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Other Spaces
Questo focus , a cura di Viviana Vacca e Ludovica Fales, è nato nell’ambito delle riflessioni scaturite dal laboratorio di realtà virtuale di Other Spaces organizzato con Red Shoes Educational – che quest’anno >…
In una delle Lettere contro la separazione, una conversazione promossa da Hito Steyerl sull’e-flux per «continuare a condividere riflessioni personali in un momento in cui non possiamo stare fisicamente insieme»[1], Keti Chukrov si impegnava in una conversazione su Cinque cose inesplicabili sulla pandemia, una discussione sul tempo della pandemia come tempo del tempo in termini deleuziani, «un tempo escatologico in cui il mondano si dissolve»[2]. In questo tempo vuoto di pandemia sembrava essere in gioco tutto, la ridefinizione di tutti i rapporti con la natura e il suo ecosistema, la ridefinizione di tutte le strutture politiche umane, il nostro rapporto con l’idea di bene comune e, soprattutto, il nostro rapporto con la morte, o meglio il nostro rapporto con l’impossibilità di concepire la morte e – affermava Keti Chukov a proposito di alcune concezioni postumane, nel tentativo di immaginare la dissoluzione dell’essere umano in assemblaggi biotecnologici ibridati – «è la morte di un essere umano entità che diventa il limite delle fantasie sulla transustanziazione postumana».
Chukrov vedeva, in quel momento, una mancanza di evitamento del lutto, un’indulgenza nella negazione, in una sostanziale mancanza di lutto collettivo che caratterizzava il nostro approccio alla pandemia.
Due anni e mezzo dopo, ancora qui, in qualche modo intrappolati nelle nostre piazzette e nelle nostre case che sono diventate, per noi, il mondo, siamo ancora incastrati in una ripetizione che ha modificato la nostra percezione del futuro. Cosa significa per noi ora abbracciare la vulnerabilità? E cosa c’è in gioco? E quali pratiche di immagini in movimento esprimeranno davvero chi siamo ora, dopo questa esperienza che ci ha messo a confronto con un senso del tempo così diverso? Sarà ancora la linearità del tempo e dello spazio che il cinema tradizionale ci ha consegnato come proposta principale, il modo migliore per esprimere il nostro rapporto con il mondo?
Nel percorso artistico e di ricerca che ho condotto sul documentario, il mio vagabondare curioso e insaziabile mi ha portato, negli ultimi anni, verso l’esplorazione dei confini e degli interstizi che connettono i linguaggi sperimentali del cinema, l’arte installativa e le nuove tecnologie. Questi nuovi confini possono, nonostante questo apparente restringimento dello spazio pubblico, aiutarci ad immaginare linguaggi per il nostro presente/futuro come luogo di trasformazione radicale?
In questo viaggio al limite del linguaggio contemporaneo dell’immagine in movimento, ho incontrato i margini della pratica e abitato il territorio in cui la mia pratica di regista e curatrice hanno trovato finalmente una casa. Qui ho potuto testimoniare il fiorire dell’incontro fecondo tra il documentario sperimentale e l’arte interattiva, intorno e oltre la rappresentazione; un orizzonte di ricerca in cui immersivita’ e partecipazione diventano una pratica politica sovversiva di rottura del logocentrismo, verso uno sguardo che metta in discussione la centralità unica e assoluta dell’umano e che si propone, per me, come proposta di cambiamento radicale..
La fotografa e studiosa Michelle Henning ha recentemente discusso della questione della confusione dell’esperienza, ovvero l’attrazione per i dettagli contingenti, come preoccupazione della fotografia contemporanea e, aggiungerei io, anche delle pratiche di immagine in movimento contemporanea. Nel corso della sua storia, il cinema sperimentale ha avuto sempre la capacità di raccogliere una proposta avanguardista – dal cinema dadaista, cubista e surrealista fino al cinema astratto e strutturalista – che mettesse in discussione la centralità assoluta della razionalità cartesiana, per abbracciare un universo inesplorato, attraverso l’untutored eye – sguardo senza tutore– professato da Stan Brakhage, fino ad evolvere nella video arte e nell’arte installativa, capace di rimettere in discussione il senso dello spazio dentro e fuori dall’opera e la partecipazione dello spettatore rispetto all’opera stessa.
Negli ultimi dieci anni, però, si é affermato un movimento eterogeneo, impenitente e radicale, dove si incontrano film ibridi e multi- genere, registi artisti e artigiani, interessati al film fisico e alla costruzione di esperienze immersive, dove la non linearità e i nuovi fotogrammi di rappresentazione del reale incontrano un pubblico attivo e partecipativo.
