Pensiero costituente
In risposta a Roberto Esposito
Pubblichiamo qui, in versione ridotta, uno scambio tra Roberto Esposito e Toni Negri. Il dibattito si è tenuto in occasione del primo Festival di DeriveApprodi (25-27 novembre 2016) e si trova oggi raccolto, in versione integrale, nel volume Effetto Italian Thought (a cura di Enrica Lisciani-Petrini e Giusi Strummiello, Quodlibet, 2017). Il libro inaugura, insieme ad altri, la collana Materiali IT diretta da Dario Gentili ed Elettra Stimilli. Qui l’intervento di Roberto Esposito.
Che cosa significa pensare in modo affermativo e costituente? Non avendo mai oltremodo amato quella che chiamano «filosofia eterna» ed essendomi più spesso affidato alle scienze storiche e sociali, per accertare la verità, e all’azione politica di classe, per costruire le mie azioni, ho appreso che i processi sociali sono sempre contingenti e che la storia è discontinua e solo eventualmente attraversata da stabili tendenze. Dunque, che ragionare in maniera affermativa e costituente, vuol dire mettersi «lì dentro» e disporre il proprio pensare ad agire – nella contingenza – in relazione a quelle eventualità e a quelle tendenze. Per dirlo sinteticamente: «ragionare per dispositivi» (pensiero affermativo) cercando di identificare tendenze favorevoli alla liberazione dallo sfruttamento (pensiero costituente). Detto questo, a me sembra assai caricaturale dichiarare che il pensiero affermativo non possa assumere problematicamente il negativo. Il negativo è sempre tanto presente alla nostra considerazione quanto lo è il positivo. Altrettanto caricaturale sarebbe dire che il costitutivo si affermi linearmente senza conoscere il negativo. Esser dentro il reale significa piuttosto esser sempre a fronte di alternative, scegliere fra il positivo e il negativo, fra essere e non essere. Far politica è questo scegliere – collettivamente – ed è in questa lotta per la conoscenza che si esprime una pratica del vero. Perché il vero non è fissità o nuda corrispondenza al reale ma costruzione del comune. Assumiamo ora le tre categorie delle quali tu osservi il declino: impero, moltitudine, comune.
1. Impero. Quando parlo di crisi della sovranità, parlo della crisi della sovranità moderna – e cioè della crisi della sovranità dello Stato-nazione. Ora, a me sembra che la globalizzazione abbia tolto di mezzo la sovranità nazionale, nel senso che ne ha attenuato in maniera radicale la capacità di decidere in materia monetaria, militare e culturale. A questo punto ci si deve chiedere se questa crisi costituisca una tendenza irreversibile, se sia auspicabile o meno e se si debba disporre la nostra capacità costituente a facilitarla o no. Riguardo al primo punto, credo che questa crisi sia irreversibile. Lo è perché irreversibile è la globalizzazione capitalista. Il rinvio alla lettura del terzo volume di Das Kapital è qui necessario per coloro che non abbiano avuto il tempo di studiarlo. È ben vero d’altronde che «globalizzazione» non significa «impero», cioè ordinamento politico globale e conseguente trasferimento delle sovranità nazionali a un’autorità sovranazionale. Ma è anche vero che la globalizzazione dei mercati chiede un ordine. E nel sistema capitalista ordine significa comando – quindi, la globalizzazione capitalista richiede l’impero. Questa logica non è segnata da una volontà trascendentale ma imposta dalla concretezza delle lotte. Quella lotta è stata poi qualificata dal fallito «colpo di Stato» degli Usa sulla globalizzazione negli anni che seguirono la fine della guerra fredda e, negli anni Novanta, la prima guerra irachena, prolungandosi fino alla crisi di Wall Street nel 2007.
