Quel godibile oggetto del desiderio
Su Made in Italy e cultura di Daniele Balicco
Le porte si presentano, una dopo l’altra, tutte uguali.
Posso ancora passare, ma è inutile. Ci sarà sempre
ancora una porta.
Lalla Romano, Le metamorfosi
Intanto lavoro dentro un ufficio di vetro, tra piante insipide che sembrano vivere di corrente elettrica; tutta la stanza vibra tesa, percorsa da sottili e insistenti messaggi, da colori e nichel come un’anticamera della sedia elettrica. Ogni tanto contrabbando un foglio di poesia o un libro.
P. Volponi a P.P. Pasolini
Se in Italia i poteri si fanno sfuggenti, talvolta talmente irriducibili ai percorsi di costituzione della modernità da farsi opachi se non clandestini, allora siamo di fronte a qualcosa di diverso, una narrazione contro-egemonica
L’Italia è un detonatore, un territorio di passaggio e di macerie costituenti. Rimette continuamente in questione i dibattiti sull’identità. Sembra dare ragione a quell’adagio di Fortini, che invitava a «confondere le piste» e «avvelenare i pozzi». L’intento sembrava quello di innescare un rapporto liberatorio tra verifica dei poteri e «deliberazione in comune», secondo il Manzoni più rivoluzionario. Ma se in Italia i poteri si fanno sfuggenti, talvolta talmente irriducibili ai percorsi di costituzione della modernità da farsi opachi se non clandestini, allora siamo di fronte a qualcosa di diverso, una narrazione contro-egemonica. In primo luogo, rispetto alla parabola prestabilita della modernità: quella della costruzione dello Stato secondo il modello anglo-francese.
Il volume curato da Daniele Balicco, Made in Italy e cultura (Palumbo, 2016), irrompe in questo dibattito vivissimo (per esempio, vedi qui) sia come suo specchio fedele ma anche come vivace attore di un cambiamento radicale della percezione (si parla di recente di «sensorio collettivo») di questa proverbiale espressione geografica che è stata l’Italia. D’altronde, non è già perturbante l’idea di un numero monografico di una rivista di letteratura – si tratta di «Allegoria», fondata e diretta da Romano Luperini – interamente dedicato a un fenomeno etichettabile come, semplicemente, economico? Non è già questo il sintomo – ma anche il decorso se non la pratica – di quella benefica malattia che è la tipica estroflessione del pensiero italiano, il cercare al di fuori di sé il suo oggetto, esprimerlo in una lingua altra, modificare quel proprio oggetto in corpore vili?
In Made in Italy e cultura ci troviamo a indagare alcuni aspetti specifici dell’assetto industriale italiano che ne hanno determinato il successo, facendo, appunto, del Made in Italy il terzo brand su scala mondiale, dopo Coca Cola e Visa
In realtà, c’è qualcosa di «classico» nel lavoro coordinato, con una regia accorta che va ben oltre la curatela, da Balicco, una potenza dell’origine che riconduce al dibattito che animò il numero 4 della rivista, anch’essa letteraria, «il Menabò», e che vide sulle proprie pagine discutere, tra gli altri, Scalia, Vittorini e Calvino. Quel numero era incentrato sul rapporto industria e letteratura; dibattito in fondo irrisolto, anzi irrisolvibile perché predeterminato all’idea di un neocapitalismo che ci immerge nelle merci e ci provoca «ogni sorta di nausee, estraneazioni, fissazioni sbagliate, mostruosi rapporti con noi e gli altri». Ma siamo alla preistoria, seppure vivificante, di una linea che, tra le altre, produrrà anche la discontinuità operaista; in Made in Italy e cultura ci troviamo invece sull’altro lato dell’arco, tesissimo, a indagare alcuni aspetti specifici dell’assetto industriale italiano che ne hanno determinato il successo, facendo, appunto, del Made in Italy il terzo brand su scala mondiale, dopo Coca Cola e Visa. L’affermazione nei campi dell’alimentazione, dell’abbigliamento, dell’arredamento e dell’automazione (le cosiddette «quattro A») risultano in verità da un fascio di paradossi e di occasioni «mancate», che vanno da una politica mercantile basata essenzialmente sulla svalutazione della moneta e sulla compressione dei salari, a un legame tra la distrettualizzazione della produzione industriale delle PMI che riescono a mantenere la posizione nella competizione globale degli anni Novanta con la mutazione in multinazionali «tascabili».
