Psicomagia dell’amica geniale

La fiction di Saverio Costanzo dalla quadrilogia di Elena Ferrante

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MP5, Non Una Di Meno, Cheap poster art festival, Bologna 2018 – foto Michele Lapini.

Non ho mai letto nessun articolo scientifico, nessun documento programmatico, non ho mai sentito nessun discorso pubblico, non ho mai intercettato nessun convegno che fosse in grado come lo è stato la quadrilogia della Ferrante, dall’Amica geniale a Storia della bambina perduta, di dire quanto troppo è difficile essere bambina, ragazzina, studentessa, intellettuale, operaia, madre, moglie, compagna, donna sola.

Avevo dimenticato le sfaccettature dolorose, le cose che sa dire mentre ognuna di noi le attraversa silenziose, sicure tutte che siano segreti banali e, per questo, incondivisibili. Era rimasto il primo tomo, seguito dal secondo, poi dal terzo, poi dal quarto su una mensola che era facile vedere perché a ogni passaggio dalla stanza dispiegasse la forza psicomagica che ebbe per me leggerlo.

Al cinema Tibur di Roma l’anterpima dei primi due episodi, regia di Saverio Costanzo, restituisce tutto. Non è fiction, non è storiella, non è il romanzo fatto film. È la biografia di una storia collettiva, quello di un quartiere degli anni Cinquanta di Napoli, rione Luzzatti, Gianturco, dove il mare non bagna proprio niente per dirla con le parole della ortese che conosceva profondamente il ventre di questa città potente, dove l’umanità si rarefà perché la povertà scopre pazzia e cattiveria, facendo dimenticare la tenerezza. E lo sguardo è quello di due bambine, che hanno trovato insieme nella loro testa il segreto gioco di generare e rigenerare dall’interno il proprio io. Per sopravvivere alla miseria dei pensieri che girano attorno alla faida di due famiglie, quella dell’usuraio contro quella dei nuovi camorristi. Per sopravvivere alla violenza delle madri stanche sulle prime figlie, dei padri sulle madri, dei prepotenti sui miserabili.

Ma non è semplice questa alleanza tra di loro, è minata di continuo. Minata dal veleno del «se ce la fa lei e io no allora nessuna delle due», dai boicottaggi che poi si arenano, perché in fondo si è intelligenti solo quando si riconoscono le rispettive potenze, che tirano non solo loro stesse ma anche l altra in un gioco di specchi e moltiplicazioni e ferite che è l’amicizia che come un lenzuolo bianco appeso si muove al soffio dei talenti dispiegati, delle gioie rubate al mondo.

Resta un mondo di uomini per tutta la vita di queste donne, che dalle medie passano agli anni Sessanta poi incontrano i Settanta, un destino di operaia che incontra il sindacato per una, la Normale di Pisa per l’altra che decide di lasciare il marito professore universitario perché abbandona, non letto, il manoscritto che lei ha faticosamente messo insieme mentre cresceva i figli.

Come si racconta quello scarto sottile e silenzioso che esiste tra una donna che scrive e un uomo che scrive, che non cambia, passano gli anni ma non cambia. 

Come si raccontano queste epifanie del senso? Questa interruzione dell’automazione della cura? Come si racconta quello scarto sottile e silenzioso che esiste tra una donna che scrive e un uomo che scrive, che non cambia, passano gli anni ma non cambia. Il dolore e la colpa di anteporre ai figli il lavoro, lasciarli se hanno la bronchite. Il dolore di scegliere di non averne, il dolore degli aborti. Come si dice che il migliore dei compagni, nel libro il Nino Sarratore che seduce entrambe le amiche, il migliore dei compagni del movimento, il più brillante, quello che conosce a memoria la «nostra» letteratura in qualche frangente lo capisci che non l’ha capita la lezione, non fino in fondo.

O forse non l’abbiamo capita noi, perché le amicizie tra donne sono feroci e profonde, sono un dirsi le cose che non vuoi sentire dire. O forse l’abbiamo capita noi, perché quelle cose ce le diciamo. E questa è la recensione ingenua di una verità ingenua. Come dice Lila, che sente l’ingiustizia sociale e la abita, io voglio aderire alle cose. Aderire alle cose, quanto paghiamo per questa altezza. Però ci viene sempre di alzarci e di dire all’amica, per darle coraggio, «Lenu, nemmeno stavolta mi sono fatta niente».

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