Politiche del reale

Il «cosmo-bio-riformismo» di Rocco Ronchi

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Claire Fontaine, They hate us for our Freedom, 2013

Un paradosso attraversa la teoria politica moderna, specialmente nella sua linea egemone che va da Hobbes a Schmitt, e oltre. Per un verso essa – ossessionata dall’esigenza di neutralizzare l’imprevisto – ha pensato la politica come un fatto eminentemente antropocentrico: solo nella misura in cui essa è un fatto esclusivamente umano, nel senso preciso che nasce dall’esclusione del non umano, soltanto in questa misura essa si presta a essere concepita nel modo del progetto, della norma e della sicurezza; solo i saperi e le pratiche che si esercitano su oggetti prodotti dall’uomo sono, infatti, conoscibili e misurabili, mentre al di fuori dello spazio umano sta l’ingovernabile. Tuttavia questo antropocentrismo è ottenuto attraverso un’antropologia negativa, dove il negativo va colto in un senso forte. Esso non attiene solo al fatto che gli esseri umani non sono capaci, se non in situazioni d’eccezione, di cooperare tra loro: il negativo colpisce ciò che di umano c’è nell’uomo. Come si vede perfettamente in Hobbes, è l’umanità stessa dell’uomo – ovvero, è lo stesso, la sua bestialità – che va negata: il dispositivo della sovranità prevede che l’homo-lupus sia tolto e superato in qualcosa di sovra-umano, in un ordine che prende forma staccandosi dalla natura e, in tal modo, alienando all’uomo la sua umanità/bestialità. Solo il sovrano resterà homo e lupus, tutti gli altri saranno, in questo ordine rigorosamente antropocentrico, svuotati del loro elemento antropologico, saranno, di volta in volta, sudditi, consumatori, imprenditori, elettori, ma non homines.

È forse (anche) per questo che, nel tentativo di rivitalizzare la politica esautorata dalle esperienze del totalitarismo, Arendt ricominciò da un ripensamento radicale della condizione umana. Non si trattava di ribaltare quella hobbesiana con un’antropologia positiva; si trattava, bensì, di mostrare che l’alienazione delle capacità fisiche, emotive e cognitive degli uomini non è un destino, e che si dà politica solo fintantoché è concessa una chance alla creatività, all’inizialità degli esseri umani: esse, pur con tutto il loro carico di imprevedibilità e di rischio, sono in grado di fare della terra uno spazio umano, un mondo comune. Ed è singolare che, alla fine degli anni Quaranta, Arendt stigmatizzasse il più alto pericolo del suo tempo in quella che si può chiamare dinamizzazione del reale, cioè nella riduzione del reale a dynamis: «tutto è possibile», questa, secondo la filosofa, è la formula del totalitarismo, che, di conseguenza, si accompagna alla irrilevanza della verità.

Non ne siamo venuti fuori, se si pensa che, stando al Cambridge Dictionary, la parola più rappresentativa del 2024 è manifest. Essa indica «l’immaginare di realizzare qualcosa che si desidera, nella convinzione che così facendo si aumenteranno le probabilità che ciò accada». Manifest è qualcosa di simile all’iperstizione di cui parlano gli accelerazionisti. È una sorta di pensiero magico, ma mentre quest’ultimo ha una dimensione collettiva, il manifest è del tutto privato, è un’allucinazione soggettiva nella quale il singolo si rifugia. Questa condizione individuale risuona nel campo più vasto dell’epistemologia contemporanea, la quale, com’è noto, nella sua osmosi con la politica ha abbandonato il concetto di resistenza – col sotteso di indisponibilità, ingovernabilità che esso porta con sé – per abbracciare quello più docile e remissivo di resilienza: la realtà non ha un suo statuto ontologico ma è tutto ciò che è possibile farne, e i soggetti devono essere sempre pronti ad adattarsi agli effetti di questo fare.