Il prezzo di questa trasformazione è stato alto (in termini «classici» di sfruttamento: vedi l’intervista a Giovanna Vertova nel volume). Ma in questo grand tour empirico e culturale, quello che emerge è un sistema simbolico in tensione, in cui confliggono in maniera eclatante l’auto-percezione negativa che è maggioritaria nel discorso pubblico italiano, incentrato essenzialmente, sulla lunga durata, sull’immagine della «serva Italia / di dolore ostello», e, nel periodo più recente, sul paese «mancato» dello «sviluppo senza progresso» (è il Pasolini corsaro), e la percezione positiva al contrario installata in un altrove che è il fuori dei confini nazionali. Questa percezione si è strutturata nella forma simbolica di una modernità alternativa intesa alla godibilità del presente, posizionandosi, dunque, non solo sul contraltare della teleologia statale e istituzionale anglo-francese; il Made in Italy è anche (secondo elemento) una forza simbolica contro-egemonica rispetto al modello statunitense.
Scartabellando più in profondità questo godibile oggetto del desiderio, c’è anche un ultimo elemento che sorprende: l’italianismo che è racchiuso nella visione che fuori di Italia si ha del quadro simbolico-culturale dell’Italia stessa, definisce una formazione di compromesso, continuamente oscillante fra la godibilità e un intimo nocciolo di ripugnanza
Scartabellando più in profondità questo godibile oggetto del desiderio, però, c’è anche un ultimo elemento che sorprende. Con l’occhio allenato da Said, l’italianismo che è racchiuso – sulla scorta dell’orientalismo – nella visione che fuori di Italia si ha del quadro simbolico-culturale dell’Italia stessa, definisce una formazione di compromesso, continuamente oscillante fra la godibilità e un intimo nocciolo di ripugnanza. Da una parte, la cultura italiana fuori d’Italia è stata forza di trascinamento e di trapasso: lo fu nel cinema della New Hollywood, dominata dagli italo-americani che trasformarono il gangster-movie in narrazione universale (e il capolavoro di questo passaggio è The Godfather); lo fu nella musica quell’ircocervo di pop e funky che fu l’Italo disco, che fece da staffetta tra le origini rhythm’n’blues e l’odierna techno music; e molto probabilmente questi esempi possono, e debbono, essere moltiplicati, per dimostrare come, questi innesti – parola-chiave del volume – stravolgono le linee verticali del regionale/nazionale/internazionale. Dall’altra, però, emergono evidenti alcuni cardini di questa forza simbolica contro-egemonica, che individuano nell’italianità una dialettica originale tra progresso e origine, tra mito e storia: è quella che, in Elena Ferrante – qui magistralmente analizzata da Tiziana de Rogatis – si materializza nella smarginatura o nella frantumaglia, quel resto di arcaicità che destruttura senza distruggerla l’identità storica del personaggio femminile; ma soprattutto, ne La grande bellezza di Sorrentino, la violenta convivenza fra un mondo sociale rinunciatario, gerontofilo e stanco e la forza (più à la Visconti che à la Fellini) di uno spazio estetico romano cromaticamente potentissimo.
Questa ondivaga permanenza di ripugnanza e bellezza è interpretata, da Balicco, in termini psicanalitici, come una risposta di scissione alla sconfitta dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta
Questa ondivaga permanenza di ripugnanza e bellezza è interpretata, da Balicco, in termini psicanalitici, come una risposta di scissione alla sconfitta dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Il potenziale revisionista di questo approccio è gigantesco, perché individua negli anni Ottanta una mutazione più complessa dello storytelling auto-demolitorio del discorso pubblico in Italia, che ha Pasolini come grande cantore mummificato. Va aggiunto a questo slancio un elemento sotterraneo, che emerge in maniera sussultoria ma costante. La pura mancanza del politico e la impura continuità della spontaneità. Il Made in Italy si afferma in maniera volontaristica – finanche nei suoi aspetti di rivendicazione genealogica che rimonta al Rinascimento, è l’invenzione di un singolo (Giovanni Battista Giorgini) ad affermarsi in concorrenza alla haute couture francese – e in absentia strutturale di direzione politica. Questa assenza rende i percorsi accidentali, ma non di rado addomesticabili in un quadro di compatibilità ideologica (l’identità) e finanche economica (per esempio, il caso controverso di Eataly e di Farinetti). L’analisi iuxta propria principia sfiora talvolta la sensazione di un Italian Dream che tracima i conflitti in un egualitarismo da middle class.
D’altra parte, Balicco rinuncia programmaticamente a una qualsivoglia omogeneità critica degli interventi. Ma la verità è che Made in Italy e cultura ha la forza di un gesto epistemologico, di cui oggi è necessario sbrogliare i fili. Ne vedo almeno due: sul piano della forza simbolica, quello linguistico come possibilità insita nella tradizione italiana di costituire una letteratura-mondo (dimostrato magnificamente, qui, dal caso di Jhumpa Lahiri); e poi quelli politico e sociale, come squarcio sulla dinamica perlomeno triangolare fra poteri concorrenti e movimenti di trasformazione, anche e soprattutto nel contesto di quegli anni Ottanta che furono un terreno di sperimentazione ancora troppo poco esplorato.
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