 e contenenti contributi di R. Hofstadter, A. Hennessy, A. Walicki, J. Saul, D. MacRae, P. Wiles, A. Steward, K. Minogue, P. Worsley e G. Ionescu, che consente di passare in rassegna esperienze nazionali e approcci molto diversi, in pratica di sintetizzare le più avanzate ricerche sul populismo classico, evidenziandone composizione sociale e tipologie di mentalità, nemici e proposte, strutture organizzative e identificazioni leaderistiche.
A M. Canovan è meritoriamente dedicato il cap. 4, prima esponendo in dettaglio la tassonomia del fenomeno tracciata nel suo libro capitale del 1981, poi affrontandone la più recente evoluzione (articoli e saggi del 1999 e 2005). In essa Canovan si confronta di fatto con il neopopulismo del volgere di secolo, determinato dalla crisi sociale e istituzionale della democrazia rappresentativa, cui risponde una mitizzazione della sovranità popolare e il rifiuto delle forme di intermediazione e bilanciamento. Il populismo si sviluppa così all’interno della democrazia, come sua ombra insopprimibile. Un serrato confronto con E. Laclau e Ch. Mouffe occupa l’intero cap. 5, mettendo in evidenza il loro sforzo di pervenire, al di là degli elenchi tassonomici, a un’individuazione della logica sociale profonda del populismo, sia pure con un lessico e un apparato concettuale controversi. In ogni caso è rilevante non solo l’aderenza di questo approccio alle forme più recenti e centrali del populismo, ma anche la loro capacità di accompagnare strutturalmente i movimenti neopopulisti in area bolivariana o addirittura di ispirarli in Spagna.
La complementarietà dialettica fra costituzionalismo e populismo, che emergeva già nella seconda fase degli studi della Canovan, diventa centrale nell’analisi dei neopopulismi condotta da Y. Mény e Y. Surel (cap. 6): il costituzionalismo cerca di limitare la discrezionalità del potere, il populismo punta invece sulla ricerca diretta del consenso, mediante meccanismi di overpromising e di affido a leader che si sforzano di assomigliare ai rappresentati piuttosto che agire in loro nome – due forme (acting for e standing for) comunque di rappresentanza. L’angoscia da globalizzazione e lo sradicamento inducono molti a rifugiarsi in comunità immaginarie a carattere protettivo-reattivo, che assumono di volta in volta carattere di popolo-sovrano o popolo-ethnos (due forme di populismo di destra sovranista o razzista), infine di popolo-classe (populismo di sinistra).
La seconda parte, intitolata Problemi si misura, appunto, con la terza ondata neopopulista (dopo la prima del populismo agrario ottocentesco in Russia ed Europa orientale e la seconda latino-americana degli anni Quaranta-Cinquanta del Novecento). La terza comprende non solo i sovranismi europei di destra ma anche quelli latino-americani più recenti e i progressisti di Podemos, che corrispondono alle trasformazioni degenerative dei sistemi democratici, anche nelle situazioni più avanzate. Dopo essersi soffermato sulla scivolosità delle definizioni classificatorie e l’oscillazione fra approcci evidenzianti nel populismo ideologia, strategia e stile discorsivo (approcci illuminanti ma in sostanza riduzionistici), l’autore prende in esame il neopopulismo italiano, susseguente alla crisi della cosiddetta Prima Repubblica con la svolta del 1992-1993, constatando con acutezza che «oggi l’Italia è forse l’unico contesto nel panorama internazionale in cui persistono più forze populistiche in competizione tra di loro e in cui domina una diffusa comunicazione politica caratterizzata da toni e stili populistici» (p. 59). Sotto tale profilo rientrano infatti sia la repentina ascesa del localismo padano che infligge un colpo decisivo al sistema dei partiti di massa negli anni di Tangentopoli sia la rumorosa discesa in campo telepopulista di Berlusconi nel 1994, capace di sdoganare e unificare su un modello partitico leggero le forze di destra sia infine l’esplosione webpopulista del M5s, che sin dall’inizio ha mostrato una configurazione interclassista e a-ideologica, capace di raccogliere nelle proprie fila tanto simpatizzanti della sinistra radicale quanto simpatizzanti di destra. Fenomeno unico, dato che in Spagna dal movimento degli Indignados sono uscite due formazioni differenziate: a sinistra Podemos, a destra Ciudadanos.
