Così stiamo al lavoro: sul bordo di un abisso dal quale lanciamo dadi del cui risultato nessun sapere potrà mai proteggerci, ma nell’inesauribile facoltà del lancio, nel continuo esercizio dell’arte del possibile, sta il nostro non precipitare.
Ostinatamente dadi
OperaViva: un'arte del possibile
«OperaViva»* è il nome di una rivista. A una prima occhiata titolo paradossale: che farsene della parola «opera» quando il tratto più diffuso del lavoro contemporaneo è quello di un’attività che trova in se stessa il proprio compimento? Quando il risultato, il fine, il prodotto di un lavoro, quand’anche esistono, finiscono per somigliare a uno scarto rispetto a un’azione che è in se stessa risultato, fine, prodotto? Il lavoro contemporaneo – lo ribadisce Paolo Virno da oltre un ventennio – è attività in assenza di opera, attività il cui prodotto è inseparabile dall’atto stesso del produrre. Da qui la sua «natura virtuosa», dunque inesauribile, che lo apparenta all’esercizio continuo di un’arte del possibile.
È quel «di più» che esperiamo di continuo quando siamo al lavoro, quando eseguiamo un lavoro, une tâche dicono i francesi, un compito definito e delimitato imposto da altri o autoimposto, da eseguire a condizioni date; del quale resta una traccia, une tache, un alone vago, nella nostra vita che mai sembra esaurirsi in quella macchia momentanea. Quel «di più» che non solo ci rende mobili da un lavoro all’altro, da un posto all’altro, da un ambiente all’altro, ma che ci consente di non affondare in una specializzazione, in un sapere tecnico o di professione. Quel «di più» che colloca la nostra attività, anche quando è subordinata a un salario, sulla soglia di un’apertura, di un incipit perenne e che consente l’esercizio di una facoltà chiamata immaginazione, la quale si traduce nell’intima convinzione che tutto, tutto è possibile.
Così stiamo al lavoro: sul bordo di un abisso dal quale lanciamo dadi del cui risultato nessun sapere potrà mai proteggerci, ma nell’inesauribile facoltà del lancio, nel continuo esercizio dell’arte del possibile, sta il nostro non precipitare. Nessun lavoro, né salariato né autonomo né invidiabile né danaroso, mai esaurisce ciò che siamo: mera facoltà del lancio. Ed è facile scorgere l’abisso in cui precipita chi non sembra capace d’altro se non l’affermare di essere quel dato sapere, quella data professione, quel dato abisso. Perché nel lanciare, ci scopriamo dadi.
È questo il paradosso del lavoro contemporaneo: la facoltà del lancio, che è la nostra, avviene su una materia, che siamo noi. Così rotoliamo di ufficio in ufficio, di mansione in mansione, di procedura in procedura, talvolta dimenticando il gesto dal quale proviene il movimento, quel gesto che è il possibile di qualunque nostro movimento. «Lanciarsi» in un’attività, in un’impresa, in un azzardo dice la lingua corrente. Espressione fin troppo nota a indicare il venir meno di una presa sulle circostanze sempre varianti, il vacillare dei saperi a garanzia dei risultati, l’assenza di maestria proveniente da una tecnica. E con di mezzo un sé. Insieme agenti e agiti, lanciare se stessi senza scordare la soglia dalla quale avviene ogni lancio, la quale benché sia il modo attraverso il quale finiamo per essere determinati è anche ciò che fa la nostra indeterminazione.
È la scena dell’abbondanza nella quale ci troviamo a operare: il possibile è sempre «di più» di quella mansione, di quella determinazione. Siamo sempre «di più» di quel che ci troviamo momentaneamente a essere. Non solo. Siamo anche in un altro luogo, anche da un’altra parte rispetto a quel dato segmento di produzione nella quale ci siamo lanciati. Fino agli anni Settanta era forse più semplice vederlo, quel luogo: lo vedeva il cervello dell’operaio che vagava fuori dai cancelli mentre il suo corpo alla catena ripeteva.
È l’esperienza dell’alienazione, tra un corpo coatto e una mente libera, alla quale l’operaismo ha dato un nome diverso e positivo e politico, aprendo di fatto anche al corpo un varco in quel cancello: estraneità. Da qui è passato il rifiuto del lavoro. Per il corpo che ne è uscito, la questione è stata anche il darsi una forma diversa da quella del corpo operaio che stava in fabbrica. Un corpo votato ad altro che all’esperienza della dominazione. Ma dove ritrovare oggi un principio di estraneità, anche quando il lavoro, quello immateriale e creativo, è seriale e procedurale e ugualmente coatto e ingabbiato di quello di fabbrica? Da dove guardare la distanza tra un sé messo al lavoro, che finisce per credere nel proprio investirsi e per identificarsi con la propria opera, e «un vivente che mai coincide del tutto con le sue opere e i suoi giorni»?
In questa distanza ne va della nostra vita. Quando l’anima della quale è anche fatta diventa la scena di un tribunale fallimentare e di un giudizio sull’errato investimento. E quel sé che fuggiva dalla fabbrica per diventare autonomo pare oggi essere impresa, risorsa, valore, rendita, dopo aver trasformato le relazioni con l’altro, il rapporto con gli altri indispensabile per tessere un’attività una volta usciti dal regime di fabbrica, o gli altri insieme ai quali si è fuggiti da quel regime, in altrettante chiamate di correo della propria sventatezza o prove testimoniali del proprio successo. Quando lingua, scrittura, intelletto nella loro messa a valore sembrano ridursi a un piccolo gergo, a una ricetta, a un automatismo cerebrale. Quando la natura virtuosa, dunque inesauribile, del nostro essere al lavoro si concretizza in una dimensione viziosa, anche circolare e ripetitiva.
