Quando le gallerie sono galere
Storia di una Galleria inesistente
Fino a pochi anni fa la memoria di quelle che furono le gesta della Galleria Inesistente, del suo eccentrico, visionario, singolarissimo ideatore e animatore, l’italo-americano Vincent D’Arista, e dei vari soggetti che, per un lasso più o meno breve di tempo, intrecciarono la loro attività con quella del gruppo, era pressoché esclusivamente affidata ai ricordi dei protagonisti e fiancheggiatori dell’epoca, e a qualche documento di non immediata accessibilità. Solo negli ultimi anni, in concomitanza peraltro con la scomparsa dello stesso D’Arista , alcuni studi e iniziative hanno cominciato a mettere più nitidamente a fuoco la sua intricatissima vicenda, data la pluralità dei soggetti coinvolti, la frammentarietà e la discordanza dei ricordi, e l’ambiguità intrinseca dei suoi obiettivi.
Nel novembre del 2014, nell’ambito di uno degli appuntamenti dei Giovedì contemporanei del museo di Castel Sant’Elmo, Luciana Berti ha coordinato un approfondimento sulla storia del gruppo cui hanno preso parte alcuni dei membri più rappresentativi e conoscitori diretti dei fatti1. Dalle ricerche della giovanissima storica dell’arte è quindi scaturito il libro La galleria inesistente. Pratiche artistiche di un gruppo anonimo tra gli anni ’60 e ’70 (FrancoAngeli, 2015), che al racconto diacronico delle vicende del gruppo, partendo dalle origini fino a procedere oltre il suo periodo più celebre, unisce una serie di brevi interviste a coloro che furono gli esponenti più attivi, ma anche a familiari di D’Arista e a critici, artisti e soggetti che in qualche modo avevano delle testimonianze interessanti da riportare, e si chiude con un testo inedito, risalente al 1998, di Italo Barbati, fratello di Bruno Barbati, autentico braccio destro di D’Arista.
Ma cosa fu in definitiva la Galleria Inesistente? Una risposta sintetica e coincisa ci viene proprio da Italo Barbati: «L’idea centrale della GI era quella di instaurare un nuovo rapporto tra artisti e pubblico, tra artisti e galleristi. Tra pubblico e opera d’arte non doveva esserci più la mediazione del critico, figura superflua, né del gallerista. L’arte inoltre doveva intervenire direttamente nella realtà e nel contesto urbano, le azioni artistiche erano comunque azioni fuori, fuori dalle gallerie, dallo spazio urbano, ed esposte alla libera interpretazione del pubblico, dei passanti, che potevano e in un certo senso dovevano dare personali interpretazioni senza la mediazione del critico». Siamo pertanto di fronte, malgrado limiti e contraddizioni non trascurabili, aduno dei numerosi tentativi, tipici degli anni Sessanta e Settanta, di dare seguito effettivo ai progetti di critica dell’istituzione arte e di trasposizione dell’arte nella vita quotidiana.
Antefatto ancora meno conosciuto di tutto il resto della storia della Galleria Inesistente è la mostra-happening Teatro Lampo/Poesia Esplosiva, tenuta da Barbati e D’Arista presso la Modern Art Agency del celebre gallerista Lucio Amelio nel dicembre del 1968, una serie di pannelli monocromi intervallati da strisce metalliche che, nel momento in cui venne spenta la luce, furono percorse da un dispositivo che le inceneriva ad una ad una, lasciando emergere frasi composte da giochi di parole, retaggio degli esordi di D’Arista da poeta visivo. L’evento potrebbe essere inteso come una sorta di iconoclastico commiato dal mondo degli spazi segregati e protetti dell’arte ufficiale, tanto è vero che nel febbraio del 1969, Barbati e D’Arista arrivarono, insieme agli artisti Giannetto Bravi, Maria Palliggiano, Gianni Pisani ed Errico Ruotolo, a firmare l’atto di fondazione della Galleria Inesistente, che già riportava il programma della serie di azioni da realizzare nei mesi successivi, benché non tutte ebbero effettivamente luogo. La prima importante, memorabile, esplosiva – è proprio il caso di adoperare questo aggettivo – azione avvenne nell’aprile del 1969 con il Risveglio del Vesuvio, quando un mucchio di copertoni di automobile vennero bruciati affinché si producesse una nuvola di fumo e fosse così simulata l’imminenza di un’eruzione, gettando inevitabilmente nel panico la popolazione.
Nel marzo dell’anno seguente fu la volta dello striscione collocato nella Villa Comunale sul quale si leggeva Qui dentro una mostra fuori della Galleria Inesistente, ovvero di una mostra che non era nulla al di fuori del comunicato stampa, e della limitrofa Scultura pericolante di Bruno Barbati, una struttura composta da assi di legno inchiodate e montate a intervalli irregolari al fine di creare un parallelepipedo alto alcuni metri che dava l’impressione di essere provvisorio e instabile. Ultima azione della Galleria Inesistente prima dell’entrata di nuovi membri e dell’uscita di alcuni dei vecchi fu, nel novembre del 1970, la Caduta delle braccia, ben 15.000 braccia di plastica lanciate da un elicottero per abbattersi come una pioggia improvvisa sulla città di Napoli, un’azione in cui la personalità di Pisani risultava nettamente preponderante, tanto da contravvenire all’anonimato che la Galleria Inesistente si era data fin dal principio per statuto.
