In a manner of speaking

Tecniche per mantenersi sospesi su una voragine con o senza baci. A proposito del libro di Massimo Recalcati "Mantieni il bacio".

Claire Fontaine, Orgasm Neon (Female) 2009
Claire Fontaine, Orgasm Neon (Female), 2009.

Enea: «Voglio accendere quella lampada luminosa… come Venere, come Marte, come Livia».

Per Livia, per Enea, due bambini. 

Durerà? Oltre questa estate di presenza, dove tutte le cose stanno lì dove devono stare, niente scarta da niente e la vita scorre così naturale da non sembrare nemmeno un miracolo? 

È uno di quei libri che afferri correndo nel bookshop di un aeroporto in quei pochi minuti che ti separano da un volo estivo verso un’isola greca. Lo leggerai sospeso, nel transito mentre l’orizzontale delle righe si sovrappone alla linea metallica di una panchina sulla quale dorme allungato il tuo compagno, nella ricerca affannata di una ricetta per far durare quell’esperienza umana dell’eternità chiamata amore. Passerà le risate cristalline a strapiombo sul mare, il riverbero minerale che fa eco al respiro dei viventi, l’azzurro cosmico che colloca una relazione nel luogo armonico della continuità assoluta? Durerà? Oltre questa estate di presenza, dove tutte le cose stanno lì dove devono stare, niente scarta da niente e la vita scorre così naturale da non sembrare nemmeno un miracolo? Il soggetto dell’interrogativo è l’amore, ma è fatto di due. La risposta la attendi da un libro di Massimo Recalcati, un manuale di istruzioni per contaminati dalla nevrosi, Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull’amore (Feltrinelli, 2019, pp. 126, euro 14).

Benvenuti nel mondo dell’umano 

La recensione la scrivi nell’inverno inoltrato, quando la risposta è già arrivata, oltre il finale del libro, hai sentito annunciarsi e consumarsi lo strappo dall’ordine delle cose, la parola non ha smosso il reale e già da un po’ cade con tonfi stonati su un campo da gioco di cui ignori le dimensioni, mentre quell’accordo tra corpi che si presume dotati di intenzioni e di libertà di cui hai ancora memoria, e che scandiva la verità in forma sessuale di un incontro, ha smesso di agire i tuoi gesti al passo di danza, lasciandoti tra l’insonnia, le sigarette e i sogni di amputazione, alle prese con quanto hai di più proprio e individualmente tuo, la tua mancanza. Benvenuti nel mondo dell’umano. È domenica mattina, e attaccata a un citofono costringi a fuggire dal retro di un giardino che non è mai stato un eden una giovane donna forse non troppo dissimile da te, visto che ha persino il tuo nome. Il cartello ripete: benvenuti nel mondo dell’umano o della commedia all’italiana, sua intelligente variante.

Allora torni a Mantieni il bacio, sapendo che non cambierà il finale, né il tuo né quello di un successo editoriale che forse proverà a ripetersi l’estate a venire. Rileggi le note a margine e come già durante il volo ripensi a quel film con Leonardo Di Caprio, dove una comunità estemporanea di giovani cercatori trova la felicità e la forma perfetta di ogni relazione lungo una spiaggia tailandese. Durerà, fino alla comparsa del dolore. No, non passerà l’inverno. Il libro è aperto oltre la metà delle pagine, e il film scorre quando tutto è già andato in vacca. E non può non fare capolino l’ironia di Gilles Deleuze e della sua voce roca, a commento dei propositi di trasformazione delle numerose espressività negli anni Settanta della contestazione: mais on l’a toujours su que cela allait finir mal. Un pessimismo della volontà che l’ha comunque sempre messo al riparo da quello della ragione. E per questo continuiamo a scrivere libri che non salveranno il non salvabile, e a innamorarci.

L’amore è un regolamento di conti con il linguaggio. Per dirla alla Deleuze e senza togliere di una virgola alla bellezza della lettura recalcatiana anche lontani da una spiaggia, si sapeva che finiva male
 

«In a manner of speaking / I just want to say / That I could never forget the way / You told me everything / By saying nothing», scrivevano I Tuxedomoon alla metà degli anni Ottanta in un album dal titolo ancora attuale: Holy Wars. Il cuore di panna diventava il simbolo dell’amore da consumare e rinnovare a ogni estate tra una leccatina e un tuffo, i Nouvelle Vague non avevano ancora cantato la cover morbida del pezzo e i movimenti rigidi del gruppo post-punk mettevano a fuoco in un ritornello il cuore non addentabile – senza spezzarsi gli incisivi – della questione: l’amore è un regolamento di conti con il linguaggio. Per dirla alla Deleuze e senza togliere di una virgola alla bellezza della lettura recalcatiana anche lontani da una spiaggia, si sapeva che finiva male.