Questo pubblico si muove comodamente e fluidamente tra cinema e gallerie, in un luogo nel quale, oltre alla creazione, si radicano forme di ricerca pratica intesa come etnografia sperimentale e di pratica artistica volta a decentralizzare lo sguardo umano verso un’esperienza post umana e ad adottare una politica della dislocazione.
Un esempio molto interessante è Sensory Ethnography Lab, il lavoro dei registi Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel, autori, tra gli altri, del documentario sperimentale Leviathan (2012), nel quale il nostro testimoniare alla pratica ittica avviene ad opera di una Go Pro montata su una canna da pesca che ci conduce in modo vertiginoso dagli abissi del mare alla cima della nave, decentralizzando lo sguardo umano e portandoci ad immergerci in una natura mastodontica, indomabile e sublime.
Leviathan é stato definito, in modo paradossale, un film 3D: «un’opera che non finge la tridimensionalità ma la trova nella frenesia vorticante delle riprese, solo apparentemente lasciate in balia delle forze naturali»[3] e di esso é stata prodotta successivamente una versione installativa, expanded, dimostrando che, nel rifuggire ad ogni categorizzazione, gli autori si stavano interessando ad una concezione dell’immagine che non aderiva ad un rapporto tradizionale né con il tempo né con lo spazio.
«Eravamo più interessati nel flusso e nella fluidità che nella fissità e nella stasi, che sono invariabilmente delle illusioni. Forse non ci si fa subito caso ma le inquadrature sono poche e molto lunghe: la mobilità estrema dell’immagine fa sì che la percezione sia quella di un’illusione di montaggio»[4]– raccontavano gli autori, interrogati sulla questione dell’influenza del luogo delle riprese sulla forma del film, svelando un approccio che accomuna il loro lavoro alla video arte e all’arte installativa.
Un altro esempio é l’opera di Salomè Lamas, artista che lavora a metà tra documentario e arte installattiva, il cui film Extinction (2018), tra gli altri, descrive bene il suo lavoro, in esplorazione della violenza del capitale globale e dell’effetto che questa violenza ha sul corpo di persone emarginate – i “corpi periferici” come li definisce l’artista stessa – attraverso un’estetica che costantemente mette in discussione ed estende i confini del rappresentabile.
Il film esplora una zona di “conflitto congelato”, la zona della Transinastria, un’area in cui i combattimenti formali si sono fermati ma non è stata raggiunta alcuna riconciliazione reale. Questa esplorazione dei margini di legittimità , una ricerca sul disagio all’interno delle cornici – e dei vincoli – della geografia, si traduce in una esplorazione dei limiti della rappresentazione e di ciò che è rappresentabile. La stessa nota di regia di Lamas recita: «In una fertile occupazione della ‘terra di nessuno’, mi riferisco al mio lavoro come parafrasi per la pratica dei media critici. Invece di abitare convenzionalmente nella periferia tra cinema e arti visive, fiction e documentario, ho cercato di creare questi miei linguaggi, percorrendo nuovi percorsi di forma e contenuto, sfidando i metodi convenzionali di produzione cinematografica, modi di esposizione e le linee tra varie forme filmiche e artistiche di espressione estetica. Queste opere di “etnografia modificata” mostrano un interesse per la relazione intrinseca tra narrazione, memoria e storia, mentre usano l’immagine in movimento per esplorare ciò che è traumaticamente represso, apparentemente non rappresentabile, o storicamente invisibile – dagli orrori della violenza coloniale ai paesaggi del capitale globale».
E ancora, il lavoro di Nicolas Klotz e Elizabeth Perceval, che, con il film Nous disons revolution (2021), tra gli altri, creano un’esperienza sensoriale che a partire dal corpo attraversa la storia e le sue narrazioni, rovesciando la rappresentazione di schiavismo, colonialismo, razzismo, decostruendone i codici linguistici. All’interno e tra i frammenti di una materia eterogenea e caparbia raccolta negli anni, attraverso viaggi e incontri, inseriscono un insieme di testi e musiche che, giustapposti alle immagini, accendono la miccia della ribellione. «La questione delle frontiere per noi è centrale – spiegano in una nota Klotz e Perceval, – tra formati, generi, budget, ma anche tra film già realizzati e quelli in corso, perché ci sembra interessante vedere ciò che transita da un film all’altro, tra uno e l’altro, senza ordine né gerarchie di tempo o di formato. La nostra attuale filmografia, composta da una cinquantina di film, non è né finita né fissa: è un lavoro in corso da tre decenni, una cartografia dei tentativi che stiamo esplorando per filmare il presente e allo stesso tempo fare i conti con la Storia che ci ha preceduto e ciò che stiamo lasciando alle prossime generazioni. Il nostro è un cinema ‘post-documentario’, la cui missione è di rendere visibile ciò che la politica, l’amministrazione burocratica e il potere poliziesco stanno cercando di far scomparire. Si tratta di fare cinema per restaurare il reale»[5].
