Un intellettuale europeo

La palestra di Gennaro Vitiello

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Gian Maria Tosatti, Sette Stagioni dello Spirito, 2017 - veduta dell'installazione, Museo Madre (Napoli) - Courtesy l'artista e Fondazione Donnaregina per le Arti Contemporanee. Foto: Amedeo Benestante.

«Sono sempre più convinto che ricordare non sia soltanto un dovere verso chi non c’è più, ma che costituisca un’occasione per rimettere in circolo le energie che in alcuni momenti della vita abbiamo avuto la fortuna di condividere con gli altri». Da tale convinzione nasce Palestre di vita. Omaggio a Gennaro Vitiello (Ombre Corte, 2017) di Ernesto Jannini. Studente del Liceo Artistico di Napoli, quando entra in contatto per la prima volta con Gennaro Vitiello, regista teatrale, fondatore del Teatro Esse e quindi della Libera Scena Ensemble, nonché, docente di pittura: «Gennaro iniziò a leggere un canto di Dante e a commentarlo come mai avevo sentito fare. Ciò che mi colpì, oltre al suo particolare timbro di voce che rivelava una grande conoscenza e abilità di recitazione, furono i collegamenti che riusciva a stabilire tra il testo e la nostra vita. Eppure Dante lo studiavamo con passione, la forza attrattiva del Sommo Poeta non ci era estranea; ci mancava, però, quel passaggio essenziale per tramutare il testo in una esperienza, cioè – come sosteneva Nietzsche – tradurre in vita ciò che si è imparato, restituendo la conoscenza alla vita».

Le modalità attraverso le quali Vitiello approccia il testo dantesco sono assai prossime al suo metodo di regista. A tal proposito Jannini riporta opportunamente una dichiarazione del 2013 del celeberrimo attore casertano Toni Servillo: «In una città (Napoli) che ha una tradizione teatrale nobile ma anche sufficiente a se stessa, pregio e limite insieme, che può portare alla ripetizione manieristica di un repertorio, Gennaro ha portato invece l’Europa, mettendo al centro del suo interesse soprattutto Brecht e dentro il teatro napoletano una curiosità per gli altri repertori. E poi Vitiello metteva insieme l’alto e il basso negli spettacoli prima che diventasse di moda». Consapevole dunque della ricchezza, ma anche della zavorra, che una gloriosa tradizione può diventare, così come della preziosità delle sue «vaste conoscenze letterarie», ma anche della necessità di valorizzarla attraverso l’ancoraggio alla «dimensione quotidiana della vita», il regista Vitiello si fa così promotore di un paradigma in cui cultura europea e cultura locale, cultura alta e cultura popolare non fanno a pugni, bensì si sostengono reciprocamente come due scalatori in cordata. Esempio di cultura popolare molto amato da Vitiello è quello degli «straordinari spettacoli del teatro dei pupi», eventi che, ricorda De Matteis nella prefazione, si tengono a Torre del Greco per iniziativa di «Ciro Perna, il capofamiglia di una tribù di pupari», che «aveva un baraccone viaggiante grazie al quale poteva realizzare i suoi spettacoli a puntate».

Una esperienza del genere confluisce nella messa in scena dell’Ur-Faust di Goethe, il primo spettacolo cui Jannini partecipa, interpretando il giovane studente sedotto da Mefistofele. L’occasione scaturisce dalla visita di Vitiello allo studio dell’architetto Riccardo Dalisi al quale «aveva chiesto di collaborare ad un suo spettacolo con alcuni oggetti poveri che Riccardo stava creando in quegli anni. Per me fu l’occasione per essere coinvolto nell’Ensamble». Ora Vitiello lavora infatti affinché «L’importanza della marionetta, già presente nel teatrino costruito da Goethe stesso» si riveli «non soltanto un punto di partenza, ma una scelta registica sostanziale. Durante le prove, noi attori fummo invitati a interpretare il nostro personaggio in chiave assolutamente non naturalistica, ad allontanare dal volto le nostre emozioni ed espressioni, a sforzarci di assumere una fissità nel viso simile alla marionetta. In sostanza ognuno di noi doveva creare la propria marionetta».

Il teatro delle marionette del drammaturgo e poeta tedesco Heinrich von Kleist assurge, in tale non facile impresa, ad autentico «punto di riferimento poetico e letterario», che insegna «a sottrarre peso alla corporeità dell’attore per poter accedere a quella grazia propria della marionetta». In tal modo si viene ad instaurare «un maggiore e più potente contrasto con la forza espressiva del dramma goethiano». Il principio della contaminazione tra alto e basso si ritrova anche nella circostanza per cui «come dalla voce di Marisa Bello, che interpretava Margherita, affiorava la venatura del dialetto pugliese, in noi altri, anche se in maniera non troppo marcata, trapelavano le sfumature della cadenza partenopea. Questi aspetti nel parlato non costituivano un dramma per Gennaro. Pur limitando i nostri eccessi di intonazione, egli riteneva le inflessioni dialettali elementi costitutivi dello spettacolo. […] Cogliendo pienamente l’esprit giovanile di Goethe, in fondo, Vitiello iniziava ad orientarci verso ciò che più gli stava a cuore: quel teatro popolare che, in ultima istanza, con crescente consapevolezza, illuminerà il suo percorso di regista; un teatro popolare sostenuto dalla grande ricerca della poesia, unica sua vera preoccupazione».