Ecco, l’amore è il modo che ci siamo dati per riaprire la partita che sembrava chiusa – e persa – con tutto questo, poco dopo che abbiamo imparato a parlare, quando le parole hanno smesso di essere suoni erotici al pari delle cose e vanno a mettersi al loro posto 

Dire tutto senza proferire parola. Riscattare la nostra condizione di umani, unici viventi tra i viventi tutti, condannati a darsi una parola per poter avere un mondo. Scoprire che quella parola è la nostra ferita di animali neotenici e perennemente incompleti riportata sull’essere, manovra di incisione e di ordinamento degli enti quando li nominiamo, diciamo cosa sono e per sempre ci separiamo da loro. Operazione che ha il pregio (quando ci riesce) di dare al creato con noi al centro una certa stabilità, ma che condanna noi e quello che ci sta intorno a un po’ di rigidità. Ritrovarsi fermi lì dove si è, tra un soggetto e un lavoro oggi precario al quale ancoriamo tutto di noi, anima inclusa, tra un sintomo che parla la nostra lingua ma dicendo sistematicamente qualcos’altro che fraintendiamo e una zattera sulla quale a stento stiamo a galla e che ha l’odore molesto della nostra nevrosi, tra una casella qualunque della nostra libera ed estesa prigione e la convinzione di uscirne col godimento. Ecco, l’amore è il modo che ci siamo dati per riaprire la partita che sembrava chiusa – e persa – con tutto questo, poco dopo che abbiamo imparato a parlare, quando le parole hanno smesso di essere suoni erotici al pari delle cose e vanno a mettersi al loro posto. L’amore è una lingua straniera, che non parliamo e della quale ignoriamo ogni grammatica, ma che sentiamo. Riverbera attraverso il nostro corpo come fanno i suoni delle parole, quando l’effetto precede la sua divaricazione dall’affetto, e nel farlo ci espone di nuovo a quell’esperienza originaria nella quale non siamo separati da niente, nemmeno da noi stessi: «Scopro che il mio corpo è esposto all’evento nuovo della tua lingua impronunciabile. È la gioia immensa dell’amore tra i Due quando accade. […] Fare esperienza della lingua, che come il mondo, nasce un’altra volta».

Questo è l’incantesimo del bacio. Quel materialismo magico di un articolo determinativo che tra i tanti dati e ricevuti discrimina l’assoluta singolarità di quel punto imperscrutabile al linguaggio in cui una lingua nuova e incomprensibile, ma sensibile, data dall’incontro tra due lingue dice è lui, è lei, proprio mentre lui e lei, due individui individuati, scompaio. E ti ritrovi dentro il Big Bang, alla porta di accesso non di un giardino di periferia a guardare chi fugge dal letto di colui che ami, ma all’ingresso di un’esperienza di nuova vita, occasione unica e singolare e – in fondo lo sappiamo – miracolosamente ripetibile. «Gli amanti scavano il loro nascondiglio, la loro pace nella guerra, nell’infinito dolore dell’essere. Quando si baciano spengono il rumore del mondo, infrangono la sua legge, sequestrano il tempo del suo movimento ordinario. Cadono insieme nelle loro lingue distinte e abbracciate», scrive Massimo Recalcati. «Oh give me the words / Give me the words / That tell me nothing / Oh give me the words / Give me the words / That tell me everything» precisa la colonna sonora dei Tuxedomoon. E allora perché non va oltre l’inverno? Perché la durata non si estende da sé e si prolunga in quella «luce che fa reiniziare nuovamente il mondo»?