Per questa distanza passa quel corpo, che a sua volta fa la vita, che in altri tempi si è scoperto, si è fatto e si è rivendicato capace di godere di altre forme dell’esperienza sensibile cui era destinato e che ha costruito insieme alla propria emancipazione.
«Mi sono voluto servire dell’arte, per istituire un modus vivendi, un modo per capire la vita, per provare a fare della mia stessa vita un’opera d’arte, anziché passare tutta la vita a produrre opere d’arte» affermava Marcel Duchamp, ribadendo il contenuto autocritico operato dalle avanguardie nel Novecento sulla figura individuata dall’artista. Esiste forse un artista che oggi non dica: I’m my work, io sono la mia opera? E non vale forse la stessa massima per qualunque modello di creatività individuata, nelle sue diverse gradazioni di estro, genio, aura, psicopatia egotica, applicata a qualunque settore, a qualunque filiera produttiva in cui siano richieste facoltà di pensiero e facoltà di parola? Risulta forse che Steve Jobbs abbia mai detto «Io non sono questo i-phone? io non sono la apple»?
Ecco perché il «paradigma artista» informa dei propri tratti il lavoro contemporaneo. Non perché la «critica artista» di scaturigine ’68 sia stata progressivamente sussunta facendosi ancella del capitalismo neoliberista, o forse anche sì ma non è questo che conta, piuttosto perché l’artista è forse la figura che più di tutte può oggi rivendicare la totale coincidenza tra il proprio sé e la propria opera, senza doversi (quasi) mai vergognare né dell’uno né dell’altra. Quale artista mai riconoscerà una distanza tra sé e il lavoro nel quale si incarna, smarcando la propria opera dalle veci di pienezza, libertà, compiutezza che l’hanno realizzata? Chi oserà dire I’m not my work, in quel punto esatto in cui l’opera appare svincolata da qualunque fine, costrizione, regola, materiale, tecnica, forma, valore e si pone come l’unico effetto dell’espressione di un sé, quando non il sé medesimo? Variante tutto sommato assai diversa dal modus vivendi di cui parlava Duchamp, che proprio nel modus di una relazione al sé rimetteva in discussione tanto il sé che l’opera.
Che farcene oggi delle professioni, con il relativo retaggio di ordini liberali e non, saperi tecnici, lingue settoriali, formazioni specifiche, inclinazioni per nascita, propensioni nutrite e assecondate, posizioni sociali? Che farcene di un sé addestrato, cresciuto, talvolta convinto della propria determinazione, incarognito per tenersela, spesso incapace di riconoscere il tratto più comune della sua singolarità: la genericità delle sue facoltà?
Come demolire l’ideologia che tesse il reticolo degli accidenti di una vita col punto a croce degli individui e che finisce col fare dei viventi l’espressione della loro opera? Come ribaltare i tratti servili e di dipendenza dall’altro che assume per paradosso proprio il lavoro quando è virtuoso rovesciando così di segno, e grazie alla divisione del lavoro, ciò che è comune e transindivuale?
Facoltà comuni, genericità dell’intelletto, sapere sociale, potenza che mai si esaurisce in alcuna determinazione, vite fatte di tratti svincolati dai destini individuati. Di contro: saperi tecnici, esperti, biografie destinali, opere fusionali. Accade tutti i giorni, dentro un’esperienza quotidiana che annoda il lavoro, gli affetti, le forme di vita, il rapporto a sé, le relazioni agli altri, ciò di cui godiamo. Che dà il senso del possibile e materializza un impossibile. Che interpella i nostri strumenti di animali umani, lasciando intatte le nostre facoltà anche quando applicate ai più orridi fini. Che ci fa guardare all’immanenza dei nostri mezzi, sono forse altro dalla nostra vita? Che organizza un visibile, una distribuzione della lingua e della parola, che forma dei corpi e delle percezioni e configura un sensibile insieme alle sue divisioni che si sedimenta sui nostri occhi, sulla nostra pelle, sulle nostre lingue. Che dà una norma e chiude lo spazio agli esperimenti di regole e istituzioni. Che allestisce una scena, sulla quale esibirsi in performance per gli applausi degli altri trasformati in astanti spettatori. Che si appropria di ciò che è di tutti, e lo rinchiude nella proprietà di qualcuno.
È ciò che viviamo, senza sapere che farcene della coscienza di una realtà nascosta, dalla quale togliere un velo. Della denuncia dell’attività sociale e della sua ricchezza come realtà separata della quale riappropriarsi per ripristinare un’integralità. Non siamo separati da niente, siamo meramente ubiqui. Nella posizione del lancio e del dado lanciato.
È ciò di cui vogliamo discutere con «OperaViva», una rivista, un luogo comune, un laboratorio. In cerca di un’estetica della superficie che è la nostra fabbrica del sensibile. Di un’improvvisazione che è la nostra regola. Di un gioco con gli altri nel quale essere virtuosi, felici di esserlo e amici. Con un occhio sull’esuberanza, che è la nostra arte del possibile.
Ostinatamente dadi.
* L’opera viva è la parte sommersa di uno scafo, quella collocata sotto la linea di galleggiamento, nel quale la parte emersa è l’opera morta. In inglese la prima si chiama alive o quick works, la seconda dead works. L’opera viva è tale perché, col proprio volume, genera attivamente e continuamente, spinte verso l’alto in proporzione all’acqua che sposta galleggiando e navigando. L’opera morta non contribuisce costantemente e attivamente all’equilibrio dell’imbarcazione.
condividi