Ciò che Rocco Ronchi, tra le voci più interessanti e innovative del panorama filosofico internazionale, individua al fondamento del populismo è proprio questo combinato disposto di evanescenza del vero e assolutizzazione del volere. La sua lettura, però, è tanto più incisiva in quanto attiva percorsi alternativi alla filiera lungo la quale si muove Arendt, percorsi carsici, «minori» come lui ci ha insegnato a nominarli. Da molti anni, infatti, Ronchi lavora sua una linea che connette quelli che Aristotele chiama «i megarici» a Bergson, a Deleuze, all’empirismo assoluto di Whitehead, passando per Bruno, Spinoza ed Hegel, ciò che gli ha consentito di esplorare il rimosso della tradizione filosofica: l’immanenza, intesa non come il piano da cui bisogna proiettarsi per edificare il soggetto sovrano e svettante della metafisica «maggiore», ma la dimensione in cui occorre penetrare – in manere – per saggiare le risorse di questo humus e, allo stesso tempo, scoprire la nostra potenza. Il suo ultimo libro, Populismo/Sovranismo. Una illustre genealogia, uscito da poche settimane per Castelvecchi, esplicita il portato politico di questa linea filosofica sotterranea. In effetti, nella prospettiva del pensiero che ha segnato la modernità, il politico è la contingenza stessa. Se nel versante hobbesiano l’ordine è pensato attraverso la precedenza ontologica del caos, e come eccezione rispetto a quest’ultimo, è inevitabile che nomos e anomia coincidano: ogni ordine dato è plastico, sospeso alla volontà del sovrano che in ogni momento può revocarlo. Ma anche il versante che si oppone alla tradizione politica moderna, e che trova in Arendt la sua voce esemplare, pensare la politica vuol dire lasciare uno spazio all’evento, inteso appunto come il contingente: in entrambi i casi la fragilità del dato rende concepibile la sua interruzione a opera di qualcosa che viene da un fuori al quale l’esistente, in quanto finito, è necessariamente esposto.

A questa visione, e al populismo/sovranismo che ne è l’esito inevitabile, Ronchi oppone una «linea politica megarica per la quale la potenza del potere non è la potenza del possibile bilaterale aristotelico» (p. 120). Per illustrare il senso di questa sentenza, su cui torneremo più avanti, va preliminarmente detto che, segnato da un approccio eminentemente filosofico il libro si concede di discutere insieme le due forme politiche nominate nel titolo, pur tenendole separate attraverso una barra spaziatrice. Mentre il politologo si concentrerebbe sulla perimetrazione di questi fenomeni, il filosofo, afferma Ronchi, ne cerca l’«origine» specificando che essa ha «la peculiarità di non assomigliare al fenomeno che ne deriva» (p. 8). Ebbene il soggetto comune a entrambe le esperienze politiche, il popolo sovrano, ha una «illustre genealogia» che, per altro, è condivisa anche dal fascismo, considerato, in pagine illuminanti, non l’archetipo ma il «prototipo» («un essere che ha bisogno del divenire – un divenire altro – per essere quello che ancora non è ma ha da essere», p. 14) del sovranismo/populismo. Dunque, ciò a cui rimonta tale genealogia è «la moderna metafisica della libertà» (p. 16). Ancora un paradosso: la critica illuminista, di cui libertà è una parola d’ordine, sarebbe all’origine di una soggettività oggi impaurita, fragile, in cerca di una protezione sovrana: «Hobbes intuisce che la paura è l’elemento stesso nel quale sguazza un ente che si vuole incondizionatamente libero» (p. 32).

Questo paradosso si scioglie se si considera il «rapporto ambiguo» (p. 60) che tale metafisica ha intrattenuto con il mito. Per un verso la luce della ragione doveva spazzar via le illusioni del mito; per un altro verso, però, quello moderno è un soggetto ab-solutum, sciolto dal rapporto con altri e col mondo, è un soggetto svettante. Ebbene questo movimento dell’evasione nel quale esso prende forma non può che abbandonarlo («gettarlo» avrebbe detto tanta filosofia del Novecento) nell’illusione, ovvero in una dimensione nella quale «tutto è possibile» perché l’immaginario non è mai interrotto dal reale: «solo un soggetto reso dalla critica incondizionatamente libero, solo un soggetto che ha portato la sua autonomia dal simbolico a rasentare il crinale della follia solipsistica, può infatti marciare lancia in resta contro la verità e dichiarare, come fece Mussolini a Reggio Emilia, che l’illusione è, forse, l’unica realtà» (p. 61).