Questa lotta per l’egemonia imperiale si è oggi completamente aperta e sembra configurarsi in una prospettiva non multipolare ma oligo-plurale del tutto incerta e pericolosa. Ci troviamo infatti esposti, nella lotta per la leadership imperiale, alla presenza attuale e all’eventualità futura di guerre. Il problema non è quindi se la tendenza alla globalizzazione sia irreversibile: incerto è solo chi comanderà su di essa. La lotta per l’egemonia sulla globalizzazione modificherà certamente alcune determinazioni di questa, ma non ne modificherà la natura. In ogni caso, queste modificazioni non riguardano gli Stati-nazione odierni, che saranno, nel caso, soggetti all’una o all’altra potenza globale, divenendo forse unità amministrative in quel dominio, più probabilmente semplici espressioni geografiche, ridefinite dalla logistica globale dei mercati. Quello che vediamo riemergere ora in Europa e altrove, è l’ultimo colpo di coda di una concezione dello Stato che ci tiriamo dietro dalla modernità e che, di volta in volta, viene ripresa come se il processo storico fosse reversibile. Non solo non lo è, ma sarebbe ingenuo pensare che la sua irreversibilità possa essere pensata come semplice successione di forme paradigmatiche (dopo la sovranità l’impero, dopo l’impero il ritorno alla sovranità). Anche qui Foucault insegna: le forme non si succedono ma si sovrappongono e si riformulano, e i residui sovranisti sono essi stessi prodotti e qualificati dalla forma impero. È auspicabile questa diminuzione sovrana dello Stato- nazione? Ne sono più che convinto. Penso infatti che le nazioni, i popoli, le patrie rappresentino il negativo, sempre capace di trasformarsi in fascismo.
2. Ciò dato, come disporre la nostra capacità costituente? Essa non può disporsi se non costruendo una moltitudine capace di autogoverno. Per te la moltitudine è una «categoria dialetticamente legata ad Impero». Sarà! Per me è una categoria legata allo sviluppo dell’«operaio-sociale», alla successiva definizione dell’egemonia tendenziale del lavoro immateriale nei nuovi modi di produzione, alla scoperta della singolarizzazione dell’attività lavorativa, all’approfondimento dell’analisi del lavoro cognitivo – insomma, all’uso e all’articolazione dell’indicazione marxiana del «General Intellect» attraverso l’analisi empirica delle mutazioni tecnologiche e all’analisi sociologica della trasformazione delle «forme di vita». Detto nel jargon operaista: analisi della «composizione tecnica» e della «composizione politica» della classe lavoratrice. Ora, dall’analisi di questa nuova forza-lavoro risulta fortificata la «duplicità» che Marx aveva attribuito alla forza-lavoro operaia: forza-lavoro soggetta al capitale e lavoro vivo produttore di capitale, forza-lavoro dentro il capitale e classe operaia contro il capitale. Si tratta di una duplicità del tutto elementare nella definizione di forza-lavoro e di lotta di classe. Ma ora tu mi ricordi che «lo sviluppo tecnologico non è separabile dal comando capitalistico che lo dirige orientandolo ai propri fini» e che «attraverso quel canale si generano sì nuove forme di soggettivazione ma tutt’altro che libere». Dovrai ammettere che è abbastanza rozzo (e forse è un’opzione del tutto ideologica) ricorrere al determinismo tecnologico per eliminare la potenza produttiva del lavoro vivo e la sua capacità di determinare resistenza (costituente). Il fatto è che, come ho provato a dimostrare in tutti questi anni, il presente modo di produzione, lungi dal totalizzare la produzione di soggettività, ne racconta «un’implicazione paradossale»: quanto più sfrutta la forza-lavoro tanto più ne mette all’opera la soggettività, quanto più normalizza questa forma di sfruttamento tanto più richiede prestazioni singolarizzate.
