Quel che resta del mondo è sempre abbastanza

Su «Melanconia e fine del mondo» di Paolo Godani

Gigi Cifali, Tree Camouflage #07, 2009-15, cross-processing, Courtesy l’artista
Gigi Cifali, Tree Camouflage #07, 2009-15, cross-processing, Courtesy l’artista

Non è la prima volta che la teoria critica si misura con i sentimenti. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, agli albori del neolibersimo e a post-fordismo insediato, i nuovi tratti della forza-lavoro, ovvero le sue forme di vita, precipitavano in un’analisi delle passioni tristi che avrebbe provato a cambiare il segno degli umori produttivi di cui il Capitale ha (tuttora) bisogno. Il seminario prima e poi il volume collettaneo dedicato ai «sentimenti dell’aldiqua» partivano infatti da opportunismo, cinismo e paura per leggere il nuovo orizzonte di un disincanto che sarebbe diventato quel «cattivo nuovo» che ancora definisce la nostra esperienza.

All’appello dei cattivi sentimenti ne mancava uno, la malinconia, al quale oggi pone rimedio Paolo Godani col suo Melanconia e fine del mondo (Feltrinelli 2025) 

All’appello dei cattivi sentimenti ne mancava uno, la malinconia, al quale oggi pone rimedio Paolo Godani col suo Melanconia e fine del mondo (Feltrinelli 2025). L’astuzia metodologica è rimasta invariata: non si tratta di cercare l’antidoto al peggio in una dialettica delle passioni opposte, ma di battere quelle stesse strade che restano comunque sempre al di qua di un orizzonte che, come insegna l’esperienza, è linea mobile ma mai superabile. Al cinismo non si risponderà con la benevolenza, all’opportunismo con la solidarietà e, vale anche per questo volume, alla malinconia con l’incitamento all’azione. Non per pessimismo della ragione, ma poiché l’ordine mondano (ed epistemico) è quello di una postmodernità della quale non si dà ribaltamento né rovescio, nessun altrove né fuori, e per questo la teoria critica non può che bazzicare quegli stessi luoghi del peggio provando semmai a variarne il segno, la tonalità e l’affetto. È quella postura critica che Michel Foucault chiama «sagittale» e la cui profana parafrasi fa così: ridotta all’inservibile la chiave inglese, perché non provare una chiave di Sol.

Melanconia e fine del mondo ci guida dunque lungo le strade dell’affezione malinconica, che per fondale non può avere altro scenario se non proprio il collasso dell’infra-mondanità in cui essa dispiega i propri sintomi. La fenomenologia del soggetto malinconico, piuttosto varia, interpella dunque altrettante posture che non sono la semplice espressione di varietà caratteriali dei melanconici, ma che dispone diversamente l’ordine del mondo umano. Così, la disaffezione dell’adolescente malinconico per lo stato presente del mondo è anche la tensione a cercarne un altro. La melanconia di chi ha rinunciato a ogni ragione per «l’insensatezza di un certo mondo» si dispiega in un mondo polemico in cui l’unica ragione possibile coincide col tenersi questo. Poi c’è la malinconia di un iperrealismo che guarda al mondo in preda all’ossessione di indicarne il peggio, dove seguendo la performance del dito puntato si finisce inevitabilmente a guardare lo stesso schermo schifoso. Ma la posta in gioco del libro di Paolo Godani sta nella quarta postura, quella del «lato estatico dell’inibizione». Uno pseudo-malinconico che, come quello vero, «ha disinvestito gran parte delle proprie energie e dei propri desideri, ma, diversamente da quello, si rende conto del fatto che proprio quel disinvestimento è la condizione dell’emergere di un’altra visione delle cose, dell’apparire di un altro stato del mondo».

La parabola del volume è dunque fin da subito disegnata: da un mondo in fine a un mondo infine, si tratta di scartare ogni metodo che abbia tra le sue premesse e tra le sue tensioni quelle del trascendimento delle cose così come sono e che, nel seguire la china malinconica della rinuncia a qualunque mezzo per cambiarle, finisca per «lasciarsi attrarre dall’altra parte della sfera». E in questo l’autore del volume è molto generoso, poiché non occorre aspettare la fine del libro per sapere cosa vi troverà: «un’estetica e tutta una metafisica post-melanconiche». Le due discipline tradurranno una postura dove il soggetto, «puro occhio del mondo», potrà godere di una contemplazione inaspettata delle cose […] e dell’eternità, «non più solo come spettacolo, ma come ordinamento cosmico, dove ogni tratto, lineamento, declinazione non è che un’espressione necessaria della sostanza dell’universo».