Questi autori e autrici, che cito solo come esempio di un movimento informale più ampio di artisti/e che si pongono in posizione critica, chiamano in gioco, nella loro pratica, categorie come fluidità , flusso, cartografia, frontiere, periferie, concetti che appartengono alla geografia e alla pratica della dislocazione. In questo territorio, multidisciplinare nel metodo, questo non gruppo eterogeneo rifonda il confine dentro e attorno al reale, mettendo in discussione il concetto tradizionale di rappresentazione, e ponendosi come obiettivo quello di aumentare il livello di immersione del pubblico, con il coinvolgimento dei corpi e degli affetti, in una spettatorialità che si vuole sempre più attiva e critica. Richiamando la politica del luogo, come elemento chiave per rifondare le pratiche del reale, queste pratiche entrano in relazione con la spatial turn, chiamando in causa l’elemento della fluidità dello spazio come orizzonte di messa in discussione di una presunta fissità del reale.
Come punto di vista radicale, prospettiva, posizione, infatti, «la politica del luogo chiama necessariamente coloro che vorrebbero partecipare alla formazione di una pratica culturale contro-egemonica per identificare gli spazi in cui iniziare il processo di revisione». Questa citazione é tratta dal famoso articolo di Bell Hooks La scelta del margine come spazio di apertura radicale [6]. Bell Hooks, una pensatrice straordinariamente radicale, ha lasciato un’eredità indimenticabile nel campo della teoria critica femminista e post-coloniale. Il suo lavoro si basava tutto sulla riflessione su quelle forme di teoria e pratica in grado di spingere contro i confini oppressivi stabiliti dalla dominazione di razza, sesso e classe e delle mutevoli relazioni di potere. Il suo lavoro non è mai stato impersonale, ma si è sempre discostato da questioni cruciali molto intime, come le questioni di “scelta” e “posizione”, ponendo così il campo della pratica culturale come spazio per atti estetici nuovi, alternativi e opposti. I pensatori critici secondo lei erano costretti a porsi domande cruciali, come: “come ci posizioniamo in relazione alla mentalità colonizzatrice”? Oppure, come “continuiamo a resistere politicamente con gli oppressi, pronti a offrire i nostri modi di vedere e teorizzare, di fare cultura verso quello sforzo rivoluzionario che cerca di creare uno spazio dove c’è accesso illimitato al piacere e al potere del sapere, dove è possibile la trasformazione?”.
Il lavoro di riflessione sul linguaggio come “luogo di lotta” sostenuto da Bell Hooks, quello di riflettere sulla propria risposta alle pratiche culturali esistenti e sui propri atti creativi, al fine di generare cambiamento, non è mai stato un luogo facile in cui vivere per lei. Le è stato richiesto di affrontare il proprio dolore, di intraprendere una difficile esplorazione di “silenzio”, “luoghi spogli” legati a “sconvolgimenti emotivi personali riguardo a luogo, identità, desiderio”. Le richiedeva di affrontare la propria “frattura” senza semplice riconciliazione o facile ricongiungimento e rinnovamento del sé. Una facile riconciliazione avrebbe significato per Bell Hooks solo un altro modo di usare il linguaggio dell’“oppressore”, per dare un modo di inquadrare l’esperienza di cancellazione del conflitto. A suo avviso, il lavoro di teoria critica richiedeva l’accettazione e l’inclusione di voci multiple, le nostre voci multiple, le voci multiple di altre persone, per avviare una “lotta della memoria contro l’oblio”, che non accetta facilmente il solo sedersi sulla nostalgia o sul desiderio di ciò che era una volta, ma piuttosto una lotta da ricordare per “illuminare e cambiare il presente”.
La mia posizione in questo contesto è quella di una persona legata alla pratica, disposta a sottoporsi a un processo autocritico, per riflettere sul percorso decennale nella realizzazione del film Lala . Sono anche, però, una studiosa che mette in discussione la legittimità dei propri metodi. Come artista e regista, ho lavorato negli ultimi dieci anni sulla frattura, attraverso una serie di progetti, durante i quali ho esplorato questioni legate al trauma intergenerazionale , che investe anche la mia storia personale. Il processo di filmare l’atto di riparazione come consapevolezza di una ferita [7] – ma anche come esperienza di spostamento da un luogo di giusto dolore ad uno di riconoscimento, è quello vissuto nella mia pratica. Il film, attualmente in fase di post-produzione è basato sulle storie vere di adolescenti e dai giovani adulti rom di seconda generazione, senza documenti. La maggior parte dei partecipanti è nata in Italia e proveniva da famiglie sfuggite alla guerra balcanica. Le loro famiglie furono accolte in Italia ma non furono ufficialmente riconosciute come profughe. Questo processo ha fatto sì che genitori e figli rimanessero illegali per diversi anni e li ha spinti ai margini della società nonostante la loro esperienza di integrazione nel sistema scolastico statale. Nell’ambito dello sviluppo del film, ho organizzato una serie di laboratori di formazione partecipativa con adolescenti rom, italiani e migranti, tutti invitati a lavorare fisicamente e concettualmente sull’idea del non detto . In quel contesto ho sperimentato diversi metodi: dalla metodologia Forum sviluppata nell’indagine teatrale di Augusto Boal[8], alla pedagogia degli oppressi sviluppata da Paulo Freire[9] alle tecniche fisiche del Tanztheater sviluppate da Pina Bausch.