Con lo spettacolo successivo, La morte di Empedocle di Friedrich Hölderlin si rimane «nella sfera della cultura tedesca, in particolare nell’ambito di quel mito della grecità, che all’epoca obbligava poeti ed artisti ad intraprendere il viaggio nelle terre del Bel Paese per afferrare lo spirito della cultura della Magna Grecia, la magia dei luoghi, il paesaggio e la luce, l’eterna bellezza dell’arte». Dopo la rappresentazione goethiana sulla scorta di Kleist, «l’asticella doveva essere spostata più in alto e il burattino trasformarsi in una supermarionetta», figura teorizzata dall’attore e regista teatrale britannico Edward Henry Gordon Craig agli inizi del XX secolo, per il quale «l’attore in carne ed ossa era in realtà di ostacolo al teatro vero e proprio, riferendosi al carico di soggettività insito nella persona reale, con le sue emozioni, la sua mente, e quanto altro; un materiale, l’uomo, non facilmente controllabile, che interferisce con il raggiungimento dell’arte più alta». Il teatro deve essere insomma «concepito sulla base del divino movimento e l’attore farsi macchina teatrale», discorso che si riallaccia così alle teorie di Kleist, ma tradisce anche echi che, se paiono anticipare di oltre cinquant’anni la filosofia di Andy Warhol, potrebbero più generalmente essere intese come i primi passi della linea disumanizzante che attraversa tutta l’arte del Novecento e oltre.

Le suggestioni della supermarionetta ritornano quando, avendo condotto la compagnia al Museo Archeologico di Napoli «Per risvegliare in noi la grecità», Vitiello suggerisce a i suoi attori «di far muovere e parlare una scultura greca […] assumere la posa iniziale della statua da imitare e poi provarsi a metterla in movimento». Il tentativo di ridestare interiormente lo spirito dei greci, del resto, non è circoscritto alla musealità comunque anestetizzante dell’Archeologico: su invito del loro mentore, «anche noi come Hölderlin, provavamo ad evocare il senso della Magna Grecia, rintracciandolo nei luoghi a noi familiari, tra i decumani di Napoli, sulle spiagge di Capo Miseno e Torregaveta, nei luoghi mitici di Enea e della Sibilla Cumana». Egli li esorta cioè «a compiere un percorso a ritroso nella storia, per andare a toccare l’essenza di quella civiltà che nel sud aveva fondato tante colonie. Era un’impresa ardua, ma piena di fascino, con al centro il nucleo fondante del mito del mediterraneo, quello stesso che era penetrato nell’anima di Hölderlin».

La necessità avvertita da Vitiello, chiarisce Jannini, «è quella di sprovincializzare il teatro», affrontando «i testi dei mostri sacri» ponendoli «in contatto con l’essenza popolare del teatro; il che in definitiva – sosteneva Gennaro – voleva dire rendere il miglior servizio ai testi sacri stessi». Da qui anche l’interesse per la sceneggiata, di gran lunga prevalente, ad esempio, su quello per il teatro di Eduardo De Filippo. «Ora, se non fosse troppo azzardata l’ipotesi», continua Jannini, «la tensione di Gennaro rivelava in filigrana l’impronta dell’antico teatro greco, quando gli aspetti religiosi, politici e agonistici si integravano in un tutto. La funzione del teatro greco, in particolare il teatro del V secolo a.C., era anche educativa». La «visione culturale» di Vitiello, insomma, «essenzialmente legata al concetto di teatro per la polis», un orientamento che, consolidato dal suo incarnare, secondo la definizione di De Matteis, «quello che oggi verrebbe definito un intellettuale europeo, cioè aperto e in dialogo serrato con il resto della (futura) comunità», trova una sua esemplare concretizzazione nella Prima Settimana Internazionale di Teatro Laboratorio, in occasione della quale «i gruppi teatrali invitati si alternarono dal 2 al 9 dicembre nel teatro Orione».

Un intellettuale europeo non è naturalmente soltanto colui che importa nel suo territorio operatori provenienti da diversi luoghi del continente, ma anche chi esporta al di fuori del suo territorio i propri spettacoli, del resto il viaggiare ieri molto più di oggi è un mezzo fondamentale per tessere contatti con realtà distanti dal proprio territorio. Non di meno Vitiello è quanto di più lontano ci possa essere dall’europeismo provinciale di tanti sedicenti europeisti del XXI secolo, quelli che hanno visitato tutte le capitali europee grazie ai voli low cost ma non hanno alcuna autentica cognizione del territorio a loro più prossimo. La sua compagnia si esibisce infatti in Baviera, a Würzburg, a Varsavia; visita Cracovia e persino Auschwitz, esperienza in seguito alla quale, confessa Jannini, «la mia visione della vita cambiò»; tuttavia tiene parimenti «spettacoli nei paesi più sperduti della Campania, recitando nelle piazze a diretto contatto della gente, esposti al giudizio immediato del pubblico».

Il lungo viaggio europeo corrisponde sostanzialmente all’ultimo atto del sodalizio con Vitiello: «In seguito Silvio ed io lasciammo il teatro, con sommo dispiacere di Gennaro. Per noi la strada da percorrere era un’altra: quella della Pittura». In realtà per tutto il resto del decennio Settanta non si tratta per loro di una pittura in senso classico, ma di una radicale teatralizzazione della pittura, che trova nella strada il suo territorio d’azione privilegiato. È questa in sintesi la poetica del gruppo degli Ambulanti, di cui Merlino e Jannini divengono parte integrante. In seguito, con il mutare dei climi politici e sociali, Jannini torna ad una pratica artistica più tradizionale pur recidendo mai del tutto l’impronta teatrale della giovinezza. Per quanto riguarda il teatro vero e proprio, egli vi torna però solo di recente e solo «come scenografo saltuario presso il Teatro Pacta di Milano», città nella quale vive ormai da diversi decenni. «Stare con gli attori, respirare l’atmosfera della preparazione dello spettacolo è un’esperienza irrinunciabile».

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