Il gruppo ritornò a disturbare il flusso ordinario della vita cittadina – dopo circa un anno di stasi – all’inizio del gennaio 1972 con l’aggiunta di un quinto leone di gesso ai quattro leoni in marmo del celebre monumento di Piazza dei Martiri, che fu però subito preso a randellate e distrutto da una polizia sospettosa. Avendo ormai Bravi e Pisani definitivamente abbandonato l’esperienza – quasi subito lo aveva fatto Ruotolo, mentre la Palliggiano era morta suicida nel 1969 -, era subentrata ad essi l’artista Maria Roccasalva, cui si doveva la realizzazione materiale del quinto leone, nonché il coinvolgimento dello scultore Gerardo Di Fiore per il nuovo progetto che avrebbe dovuto rincarare la dose, aumentando a dismisura «la presenza leonina a Napoli». Il 16 giugno seguente gli artisti presero così a scaricare dal camion e a sistemare, sempre nell’area di Piazza dei Martiri, una ventina di leoni faticosamente plasmati nei sei mesi precedenti, ma già la mattina dopo sopraggiunse la questura a sequestrarli.
L’azione fu concettualmente complicata dal sopravvenire di Joseph Beuys, il quale, tenendo proprio in quei giorni presso la Modern Art Agency una sua personale, approfittò per fare amicizia con gli artisti della Galleria Inesistente e timbrò alcuni leoni come ad apporvi una sorta di firma propria. Qual è il senso di queste operazioni? Vi era davvero un’allusione all’elezione del presidente Giovanni Leone, che avveniva proprio in concomitanza con l’episodio del quinto leone, o era solo una coincidenza? Il bersaglio, specie nell’azione di giugno, non era piuttosto Lucio Amelio in quanto rappresentante del potere mercantile dell’arte? E come interpretare l’irruzione di Beuys? Come un punto a favore di D’Arista e compagni o piuttosto una sorta di contromossa dello stesso gallerista napoletano, tesa a far sì che il giorno dopo su tutte le fotografie dei giornali emergesse come figura dominante l’artista tedesco? «La Galleria Inesistente» commenta la Berti, «probabilmente negherebbe tutte queste interpretazioni preferendo una sospensione del giudizio affinché emergano le reazioni più irrazionali».
Il volume si sofferma su altre azioni ancora, come Il filo di cotone verde del 1973, quale metafora di «una soglia magica, una linea d’orizzonte sovrapponibile a quella esistente»; su azioni rimaste esclusivamente sulla carta, come Il Solstizio, una gigantografia della nascita del sole sul mare o ancora sull’attività solitaria di D’Arista dopo l’allentamento dell’attività del gruppo che segue l’episodio del filo di cotone, improntata al tentativo di «attaccare dall’interno la complessa struttura del mondo dell’arte, con opere difficilmente mercificabili e che interpellavano, con domande dirette, galleristi, critici e curatori mettendo in discussione il loro potere».
Emblematici di questo periodo sono il manifesto con il ritratto di Achille Bonito Oliva e la scritta Sono Achille Bonito Oliva il critico dunque il coglione o la performance Don’t step on me, tenuta presso lo Studio Trisorio, dove il gallerista giace a terra legato, un’operazione che oggi – avvezzi alle numerose provocazioni di Maurizio Cattelan e affini, stentiamo probabilmente a percepire nel suo grado di originalità – delineando così finalmente un quadro della parabola della Galleria Inesistente quanto mai approfondito e dettagliato e facendo dunque registrare un consistente progresso nelle ricerche sull’argomento. Non di meno è la stessa autrice a riconoscere di non aver certo pronunciato l’ultima parola sull’argomento, giacché «sono tante le riflessioni che scaturiscono dal riesame di questa esperienza e che occorre approfondire da un punto di vista critico», ma, per ora, «si è preferito dare priorità ad una sistematizzazione della storia del gruppo».
Nei prossimi anni resta soprattutto da inquadrare più precisamente la Galleria Inesistente in un contesto italiano e internazionale dove si puntava sull’uscita dagli spazi convenzionali, ma anche in quel movimento, tipico dei medesimi anni, che solo dopo è stato denominato Critica istituzionale, senza per questo tacere l’ambivalente rapporto di amicizia e rivalità con Amelio e con tutti gli altri soggetti del sistema ufficiale, ché anzi questa ambivalenza è costitutiva della stessa Critica istituzionale, fin dalle origini. La storia di D’Arista e compagni è infine, non di men, un buon esempio per il futuro, per ogni artista e per ogni uomo in generale che non sopporta vedere la creatività ingessata in cerimoniali tristi e non di rado interessati.
Note
↩1 | In questo senso si segnala, tra le pubblicazioni, anche La contestazione dell’arte (Phoebus, 2013) che fornisce una prima ricostruzione dell’attività della Galleria Inesistente nel tentativo di delineare una storia dei fenomeni artistici che, a cavallo tra la seconda metà degli anni Sessanta e i primi Settanta e in ambito campano, sconfinano nello spazio della vita quotidiana. |
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