Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto da L’insorto del corpo. Il tono, l’azione, la poesia. Saggi su Antonin Artaud (ombre corte, 2018).
Come più volte dichiarato ho quasi tutti i libri di Artaud ma non ne ho mai letto uno. Dei libri belli bisogna avere il coraggio di fidarsi, senza sciuparli con la nostra vana comprensione. Di Artaud so più per sentito dire che per dovuto leggere. Però di lui mi fido, tant’è vero che quando Artaud definisce Sartre un pezzente, quasi quasi leggo Sartre, perché di lui non mi fido. La cultura con gli occhiali è sempre sospetta. Chi ha gli occhiali, quando legge, la prima cosa che guarda non è il libro ma i suoi occhiali, quindi prima guarda gli occhiali e poi la pagina scritta che diventa una seconda scelta. Le persone con gli occhiali non potranno mai essere sincere perché quando hanno di fronte l’interlocutore, prima guardano i loro occhiali e solo successivamente l’interlocutore che diventa un’opportunità di salvataggio. E quando due persone con gli occhiali s’incontrano la menzogna è sovrana perché ognuno piuttosto che guardare l’altro, vede prima i suoi occhiali, poi gli occhiali dell’altro, e solo dopo intercetta il conterraneo che assurge a terza scelta, a scemo di quartiere, a ritardato percettivo.
Considero Artaud un sistema di pensiero massimo e mi chiedo se lui avrebbe mai chiesto finanziamenti statali per dare alla luce un’opera. No di certo. E questo scredita qualsiasi richiesta al ministero da parte di qualunque artista affaccendato a fare i conti in tasca a chi lo assiste e lo imbavaglia: sempre che si ragioni per massimi sistemi di pensiero, altrimenti la miseria prende il sopravvento e fa giustizia.
È difficile spiegare come sia importante una persona che nemmeno conosco a fondo. Perché non l’ho studiata, perché non ho vissuto quando viveva, perché ne ho sempre trovato inquietante la bellezza. Sento però, da quel poco che so, che la sua morale è una minaccia per le menti affittate. La sua crudeltà senza parsimonia è un patrimonio genetico, il suo definire l’arte sociale una scorciatoia per miseri intelletti è un credo innegabile. Nella sofferenza del corpo in scena ho visto spesso il mio, stanco ed estasiato da cotanta energia. Mi lega a quel poco di pensiero che comprendo di Artaud, l’ostilità verso la storia, la narrazione, il racconto codificato che prende per mano l’interlocutore e lo porta a sbattere dove lui non sa. Ma dove sa l’autore, che si appoggia al codice come zoppo alla stampella, come sciancato alla scodella.
Con un punto di riferimento così incontaminato sembra impossibile che la cultura moderna possa navigare in acque controllate da ministeri di modestia. E questo getta le basi per il disincanto e cancella l’illusione che il rigore possa sollevar l’animo umano. Tutto è così a misura d’uomo, mai termine di paragone fu più ignobile. La nostra misura è la più bassa e facciamo cose a misura per scendere al più infimo livello. Certo non tutti siamo così masochisti, alcuni cercano di emergere almeno fino alla cintola per mantenere intatto il turbamento. E l’ortodossia che li fa ottusi.
Il senso di intolleranza di Artaud nei confronti del compromesso è un altro punto di contatto che crea istantanea fusione di epiderma. Sarebbe stato bello poter parlare con Artaud, scoprirne la curiosità. Che poi la sua forza agonista si sia manifestata dopo la morte fa parte della tirannia dei vivi che credono in quello che fanno poichè vivono nel tempo in cui lo fanno. Presunzione umana a scapito del disumano che Artaud rappresentava e cui tutti dovremmo ambire. Le persone di intelletto integro e integralista devono pensarla allo stesso modo per poi operare nell’arte con un’estetica diversa. Sviluppare una filosofia condivisa dalle menti più libere che in seguito, nell’atto, nel gesto estetico, sappiano esprimere sensazioni completamente differenti. Uniti nell’etica, divisi nell’estetica, sempre però con la grazia feroce che polverizza il compromesso.
E lunga morte ai vivi che sopravvalutano la loro dispotica presenza.
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