La domanda di amore che si annoda in ogni relazione è quella che chiede di completare la nostra natura imperfetta di viventi, di malati cronici, di animali sempre doloranti, l’handicap che ci portiamo appresso e al quale abbiamo posto rimedio col placebo di un linguaggio 

Nel rispondere alla domanda Mantieni il bacio ha il grande merito di non cambiare registro e non scivolare nel moralismo. È questione di fedeltà certo, di mantenersi fedeli alla «promessa di un segreto che non si può sciogliere», né spiegare. Ma nessuna regola o morale, nessuna chiesa o istituzione, può garantire un riparo durevole all’incontro d’amore. E non è questione di cattivi comportamenti. Andiamo in analisi, non in tribunale. E qui il libro assume l’andamento del discorso clinico, tra figli, coppie, tradimenti, gelosie, strutture paradossali del desiderio… Come per il film The Beach, dura finché non compare il dolore. Ma il dolore – l’analizzando e l’analista lo sanno, e anche alcuni filosofi – non è il risultato della botta del mondo sul riparo irenico degli amanti, l’evento esterno che giunge a rovesciare la nuova creazione. Il dolore è ciò che costitutivamente ci accompagna da umani fin dalla nascita, quella ferita che ci precede e che ci trascina dentro una vita come dice Joë Bousquet, poeta caro a Gilles Deleuze. Il dolore siamo noi con la nostra mancanza, con quella vita incompleta che proprio l’amore consente di mettere a fuoco e che chiediamo all’altro di colmare nel momento in cui intendiamo riempire la sua. La domanda di amore che si annoda in ogni relazione è quella che chiede di completare la nostra natura imperfetta di viventi, di malati cronici, di animali sempre doloranti, l’handicap che ci portiamo appresso e al quale abbiamo posto rimedio col placebo di un linguaggio: «Sentirsi amati significa infatti sentirsi essere la mancanza dell’Altro, poter essere ciò che manca all’Altro». Finalmente interi perché finiamo di completare qualcun altro.

Ed è dall’orlo di quell’abisso che alla psicanalisi – e dunque anche a questo libro – si chiede di fornire un sapere che ci aiuti non meramente a restare sul bordo, bensì a richiudere le acque 

Ma in questo «dare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole», stando a una delle celebri definizioni dell’amore di Lacan, in questo chiasmo di per sé già difficile, ciò che in ogni momento può far sprofondare nell’abisso quel momento inaugurale che istituiva un nuovo mondo in cui vivere, nuovi soggetti per abitarlo e una nuova lingua per comprenderlo è semplicemente la variabile infinita del non-rapporto, quel punto di impossibile sul quale sempre, sempre, si scontra una relazione tra un uomo e una donna. Ed è dall’orlo di quell’abisso che alla psicanalisi – e dunque anche a questo libro – si chiede di fornire un sapere che ci aiuti non meramente a restare sul bordo, bensì a richiudere le acque. A tornare istantaneamente a quella contingenza, necessaria e casuale come solo un miracolo può essere, in cui «i corpi stretti l’uno all’altro introducono una pausa […] nel “vuoto divorante” che costituisce l’esistenza».

All’aeroporto si è comprato questo libro perché si sapeva che su questa incrinazione ci si sarebbe arenati. Che il mondo per come lo abbiamo per lo più conosciuto e il dolore che ci consente di avere una vita per abitarlo avrebbero di nuovo suonato al citofono. Sulla soglia di una vacanza di amore che sapevamo essere tale, abbiamo pagato un libraio perché ci desse un sapere per superare l’inverno. Che sarebbe arrivato. Ma, come insegna Stéphane Mallarmé, «le maître» non dispone del sapere per la manovra, forse l’ha scordato o ha sbagliato i calcoli, non c’è tecnica che con certezza richiuda la voragine, la nostra e quella della relazione: «Ogni amore, pur volendo essere eterno, corre sempre sul filo teso e sottile dell’apparizione e della sparizione, della vita e della morte». E ancora una volta glossano i Tuxedomoon: «We can only make do». L’arte di arrangiarsi.

L’inverno arriva non perché si susseguano le stagioni, ma perché lo portiamo con noi 

E come fare altrimenti se, come afferma Recalcati, l’amore è proprio «l’esperienza condivisa della ferita», se «il dono più proprio dell’amore è il dono della nostra mancanza, è il dono della nostra ferita»? L’inverno arriva non perché si susseguano le stagioni, ma perché lo portiamo con noi. È ciò che offriamo all’altro quando gli chiediamo di far tornare l’estate. Ciò che Recalcati non precisa – in questa chiusura in cui fa capolino la principale istruzione – è che donare la propria ferita significa esporre qualcosa di un po’ schifoso che ci riguarda, quel punto in cui smettiamo – certo finalmente, ma non senza problemi – di essere un soggetto deliberante, autonomo, padrone di sé, ed esponiamo non una fragilità ma una mostruosità che fa vacillare noi stessi e l’altro: perché «la propria ferita ferisce» chiarisce la mia analista nel corso di una seduta. E viceversa. Allora, ciò che davvero manca è un sapere che ci aiuti a riconoscerla – l’amore cristiano ha forse fatto altro? – dietro le discussioni sui tappetini in cucina o il rientro sugli orari notturni, una tecnica che ci consenta di avere a che fare con la nocività che ogni vivente umano incarna. «We can only make do».

