Noi, animali politici
Sullo spettro dell'animalità
Nel venire interpellato sull’accoglienza possibile per gli animali in seno al progetto rivoluzionario, Michael Hardt definisce il «noi» del comunismo una nozione intrinsecamente espansiva. Un noi non identitario, aperto alle metamorfosi del reale e al costituirsi di nuove forme di soggettività, insomma ad un radicale «divenire minoritario».
Altre specie di politica (Mimesis 2016) ruota intorno ad un’intervista a Michael Hardt sui nuovi problemi posti alla politica dalla questione animale, intervista a partire dalla quale riflettono Massimo Filippi e Marco Maurizi nei contributi che la accompagnano. Come Filippi non manca di notare nel suo saggio introduttivo, Michael Hardt e Toni Negri non hanno ancora fatto dell’antispecismo una «zampa» della rivoluzione, omettendo di rubricarlo tra le articolazioni grazie a cui il nuovo animale rivoluzionario – il millepiedi – si sposta ormai sulla terra, col suo incedere molteplice e a tratti mostruoso, agli occhi di una politica che sia rimasta bipede1.
Eppure Hardt, incalzato da Massimo Filippi, apre questo suo incontro con il pensiero animalista all’insegna dell’inclusività senza la quale il comunismo non potrebbe neanche cominciare a pensare, e grazie alla quale è spinto a ripensarsi incessantemente. Un noi che fa spazio non solo a nuovi oggetti (di cui individuare l’oppressione), ma soprattutto a nuovi soggetti (di cui riconoscere le forme di lotta).
Una radicale apertura al rinnovamento dei soggetti politici sarebbe dunque intrinseca al progetto marxista, per quanto storicamente esso sia in realtà rimasto saldamente inscritto in una cornice umanistica, oltreché decisamente poco ecologista, incapace di svincolarsi dai concetti di produzione e progresso. Ma vale la pena radicalizzare gli elementi che ne possono essere recuperati in favore di una lotta per la liberazione animale. E non parlo solo delle più ovvie inclinazioni emancipatorie volte al riscatto degli ultimi ma, più in profondità, dello spostamento del momento politico che esso effettua: dal «cuore» dell’uomo, verso l’individuazione di relazioni storicamente determinate.
La filosofia politica moderna, che fa capo ad Hobbes, fa discendere le forme della comunità umana e della sua organizzazione da una natura umana originaria: egoista (da cui l’homo homini lupus), ma razionale, capace dunque, anzi necessitata, a fondare una volta e per tutte il politico nel contratto. Il materialismo storico ci mette in guardia dalla naturalizzazione (dall’antropologizzazione in questo caso) dello Stato (di cose), e comincia a storicizzare le strutture sociali e, più radicalmente, l’umano2.
Dal momento in cui il nuovo luogo nevralgico del potere diventano le relazioni piuttosto che i soggetti, possiamo dare un nuovo colpo d’occhio sulla società transpecifica in cui viviamo: in cui le relazioni con gli animali non umani, in primis quelli «da reddito», rappresentano uno dei luoghi in cui più clamorosamente si fonda il capitale, e si annida il potere. Dalla natura politica della relazione di sfruttamento possiamo pertanto risalire a una nuova categoria di soggetti a pieno titolo politici: quella degli animali «da reddito». Oggetto dell’oppressione zootecnica, e soggetto di una resistenza incessante quanto inascoltata: non più solo «pazienti morali» di una preoccupazione etica tutta umana e ancora paternalistica, ma anche «attori politici», delle proprie stesse rivendicazioni3.
Hardt e il suo intervistatore sembrano subito sintonizzati su questo che è uno dei punti di snodo dell’operaismo, oltreché uno dei temi emergenti dell’antispecismo politico in Italia: l’antecedenza della resistenza al potere nei mutamenti della forma sociale di produzione capitalistica. La resistenza animale può essere ricollocata all’origine delle trasformazioni del capitale, inteso letteralmente come accumulazione di quella originaria merce di scambio costituita dai capi di bestiame: costituitosi sulle possibilità e rielaboratosi sulle caratteristiche di questa inconsueta categoria, impensata dalla riflessione marxiana, che sono gli animali non umani, al confine tra capitale fisso (macchina), capitale variabile (salariato) e merce.
È su questo punto della resistenza animale4 che si gioca la posta della politicità della lotta animalista. Solo se gli animali sono riconosciuti come protagonisti della propria storia, della guerra millenaria in cui sono massacrati e non smettono di dimenarsi, quello degli animali diventa per noi un problema politico oltreché etico: non esplicantesi meramente in una pietà astensionista che «risparmia», «salva» o «tutela» gli animali, ma nell’urgenza e nel rischio di una solidarietà rivoluzionaria nei confronti degli animali non umani.
Ma, si domanda Hardt, come essere solidali senza parlare a nome degli altri? Come non cadere in quello che Maurizi definisce un «ventriloquismo antropomorfo» (p. 60)? Come sciogliere questo nodo alla gola, sempre problematico e ancor di più per gli animali non umani che, pur avendo la propria voce, non si servono del logos? Se la politica ha inevitabilmente a che fare con la comunicazione e con la negoziazione di bisogni e desideri, deve anche necessariamente passare per una «messa a verbale» linguistica? Di fronte a una «relazione inumana» (p. 40) come quella a cui siamo convocati i rischi maggiori stanno nel logocentrismo, più che nell’antropomorfismo. Laddove le parole cercano di risalire verso il sentire comune da cui scaturiscono, l’antropomorfismo si scioglie in zoomorfismo: quel proliferare di forme e modi espressivi che ci accomuna in quanto viventi.
Anche in questo senso si potrebbero radicalizzare le parole con cui in conclusione Hardt si chiede se, alla luce delle sfide poste dalla questione animale, «non siano gli stessi principi politici che vadano ripensati» (p. 45). Uno strumentario nuovo per soggetti sempre nuovi, che non solo includiamo (rischiando di fagocitarli ideologicamente), ma da cui accettiamo di lasciarci trasformare, rinegoziando insieme, in un’assemblea interspecifica, il comune e il politico.
Note
↩1 | «Si può anche procedere con una gamba sola per qualche metro, ma prima o poi si rischia di cadere a faccia in giù. Nel nostro caso sono in gioco ben più che due gambe. La rivoluzione si muove come un millepiedi». Michael Hardt e Antonio Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, trad. it. di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2010, p. 340. |
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↩2 | «Il problema non è tanto sapere se la natura umana è definita dalle invarianti quanto sapere che cosa può diventare. La cosa più importante a proposito della natura umana (se vogliamo continuare a chiamarla in questo modo) è che essa è in continua trasformazione. Un’antropologia politica che voglia essere realistica deve partire da questa metamorfosi». M. Hardt e A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, cit., p. 185. |
↩3 | Così Filippi nel primo saggio: «l’insuccesso delle loro lotte non è da ascriversi a un presunto limite ontologico, ma alla sproporzione delle forze in campo e alla millenaria produzione/selezione (genetica) di corpi docili» (p. 27). |
↩4 | Cfr. https://resistenzanimale.noblogs.org |
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