Non c’è spazio qui per soffermarsi sulle bellissime pagine dedicate al mito e alla sua tecnicizzazione moderna, pagine importanti che concludono con la tesi secondo cui la produzione moderna di miti si differenzia da quella classica perché essa non ha più la funzione di compensare l’esperienza dello straniamento dell’animale parlante nel mondo; nel mito moderno «a essere affermata è la potenza del falso saputo come falso, con sovrana e aristocratica indifferenza per ogni realtà fattuale» (p. 57). Né si può rendere conto di quello che è forse il cardine concettuale del libro, e forse dell’intera ricerca dell’autore, ovvero la potenza, pensata come l’elemento stesso della filosofia (cfr. p. 111), che quest’ultima tuttavia rinnega sia per un atteggiamento moralistico sia perché essa «sconta nella contemporaneità una sua frettolosa assimilazione alla teoria critica» (ivi). Ci si limiterà, dunque, solo a una rapida considerazione relativamente al tema di maggior interesse per chi scrive.

Non si esce dal populismo/sovranismo, e non si combatte davvero il fascismo strisciante che a essi si accompagna, se non si elabora un’ontologia alternativa a quella sulla quale poggiano anche coloro che avversano questo «evento planetario» (p. 8). Finché, infatti, il mondo è concepito come una materia inerte nella disponibilità del potere, finché esso è pensato come illimitatezza delle possibilità offerte a un soggetto svettante rispetto a esso, finché, insomma, la politica è intesa come una fattispecie della contingenza, è inevitabile che «il nulla, il disordine e il possibile siano il fondamento dell’azione politica» (p. 58). Le varie teorie che pongono al centro della scena il conflitto non escono da questo quadro; anzi puntando a questa sorta di falla originaria – il «politico» inteso come conflitto archioriginario – che travolgerebbe in un vortice tutte le soggettività che si muovono intorno a essa, non fanno che corroborare, al di là delle intenzioni, lo scenario del popolo sovrano.

Una filosofia e una politica autenticamente radicali dovrebbero, ci pare di poter concludere, abbandonare questo atteggiamento luddista che è, in fondo, solo estremista nella precisa misura in cui porta alle estreme conseguenze una doxa diffusa. Per una filosofia e una politica all’altezza della complessità delle sfide contemporanee, invece, «non è necessario alzare gli occhi al cielo» in cerca di una posizione ab-soluta, sovrana. «Bisogna, anzi, volgere lo sguardo in basso, alla terra, al fango, alla vita brulicante di cui, in quanto viventi, anche noi siamo parte» (p. 34). Bisognerebbe cercare «un radicamento in un fondamento» (cfr. p. 54), e trovarlo nella «Natura, ma non nella natura data, costituita», bensì nella «natura naturans» (p. 55) nel processo della continua produzione di forme. Una produzione che, appunto, non attende la messa in forma da parte di una soggettività sovrana, che, anzi, rompe la divisione classica tra attività e passività, tra intelletto e materia. In tal modo, questa effervescenza (a proposito della quale Jankelevitch parlava di una «biografia dell’infinitesimale che ci svela il brulichio, l’animazione estrema dell’esistenza e l’appassionante polizoismo della durata», L’avventura, la noia, la serietà, 1963) tratterrebbe le soggettività all’interno di una gamma di possibilità limitate, rompendo finalmente la credenza per cui «tutto è possibile»: «per quanto possibile, kata dynamin» ripete continuamente Ronchi; allo stesso tempo, in questo aggancio a una verità che si fa, che si attua, le soggettività troverebbero una virtualità infinita di sperimentazione e trasformazione.