La questione ecologica pone un problema non dissimile: come vivere in un ambiente un po’ schifoso, dal quale è scomparsa – ammesso che vi sia mai stata – ogni armonia di natura? 

Ad allargare lo sguardo oltre l’handicap dell’amore a due, ci si accorge che la cronicità è quella di un pianeta dove il passaggio umano nella forma del Capitale – per tagliare corto sul dibattito antropocenico – lascia dietro di sé relazioni devastate e che la questione ecologica pone un problema non dissimile: come vivere in un ambiente un po’ schifoso, dal quale è scomparsa – ammesso che vi sia mai stata – ogni armonia di natura? Come riparare alla contaminazione di cui siamo agenti e che ci ritorna come un male avvolgente che respiriamo e dal quale non c’è rifugio? Come procedere alla bonifica del mondo creato e ritrovare una disposizione delle cose che in qualche modo ci renda felici? L’estate è finita, oltre che per gli amanti, anche per gli umani del pianeta, ai quali toccherà convivere con un malore più esteso della propria nevrosi.

Mentre c’è chi si chiede come ritessere un legame sensibile con il vivente di cui siamo parte e dal quale a suo tempo ci siamo messi al riparo con le parole, le forme di vita contemporanee continuano a esibire, a furia di nasconderla, quella mancanza costitutiva sulla quale si agganciano così bene gli egotismi del riconoscimento sociale più o meno digitale, la competizione al lavoro come se davvero un salario corrispondesse a un umano di maggior valore, e proliferano i modi – con le droghe, gli piscofarmaci o il razzismo – per sbarazzarci di quell’imbarazzo rappresentato dalla relazione con l’altro, fosse anche non rigorosamente dell’amore a due. Mentre la forma del Capitale continua a trovare di che riempire la voragine della mancanza, ci sono viventi – anche umani – che imparano a muovere primi passi su questo mondo in rovina.

L’arte arrangiata della relazione è quanto gli consente di vivere. L’intelligenza collettiva di cui sono parte talvolta li porta nei pressi di un sentire così limitrofo da sembrare telepatia. L’architettura ariotica con la quale si muovono e che gli fa da casa è fatta da fili invisibili che, pur non impedendole, comunque attutiscono le cadute. È un’arte circense che mischia ruoli e posizioni, usa saperi artigiani e promiscui, genera affetti che curano affezioni e fa della nostra cronicità di viventi contaminati e contaminanti il campo aperto su cui usare senza conoscerla una tecnica improvvisata dell’accordo, capace di generare un mondo nuovo già qui tra le macerie di quello vecchio, senza bisogno di cercarlo in Tailandia, e visibile in virtù dell’amore. La voragine è aperta e, non si sa bene come, ma si trova il modo di saltarci sopra. In questo luogo, si prende atto delle imperfezioni, si vive insieme alle proprie cellule cancerogene, si destreggia con la precarietà, si consegna all’altro la propria ferita. Il quale la accetterà e saprà farne un gioco.

C’è sempre un altro che ti ama, talvolta sai chi è 

Di notte ti porterà mandorle e arance sul pianerottolo, butterà al tuo posto la pattumiera che dimentichi e si allontanerà senza un nome ma con una presenza, mentre il tuo corpo patisce tra le mura di casa nel ricordo di un’unione felice della cui scomparsa in fondo non sai dare spiegazioni. Il mondo è nuovamente un incanto. C’è sempre un altro che ti ama, talvolta sai chi è.

 

Riferimenti video/bio/bibliografici

Luis Bolk, Il problema dell’ominazione, trad. it. DeriveApprodi, Roma 2006.

Danny Boyle, The Beach, 2000 (film).

 

Ilaria Bussoni, ilmondoinfine: vivere tra le rovine, Catalogo della mostra, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, dicembre 2018-gennaio 2019.

 

Ilaria Bussoni, Materialismo magico site specific, in Time is Out of Joint, Catalogo della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma 2019, pp. 522-524.

 

Jacques Lacan, Il Seminario. Libro VIII. Il transfert (1060-1961), trad. it. Einaudi, Torino 2008.

 

Massimo Recalcati, Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull’amore, Feltrinelli, Milano 2019.

 

Tuxedomoon, Holy wars, 1985 (album). 

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