Nonostante queste tecniche, abbiamo lavorato alla creazione di un ambiente sicuro in cui le persone fossero incoraggiate ad abitare fisicamente ricordi, sentimenti, storie che potessero essere espresse attraverso il loro corpo e la loro voce. All’interno di questo meccanismo, ogni partecipante si è sentito ispirato a esprimere sentimenti inespressi, desideri non elaborati, che hanno interagito con le emozioni degli altri partecipanti. Quello che è successo è stato “qualcosa come un’onda d’urto, l’incontro tra particelle cariche di enorme energia”, che ha alimentato l’immaginazione del film e ha portato alla luce le esperienze reali dei partecipanti ed è diventato il catalizzatore dello sviluppo della sceneggiatura. Nella prospettiva della scrittura partecipata su cui si basa il film, questo processo ha portato i partecipanti a formulare proposte che hanno arricchito la sceneggiatura iniziale, i personaggi, le atmosfere, l’universo emotivo, relazionale e visivo in cui si svolgeva il film.
La questione della ricerca di modi performativi per incarnare sentimenti non detti, traumi legati a una specifica condizione di marginalità nella società e un modo per rompere i meccanismi di autocensura, è emersa in questo processo in modo molto specifico. Mi ha fatto riflettere sul rapporto tra il documentario e il materiale performativo che abbiamo raccolto sia nella costruzione del processo filmico che nelle scelte stilistiche filmiche. Queste riflessioni mi hanno portato ad articolare questi strati nel film attraverso la creazione del rapporto tra un racconto di fantasia – la storia del personaggio Lala, ispirato a una storia reale – e un sostrato documentaristico – la storia della ragazza reale che aveva ispirato il processo e le storie reali di tutti gli attori non professionisti che partecipano al progetto. L’obiettivo principale era quello di consentire una partecipazione attiva del pubblico attraverso la consapevolezza di questa articolazione. Questa è per me una forma di resistenza alle rappresentazioni convenzionali di impotenza e subalternità – come esprime brillantemente Bell Hooks in Teoria femminista: dai margini al centro – un’esperienza di consapevolezza della costruzione del film che permette al pubblico di riflettere sul potere dinamiche incorporate nel loro/nostro sguardo.
In questo senso ho voluto riflettere sullo spazio del film, come spazio relazionale in senso critico e in senso politico, come luogo dove la singolarità e la complessità potessero coabitare, dove ciascuna delle storie esistesse autonomamente, ma vivesse anche in rispecchiamento con le altre, per creare un gioco di riflessioni e di apprendimento, nel quale il pubblico fosse attivamente coinvolto, come lo erano stati i partecipanti e tutti noi che avevamo partecipato al film.
[1] Letters against Separation on e-flux conversations, e-flux, aprile 2020, https://www.e-flux.com/announcements/325621/letters-against-separation-on-e-flux-conversations/
[2] Chukrov K., Five inexplicable things about the pandemic, in Letters against Separation on e-flux conversations e-flux, cit.
[3] Stellino A., Il Cinema come crisi epilettica I”, Filmidee, aprile 2013, https://www.filmidee.it/2013/04/il-cinema-come-crisi-epilettica/
[4] Ibidem
[5] Frontiere in fiamme, al 62° Festival dei Popoli, Teatri Online, settembre 2021, https://www.teatrionline.com/2021/09/frontiere-in-fiamme-al-62-festival-dei-popoli/
[6] Hooks B. Choosing the margin as a space of radical openness Framework: The Journal of Cinema and Media 36 (1989): 15-23.
[7] Attia K., “La réparation c’est la conscience de la blessure”, in Décolonisons les arts !, Cukierman, Leïla ; Dambury, Gerty & Vergès, Françoise, L’Arche Ḗditeur, Paris 2018, p.11
[8] Boal A., The rainbow of desire: The Boal method of theatre and therapy, Routledge, 2013
[9] Freire P., Pedagogy of the oppressed, Bloomsbury publishing USA, 2018
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