Inoltre, se lo schieramento berlusconiano ha finito per perdere l’impronta nativa populista, molti suoi accenti sono stati recuperati nell’esperienza comunicativa e governamentale renziana e la Lega si è evoluta da tribù nativista a partito (quasi) nazionale di tipo lepenista. La frattura del 1993-1994 ha alterato in senso populista la grammatica politica italiana con una scossa mai più recuperata e perfino il Pd renzizzato è una «risposta populista istituzionale al populismo dilagante» (p. 63). Al crollo materiale irrecuperato dei partiti della Prima Repubblica è subentrata la retorica della società civile sana contro l’establishment corrotto, non senza il peculiare privilegiamento del populismo penale o giustizialismo cui è dedicato un apposito capitolo (II, 7) e che proprio in questi giorni celebra i suoi trionfi con la manipolazione della criminalità percepita a fini di consenso di pancia.
Il cap. 5 della seconda parte segue con accuratezza l’ondata neopopulista in America Latina, da Chávez (dicembre 1998) a Lula (2002), da Morales (2005) a Correa (2006), rilevando il carattere coordinato e di governo di questi movimenti, in risposta al fallimento delle politiche neoliberali imposte dai regimi post-dittatoriali ma filo-americani degli anni Ottanta e Novanta. Essi perseguono l’inclusione politica e sociale delle classi popolari estromesse, mantenendo le strutture elettive (magari in forma rituale e plebiscitaria, come in Venezuela) e in alcuni casi estendendo significativamente i livelli di partecipazione popolare mediante nuove costituzioni. Tirando le conseguenze soprattutto da queste esperienze, Anselmi osserva che la polarizzazione comunicativa manichea propria del populismo deriva dalla polarizzazione sociale oggettiva e dalle disgregazione della classe media, primo effetto dell’iniziativa neoliberale. Rispetto a cui il populismo opera da fattore di risocializzazione, offrendo un’identità politica di cittadini a strati sociali o gruppi etnici (specialmente negli Stati andini) prima di fatto discriminati: la stessa disintermediazione opera in positivo come accorciamento dei meccanismi della governamentalità e non come omologazione totalitaria. In Europa la crisi del ceto medio si è sovrapposta all’irritazione per la deriva delle forze socialdemocratiche verso valori post-materiali e l’accettazione del neoliberalismo, aprendo un vuoto di riconoscimento in cui si sono inseriti movimenti populisti di destra e di sinistra. Questi ultimi possono costituire «un momento di grande democratizzazione al suo esordio per poi costituire un fattore di limitazione democratica nella fase istituzionalizzata» (p. 83).
Le ben calcolate distinzioni fra democrazia liberale e democrazia populista vengono rimesse in discussione dalla crisi, nelle prime, dei corpi intermedi e della moltiplicazione diffusiva del carisma plebiscitario (il multiplebiscitarismo di cui parla F. Antonelli) provocato dai nuovi media che accentuano la personalizzazione spettacolare e fanno prevalere le emozioni sulla razionalità, sostituendo il reality show e la logica divistica alla discussione parlamentare. Osserverei a tal proposito che ci troviamo nel contesto più generale di quella che B. Manin ha chiamato democrazia del pubblico, fase terminale della democrazia rappresentativa, il cui carattere elitario e aristocratico si è prima trasferito a partiti progettualiu e vettori di valori e poi a leader che entrano in sintonia con l’elettorato attraverso la manipolazione mediatica in congiunture sempre più volatili e indefinite. Insomma. sono le stesse peripezie della rappresentanza a generare una reazione populistica e, quindi, l’intreccio di quello stile nell’opposizione e nella governance, così da giustificare la conclusione dell’autore (p. 90), per cui «il populismo, più che una malattia della democrazia, deve essere visto come la manifestazione sociale della sovranità popolare in particolari condizioni di crisi del regime politico».
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