Il progetto è condivisibilmente ambizioso e il popolo dei melanconici a cui allude Paolo Godani è forse più nutrito di quanto sembra. Il proposito non può, infatti, non risuonare con le recenti ricerche sulla «vita estrinseca» di Felice Cimatti e sul suo «occhio selvaggio», quella «vita che non rimpiange nulla, e che non spera nulla» e che incalza il soggetto a destituire «lo sguardo sovrano perché il mondo possa farsi vedere». O con quelle più classiche di Pierre Hadot che, dalla filosofia antica e dentro tutto il moderno, ripercorre i fili di una tradizione di esercizi spirituali e tecnologie della vita che è «una volontà filosofica cosciente e deliberata di adattarsi alla realtà così come si presenta». Una combriccola di pensatori che, per lo meno da Epicuro, ha messo a tema quel nodo problematico di una vita individuata che è lacerazione continua nella continuità dell’essere e che ripiega in un’interiorità incapace di esporsi al mondo, e per questo ne soffre.

Ma, fatto salvo per il global warming e per qualche altra impronta maggiore, il mondo può anche fregarsene che un mammifero particolare non possa vivere la propria vita altrimenti che generando un fuori da sé. E infatti, in assenza di un trascendimento, scopo della filosofia non è ricucire lo strappo del mondo, che semmai è compito del management del green deal, ma trovare i termini per condurre un’esistenza grossomodo accettabile proprio a partire da quello strappo che vuoi e rivuoi, vivendo, continuiamo a produrre. E infatti l’ironico Ernesto De Martino, che segna l’incipit della ricerca di Paolo Godani, in merito al problema segnala:

«Certo il mondo può finire: ma che finisca è affar suo, perché all’uomo spetta soltanto rimetterlo sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di nuovo. L’uomo non può che recitare questa parte, combattendo di volta in volta, fin quando può, la sua battaglia contro le diverse tentazioni di un finire che non ricomincia più e di un cominciare che non includa la libera assunzione del finire. Il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte, anzi, in ultima istanza, deve essere questo stesso progetto e questa stessa lotta. Ebbene, che l’ultimo gesto dell’uomo, nella fine del mondo, sia un tentativo di cominciare da capo». 

Può suonare volontarismo, ma da antropologo De Martino sa che il tema della fine del mondo non ha alcuna novità e che se nella postmodernità si pone come un inedito è perché tra i documenti che storicamente si sono misurati con la questione (emancipazione politica, escatologia religiosa), ve n’è uno che non fa finire il mondo, ma la possibilità di condurvi una vita umana. È il cosiddetto documento psicopatologico che per De Martino non ha niente a che vedere con la nevrosi che la letteratura del Novecento espone, poiché si tratta non di malinconia ma del crollo della capacità di stare al mondo. Non è ignorabile il portato di sofferenza irrimediabile che coincide con il venir meno della «presenza» e il conseguente interrogativo sulla crisi non del mondo in quanto tale, ma della facoltà umana di generarlo. De Martino assume infatti il dato costitutivo di una vita umana a cui tocca, per non impazzire, ricucire incessantemente quello strappo con il mondo senza il quale, ovviamente, non può vivere. Il delirio da fine del mondo e l’apocalissi psicopatologica che l’accompagna non sono dunque i documenti narrativi che da decenni fanno da trama alle fiction televisive più disparate, ma il resoconto di una clinica psichiatrica con cui l’antropologo si confronta e che segna il passaggio da un animale nevrotico a un animale psicotico. E, come giustamente osserva Marcello Massenzio, benché collocato in un lessico dialettico, lo sforzo demartiniano è quello di tenere sempre giunti l’interiorità e l’esteriorità, «il sé e il resto, coesistenti e complementari», poiché la vita umana può stagliarsi solo dentro questa faglia, tra l’istituzione di mondanità e la sua abolizione.

L’indicazione del libro di Paolo Godani è, da parte sua, quella di accelerare sull’inclinazione malinconica e fare della dispersione del soggetto la risposta alla catastrofe, di afferrare l’indifferenza come sentimento di uguaglianza, l’inibizione dell’azione come transito alla contemplazione, l’assenza di desiderio come nuova disposizione nei confronti delle cose, «su un’unica, immensa superficie che coincide con il mondo stesso». La piega del dentro verso il fuori e la variazione sarà di tonalità, perché tutto resterà tale e quale, senza il minimo rovesciamento, senza rivoluzioni, ma anche senza discontinuità in un mondo popolato da malinconici «all’altezza del senso della fine che caratterizza il mondo contemporaneo». Questa la tesi finale del volume che consegna il soggetto all’immanenza e a «essere un puro occhio del mondo che attraversa ed è attraversato da ogni cosa». La suggestione di chiusura dell’autore è allora quella di un cantiere estetico, affettivo e metafisico che ci disponga verso «un’esperienza, non religiosa ma mondana, dell’indistruttibile».