Inoltre, la produttività di questa forza-lavoro non nasce solo dall’implicazione nel modo di produrre ma anche dalle «forme di vita» nelle quali essa produce se stessa. Che nel biopolitico si incarni vieppiù quello che tu chiami il negativo, che la sofferenza del lavoro possa essere più grande in un lavoratore IBM di quanto lo sia stato per un minatore, può anche darsi, malgrado sia poco credibile: in ogni caso, tuttavia, questo negativo non può essere infilato nell’ontologia della soggettivazione. La soggettivazione è data dalla potenza produttiva che il lavoro vivo porta in sé e dal rapporto sociale cooperativo nel quale si esprime – se fosse annullata nel produrre, non ci sarebbe produttività né aumento di valore – e neppure capitalismo! È mai possibile che, lamentando la colonizzazione del lavoro, la sofferenza e la fatica che ne seguono, non si voglia intendere la potenza produttiva di quello stesso lavoro? Il negativo è un ostacolo e non un destino, negativo è il comando ma esso non può darsi senza resistenza. Non è d’altronde a te che devo ricordare che il capitale è un rapporto. Laddove c’è comando c’è resistenza. Nietzsche, lettore di Spinoza, lo intende bene. Ed è la resistenza che costruisce l’essere. Anche messe tra parentesi queste affermazioni metafisiche, mi sembra che si possa qui concludere che è solo nella globalizzazione che le lotte del lavoro, che le lotte sul welfare e la riproduzione sociale possano darsi con efficacia perché è a questo livello che esse possono conoscere la negatività intera del comando capitalista organizzato. Si organizzerà la moltitudine per vincere contro il capitale? Riuscirà a costruire istituzioni, «imprese» capaci di lottare contro lo sfruttamento sociale, globale e di governare una società liberata (dallo sfruttamento e quindi dal lavoro)?
3. È solo quando analizziamo il comune come cemento della cooperazione nella quale le singolarità si organizzano per la produzione sociale e, dunque, non solo munus della communitas, come tu peraltro vedi, ma prodotto di un agire comune – è solo allora che possiamo cominciare a rispondere alla questione di come muoversi per organizzare la lotta contro il comando capitalista sulla globalizzazione. Costruire istituzioni capaci di muoversi a questo scopo lo si può solo quando la moltitudine si distende nel comune e, cioè, riesce a tessere flussi organizzativi capaci di rompere le catene del potere. Mille sono gli esempi che in proposito possono darsi: solo per tenersi alle ultime notizie, i movimenti che si sono sviluppati a partire dal 2011 in Spagna, negli USA, nel Nord Africa e in Medio Oriente, in Brasile ecc. – e poi tutti quelli che, aiutando i migranti negli anni e nei mesi scorsi, hanno provato a costruire spazi di vita comune, le grandi lotte operaie contro le riforme liberali delle leggi sul lavoro, gli assemblaggi democratici attorno a Sanders e Corbyn, i flussi di domanda politica che premono per il reddito di cittadinanza… Nessuno vincente? Se si assumono parametri giuridici e/o politicisti (ad esempio alla Dardot-Laval) certamente no – la richiesta istituente che insiste sulla mediazione (come istanza esterna al comune) toglie ogni possibilità di qualificare la diretta «costituenza» di questi eventi. Nessuno vincente, dunque? Sì e no. Perché una singola lotta può non vincere sul terreno locale ma accumula difficoltà per la gestione del comando globale. Significa questo che non si debba lottare sul terreno locale? Che le lotte locali siano inutili, destinate alla sconfitta? Al contrario: ogni singola lotta è immediatamente rilevante sul terreno globale. Fra l’altro, questo è un insegnamento assai importante del leninismo – di quel leninismo oggi troppo spesso usato, in maniera disastrosa, per rivendicare sovranismo e nazionalismi. Un insegnamento, tuttavia, che ci riconduce all’ontologia affermativa e costituente, a Machiavelli se si vuole, ma anche a tutti quei militanti per l’insurrezione del comune quando agiscono su eventi che si adeguano alla tendenza. Nessuno vincente, dunque? Stiamo attenti: ancora una volta sarebbe ingenuo pensare che l’assetto storico dei poteri registri solo la presa dei «Palazzi d’Inverno»: di nuovo ogni resistenza – anche se apparentemente sconfitta – riqualifica costitutivamente l’interezza dello sviluppo storico.