Possiamo finalmente comprendere l’affermazione prima citata circa una «linea politica megarica per la quale la potenza del potere non è la potenza del possibile bilaterale aristotelico». Quella aristotelica – quella della metafisica «maggiore» – è la libertà del soggetto che sbanda tra alternative formalmente identiche, indifferenti. La libertà che emerge dalla potenza del potere è, invece, quella che è costretta ad aderire alla verità, al darsi in atto del reale: ciò che rompe la chiusura nell’immaginario (nel manifest).

Questo inchiodamento liberante al reale appare molto più produttivo rispetto alle teorie e alle pratiche che, enfatizzando l’elemento del symbolon e del vuoto che esso si porta dentro, smarriscono la vivificante complessità nella quale si dà la potenza: quest’ultima non si esprime all’insegna della rarità e dell’eccezione, ma innerva il mondo ovunque. Tale adesione al reale e alla sua potenza – limitante e, per ciò stesso, liberante – offre anche il vantaggio di superare del tutto l’idea arendtiana del mondo come spazio-tempo coestensivo dell’umano. Ronchi, infatti, può parlare di un «cosmo-bio-riformismo radicale» riferendosi a una politica che rinuncia alla postura frontale del soggetto che, svettante, progetta la rivoluzione per forgiare un mondo nuovo. Egli chiama «cibernetica» la politica all’altezza dei nostri tempi: con ciò si rifà all’arte del kybernein, del governare una nave cavalcando i flutti, piuttosto che sorvolandoli. Ma è possibile cogliere in questa scelta lessicale, che naturalmente richiama esplicitamente Foucault, anche il riferimento al piccolo, all’infinitesimo, a ciò che non è monumentale: la cibernetica, in effetti, non lascia spazio all’elevazione di alcun Leviatano, ragiona sempre per sistemi complessi, considera particelle che scorrono in trame multiformi e articolate. È questo scendere nella complessità, nel «brulichio del mondo» che consente di «reintegrare il politico nel dominio della vita, facendone la sua continuazione con altri mezzi, una sorta, se mi si concede uno stravagante neologismo, di cosmo-bio-riformismo» (p. 128).

Resta un problema. Le politiche del reale sono così riassunte da Ronchi:

Dove situare la virtù politica? Cercarla ancora dal lato del possibile, di «un altro mondo possibile», vuol dire rifugiarsi nell’illusione che ha generato la patologia. Bisogna piuttosto rivolgersi al reale […]. «Governare il cambiamento», «governare i flussi» sono formule che appaiono trite e generiche, eppure esprimono l’istanza propriamente politica. Mostrano cosa resta da fare, kata dynamin, una espressione che ora propongo di tradurre così: assecondando la potenza madre di tutte le cose (p. 130).

Questo assecondare l’attuarsi infinito della potenza non deve dimenticare, nel mentre si radica nel reale, di fare spazio all’impossibile, a ciò che eccede tutte le possibilità date. In caso contrario la politica si ridurrebbe a gestione tecno-economica del dato. La politica, in effetti, non è scontro tra opinioni, è una guerra tra mondi: chi e come stabilisce che è proprio questa e non un’altra la tendenza da «assecondare»? Come individuare l’onda giusta che il kybernètes deve cavalcare? La posizione stessa di queste domande determina la politica come conflitto di mondi. Da una parte il mondo che, in base a una certa necessità, impone la sua stessa conservazione: è il there is no alternative thatcheriano. Dall’altra il mondo che «onorando la potenza della necessità» (p. 34) produce il nuovo, l’inatteso, l’impossibile, ciò che eccede le possibilità riconosciute. L’indicazione di Ronchi, dunque, è potente se non viene intesa come un’istruzione, una procedura da applicare. La distinzione tra una necessità e l’altra, tra quella che getta nella libertà immaginaria del fascio-populismo, e quella che si radica nella libertà del reale, è essa stessa contingente, è, di volta in volta, un rischio, un esperimento di verità, una chance.

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