Siamo qui in odore di proselitismo e la variazione di tonalità assume l’aspetto di un’intima conversione, segnalando la posizione di un pensiero che evita di chiedersi chi siano gli altri. Perché, in fondo, che ne sappiamo se non si siano già tutti accordati dentro un’infra-mondanità in cui «tutto [ha] il senso che le spetta»? Quale fenomenologia può infatti indicare una disposizione soggettiva che non ha tratti variati attraverso cui riconoscere la nuova condizione? Saremmo anche tentati di dire che l’autore ha ragione e che i convertiti sono molti di più di quanto non si pensi. Sì, esiste un sapere della vita tra le rovine che si muove sensibile lì dove la propria lambisce il finire. Un sapere pratico orientato al minimalismo, lasciato a se stesso a contemplare le griglie alla finestra con sopra i piccioni in un reparto di terapia intensiva pensando che è un bel paesaggio. Quale sguardo presuntuoso ci fa dire, infatti, che la popolazione di Gaza è fatta di resistenti e non di malinconici, capaci di indifferenza e di assumere una postura contemplativa tra i detriti di cemento dove destreggiano la loro esistenza?

Si badi che non c’è sarcasmo in queste domande, perché chiunque abbia il tempo di ambientarsi nei pressi della propria fine ha ben presente due cose: che quelle cose disperse fuori di sé e che per cattiva abitudine chiama «mondo» andranno avanti in sua assenza e che pensare insieme la propria dissoluzione dentro quelle cose e la loro continuità è il modo in cui si impara a vivere nei paraggi della fine. «Cosa fare quando il tuo mondo va in frantumi?» si chiede Anna Tsing ne Il fungo della fine del mondo. «Io esco a camminare e, se sono davvero fortunata, raccolgo dei funghi. I funghi mi commuovono profondamente […], perché spuntano in modo in atteso, ricordandomi la fortuna di trovarsi al momento giusto nel posto giusto. E allora so che c’è del piacere tra i terrori dell’indeterminazione», è la risposta. È una conversione estetica e metafisica quella di Tsing, che implica tuttavia due cose: che il mondo è ancora lì, nella sua devastazione e nel suo disordine senza fine, e che pensare attraverso la propria precarietà fa dell’indeterminazione l’a priori di una vita possibile.

Percepire la caducità delle cose, che nella teoria della malinconia di Godani apre la strada al collocarsi su una terra piatta di parità tra gli enti, non significa tuttavia abolire la consistenza del fuori in qualunque forma possibile: quei funghi che spuntano, quei pappagalli molesti che gridano, quelle opuntia che ricrescono a Gaza, quei lupi che proliferano sotto il reattore nucleare. Perché se il coro dei malinconici indica anche con ragione l’impasse costitutiva della nostra modernità, ovvero la patina culturale che rende abitabile le regioni naturali, o il senso del mondo come precondizione del senso di un’esistenza finendo per negare entrambi, indica anche un punto da cui parlano: una volta convertiti, abbagliati dall’essere, continuano a non vedere le relazioni. Dentro un mondo finito, la ricerca di Anna Tsing ripensa infatti la prassi umana non per fede nella rifondazione, ma perché è capace di accogliere le affordances degli enti che conducono la loro vita e di accettare gli inviti all’uso in una relazione possibile e indeterminata con tutti gli altri, inclusi gli umani. Senza tirare in ballo la capacità di agire delle cose, collocarsi nel fuori non può significare altro che mettersi dal punto di vista della relazione stessa in una «comunità di destino» che non è quella della storia umana, ma della storia del vivente. Allora, forse, più che di fine del mondo per il melanconico si dovrà parlare di fine del transfert, della sua incapacità di scommettere (tanto prima che dopo) su quella che Baptiste Morizot chiama la «potenza che gli esseri viventi hanno di tornare in gioco, nonostante tutto». È quella vita intrecciata che continuiamo a chiamare mondo, da «animali volubili che indagano sul mistero di un mondo condiviso».

Riferimenti bibliografici

Aa.Vv., I sentimenti dell’aldiqua. Opportunismo cinismo paura nell’età del disincanto, Theoria, Roma 1990 [nuova edizione a cura di Marco Mazzeo 2023].

Ilaria Bussoni (a cura di), ilmondoinfine. Vivere tra le rovine, Catalogo della mostra (13/12/2018 – 23/01/2019, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma 2018.

Felice Cimatti, La vita estrinseca. Dopo il linguaggio, Orthotes, Napoli-Salerno 2018.

Felice Cimatti, L’occhio selvaggio. Sul lasciarsi vedere, Quodlibet, Macerata 2024.

Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, trad. it. Einaudi, Torino 2019.

Pierre Hadot, Ricordati di vivere. Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2009.

Marcello Massenzio, La fin du monde dans l’oeuvre de Ernesto De Martino, in Ernesto De Martino, La fin du monde. Essai sur les apocalypses culturelles, éditions EHESS, Paris 2016.

Baptiste Morizot, Sulla pista animale, trad. it. Nottetempo, Milano 2020.

Anna L. Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, trad. it. Keller, Rovereto 2021.

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