Mi rimproveri un impianto ontologico che impedisce il passaggio al politico. Non vedo perché. L’ontologia non anticipa nulla – il reale va costruito. Fra il febbraio e l’ottobre del 1917 non c’è una continuità ontologica – essa viene creata dal rischio e dalla decisione politica. È un attraversamento di quello che tu chiami il negativo e che non gli concede nulla. Di contro, a me sembra che ammettere che vi sia un «fuori» dal campo nel quale sviluppiamo la lotta, tolga la possibilità di far politica. Una figura trascendentale del comando oppure un negativo ineliminabile, un blocco essenziale, un male radicale: tutto ciò può solo esigere un kathecon. Un pensiero dell’immanenza, affermativo e costituente, che si impianta su un’ontologia del comune è immediatamente politico. Costruire il Principe della moltitudine è dare voce al comune e forza alla cooperazione: abbiamo ricominciato a farlo nelle piazze da qualche decennio ad opera di un proletariato ad egemonia cognitiva, dopo aver assistito alla crisi del movimento operaio nelle fabbriche. Trasformare l’egemonia tendenziale del lavoratore cognitivo in potenza attuale, trasversale di tutta la classe dei lavoratori, costituisce senza dubbio l’impresa politica di oggi. Due osservazioni in proposito. La prima: checché ne dicano i populisti odierni, questo compito non riguarda segmenti ridotti della società ma l’intera società messa al lavoro, l’intera produzione sociale (in particolare organizzata su piattaforme) dove l’estrazione di valore comprende e riqualifica anche lo sfruttamento (quello vecchio taylorista industriale e quello nuovo taylorista informatico). Seconda osservazione: la difficoltà che tu sembri avere a pensare la possibilità di tale nuova composizione dei diversi nella moltitudine (in quanto nuova composizione di classe) mi sembra dovuta al fatto che continui a pensare l’unità in termini hobbesiani (laddove il principio di organizzazione deve dare l’unità al diverso – e qui davvero mi sento deleuziano nel sottolinearne la critica). Come si fa a farlo – tu chiedi. Solo la militanza organizzata può dircelo, solo il programma del reddito universale garantito può forse aiutarci a procedere in questo senso. Tenendo sempre presente che le difficoltà non rappresentano impossibilità: il negativo non ha consistenza dialettica ma semplicemente negativa. Il negativo ci sarà sempre perché è il nulla, cioè quello che non è costruito dall’uomo.
Concludendo. Tu dici: «oggi c’è un ritorno in grande del negativo», «la guerra tende a diventare il nuovo principio costituente», «il nomos della terra torna a farsi spartizione» e concludi che «lo Stato-nazione resta l’unico soggetto di costituzionalizzazione dei rapporti privati che regolano il mercato finanziario mondiale». A me sembra che tu possa dire questo solo dimenticando il punto di vista costituente e dando voce al negativo. La sequenza che indichi è, infatti, quella che il principio costituente aborrisce. Se infatti assumiamo che si va verso la guerra per difendere la proprietà privata e che questa tendenza privilegia la nazione rispetto alla globalizzazione, non ne viene che il negativo sia di ritorno in grande, ma semplicemente si spiega l’urgenza che quello che tu chiami negativo, e che io chiamo la proprietà privata e lo Stato-nazione che conducono alla guerra, vada con più forza combattuto. La constatazione non è mai neutrale – la verità è sempre di parte e qui la parte è il comune. Si tratta dunque di lottare contro il ritorno dello Stato-nazione. E ciò non solo perché la globalizzazione va riconosciuta come il terreno sul quale l’equivoco della libertà dei mercati ha comunque permesso l’esercizio del «diritto di fuga» dalla miseria per milioni di uomini ed il riscatto dalla miseria in molti Paesi del Terzo mondo per altri milioni di uomini; non solo perché ha permesso alle nuove tecnologie di mettere in comunicazione l’umanità; non solo perché ha sconvolto i rapporti di dominazione globali mettendone in luce l’eguale corruzione e l’omogenea crisi, ma perché in questa maturazione dei tempi è finalmente pensabile la rivoluzione mondiale. Meglio, è possibile leggere i singoli nomi della liberazione nella lingua del comune. E probabilmente su questo siamo d’accordo.
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