Parthenope
Mare di mare, sopra e sotto
Era già tutto previsto. Che Paolo Sorrentino facesse Paolo Sorrentino all’ennesima, magnificamente ridondante, potenza, con il suo Parthenope, in uscita oggi, in un ritornante loop di scintillante accecamento visivo, narrativo, uditivo, sensoriale, temporale.
NoLo me tangere
Per questo andammo a vederlo, con cieca e totale infatuazione, nell’anteprima milanese di mezzanotte di qualche settimana fa, al mitico Cinema Beltrade, a un passo dalle magnolie del quartiere Turro, rifocillati dalle proverbiali mezze porzioni dei succulenti piatti e cocktail e vini di Mezzé, in quello scorcio del Nord di Loreto, da tempo divenuto North of Loreto, che sono anche altri piatti, quelli suonati da Bassi Maestro, ritornanti anch’essi, agli amati beat dell’elettronica elettricità degli anni Ottanta del secolo scorso. Mentre nella notte sempre si aggira, tra i bar e i locali di NoLo, l’apparizione di un mite e solitario personaggio elegantemente di nero vestito, pantaloni della tuta, con giacca e cravatta a incorniciare il suo volto e cranio imberbe e ceruleo, che di quei benedetti anni Ottanta evoca lunari e memorabili film.
Eccoci così nel tour da Roma (nel nome del padre) a Milano (nel nome della figlia), come oramai affaticati trapper alla ricerca della mecca sonica milanese, per vedere il solito Sorrentino, ora che nessuno dei nostri fraterni amici e sorelle vede e vedrà più Sorrentino, con un film nuovamente su Napoli. E invece il film non è su Napoli.
Mi pare lo dica lo stesso Sorrentino in quella sgangheratissima presentazione fatta quella stessa sera con altri dj e rapper come Shablo e Guè (e ancora agli atti), quando, con sapiente canzonatura levantina, deride l’abbigliamento mimetico del primo (che a noi effettivamente pareva un poco Zelensky, un poco una copertina, sempre anni Ottanta, di un disco dei Death in June) e quindi se la prende con il pubblico visibilmente agée, rispetto alla falsa aspettativa di essere circondati da giovanissimi. E almeno io stavo in quella porzione vetusta di cinefili, debolmente riequilibrato dalla giovanile presenza della figlia di cui sopra.
Avere vent’anni: ripetizioni e differenze
Così si rimane volutamente rapiti sin dal primo fotogramma infestato da quella luce meridiana, mentre Parthenope nasce, come Sirena a venire, nelle acque del Golfo, sotto gli occhi incantati del suo piccolo fratello maggiore, tutti frastornati dal vociante incedere del Comandante Achille Lauro (il nostro amato Alfonso Santagata, eternamente in occhiali da sole) che dà il nome alla nascitura. E ci si immerge subito nel film che per me è un sogno, come Parthenope è immersa nell’acqua marina, forse anche perché l’immersione nella nottata è totale e totalizzante e io sono sprofondato nelle mie visioni. Così, nelle settimane successive, ho avuto allucinazioni uditive, visive, soniche confuse e vaghe che mi mettono nella splendida condizione di vedere nuovamente il film come un nuovo lungometraggio.
Mentre intanto ricordo che il film è un inno ai tre anni della vita di ciascuno che vale la pena davvero vivere, rivivere e ripetere, intorni ai vent’anni, tre estati, solo quelle, sempre quelle, per tutta la vita, per sempre. Ripetizioni e differenze. Quasi volessimo noi, con Sorrentino, ribaltare l’arcinoto incipit di Aden Arabie di Paul Nizan: Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita. Lì si era negli anni Venti e Trenta della guerra civile europea. Qui negli anni Venti del regime di guerra che avvolge ancora una volta l’Europa posta al Levante continentale e mediterraneo che brucia, incapace di articolare alcunché di sensato.
La bella giornata, ancora una volta
Per questo seguiamo il peregrinare notturno e solare di Parthenope, una Celeste Dalla Porta volutamente stralunata e incantata, singolare e molteplice, ironica e pensierosa, nella sua strascicata cadenza napoletana. Ferita a morte nell’eterna bella giornata caprese del nostro Renato La Capria, che a volte sembra evocare il passo titubante avvolto nell’impermeabile di Renato Caccioppoli, o nel fantasma della comunista Francesca Spada. Ma sono suggestioni troppo personali. Come quelle che mi hanno fatto insistentemente percepire la presenza della nostra Jo, Giovanna Ferrara, sempre immersa nella sua bella giornata, in qualche fotogramma saltato, tra le voci di fondo, nei balli e nelle feste, in fila fuori dal cinema, in riva al mare, nella notte romana, milanese, napoletana.
Ed ecco che le magnificamente lentissime due ore e venti del film vorremmo che fossero lunghe il doppio, per la prossima visione. Per insistere nei dialoghi di Parthenope con l’alcolico futuro anteriore di John Cheever (Gary Oldman). Per ripetere gli incontri con l’invisibile Flora Malva (una Isabella Ferrari schermata da una maschera facciale che protegge la propria trasfigurazione estetico-chirurgica) e con l’esuberante decadenza di Greta Cool (Luisa Ranieri in un monologo estremo e incandescente su Napoli e i napoletani). Fino a estendere il crepuscolare incontro notturno con il tesorone dei paramenti di San Gennaro e il verboso Vescovo Peppe Lanzetta, sono stanco, ho bisogno di un drink, quando con gli anziani di una aristocratica casa di riposo si verbalizza che alla fine della vita, rimane solo l’ironia.
Mare sopra e sotto
Un’ironia di fondo che attraversa l’intero film e che nessuno riconoscerà come tale. Soprattutto quell’ossessione di ricercare sempre la battuta perfetta. Vivere per prepararsi alla battuta perfetta, avendo perso tante occasioni per farla in tempo: il fallimentare retropensiero di Sorrentino e la proverbiale capacità di Parthenope. Ancora e sempre immersa in quelle estati del primissimo, adolescenziale amore, con sempre accanto il dolce e sognante fratello dalla sigaretta perennemente accesa, che all’inizio fa pensare a un imberbe Alceste Santacroce, quel Sant’Alceste fumoso e decadente giornalista dandy romano protagonista del fumetto Eternity di Alessandro Bilotta, che molti descrivono come ricalcato sulla figura di Jep Gambardella, per un cortocircuito di nuovo ritornante tra immaginari notturni romani.
Poi a un certo punto tutto si rompe. Non anticipiamo niente. Ma ci si immerge ancora più sotto il sole o nel sottomondo oscuro. Solo l’avventurarsi di Parthenope nella ricerca antropologica, grazie alla ridente intermediazione del Professore Devoto Marotta (il solito, perfetto, Silvio Orlando) e quindi il meraviglioso incontro con una figura mitologica fatta di acqua e sale, come l’ambiente naturale della sirena Parthenope. L’incantamento reciproco, le risate comuni, lo splendore delle forme di vita altre.
Vengono alla mente le parole e i suoni di Enzo Carella, che ben avrebbero accompagnato Parthenope: Mare/è tutto un mare di mare sopra e sotto/Mare/Bello da fare tremare, m’ha sedotto (Mare sopra e sotto, 1981).
Quando usciamo dalla sala, storditi e sognanti, sono le tre di notte e NoLo è più festosa che mai con la presenza costante della nostra lunare figura dark, si vorrebbe bere insieme, ancora una volta, sempre. Era già tutto previsto?
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