Riapprendere a leggere Clastres

L’intempestivo, ancora

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MP5, Dog Star, 2014

Pubblichiamo qui un estratto de «L’intempestivo, ancora. Pierre Clastres di fronte allo Stato» di Eduardo Viveiros de Castro, appena pubblicato dall’editore ombre corte, con una Postfazione di Roberto Beneduce. Per facilitare la lettura è stato qui eliminato il ricco apparato di note. Il saggio è stato originariamente pubblicato come introduzione alla seconda edizione in inglese delle «Recherches d’anthropologie politique», pubblicata nel 2010 dall’editore Semiotext(e). La traduzione italiana è di Antonio Manconi. 
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Il libro pubblicato per la prima volta nel 1980 con il titolo Recherches d’anthropologie politique contiene testi scritti in gran parte poco prima della morte dell’autore, avvenuta nel 1977. Esso forma un insieme coerente con il volume pubblicato nel 1974, La société contre l’État.Se quest’ultimo presenta una maggiore unità interna e contiene più articoli basati sull’esperienza etnografica diretta, Recherches d’anthropologie politique documenta la fase intensamente creativa nella quale Pierre Clastres si trovava nel momento in cui perse la vita, a 43 anni, in un incidente d’auto su una strada delle Cévennes, nel Massiccio Centrale francese.

I lavori qui raccolti compongono quindi un libro di transizione che presenta un’opera incompiuta; una transizione e un’opera che ora spetta ai suoi lettori – in particolare, ovviamente, agli etnologi americanisti – completare e proseguire nel miglior modo possibile. Tra i numerosi testi degni di nota di questo Recherches d’anthropologie politique, spiccano senza dubbio i due capitoli finali: il saggio intitolato “Archeologia della violenza. La guerra nelle società primitive” e il successivo, intitolato “Tristezza del guerriero selvaggio”, l’ultimo che Clastres ha pubblicato nella sua vita. Essi imprimono una inflessione decisiva al concetto che ha reso celebre l’autore, la “società-contro-lo-Stato”. Riprendendo il classico problema dei rapporti tra violenza e costituzione del corpo politico sovrano, Clastres propone in questi testi un positivo rapporto funzionale tra la “guerra” (o meglio, lo stato metastabile di ostilità virtuale tra comunità locali relativamente autonome) e l’intenzionalità collettiva che definisce o costituisce le società sosiddette primitive – lo spirito delle loro leggi, per usare le parole di Montesquieu.

La morte di Pierre Clastres fu la seconda perdita prematura subita dalla generazione di antropologi francesi formatisi nel passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta, un periodo di grande effervescenza intellettuale, in Francia come in altre parti del mondo, durante il quale furono poste le basi della brusca svolta nella sensibilità politico-culturale dell’Occidente che ha segnato gli anni Sessanta e Settanta in un modo unico – forse le parole “speranza” e “allegria” sono, o erano, le più appropriate per definirla. La neutralizzazione di questa rottura fu uno dei principali obiettivi della violenta controrivoluzione della destra che da allora ha iniziato a prendere d’assalto il pianeta, imprimendo il suo volto allo stesso tempo arrogante e impaziente, brutale e disincantato, alla storia mondiale dei successivi decenni. E così è stato fino a oggi, anche se le cose sembrano cominciare a cambiare (qui la prudenza è d’obbligo).

Il primo di quella generazione ad andarsene fu Lucien Sebag, che si suicidò nel 1965, con grande sgomento dei suoi amici (tra cui Félix Guattari), del suo professore Lévi-Strauss e del suo analista Jacques Lacan. I dodici anni che separano la morte di Sebag da quella di Clastres – nati nello stesso anno (1934), entrambi filosofi di formazione, in rottura con il Partito comunista dopo il 1956, convertiti all’antropologia dalla poderosa influenza intellettuale di Lévi-Strauss (che in quel momento si avvicinava allo zenit) – forse spiegano qualcosa della differenza che le loro rispettive opere mantengono con lo strutturalismo. Sebag, originario della vivace comunità francofona degli ebrei tunisini, era molto vicino al fondatore dell’antropologia strutturale, che lo aveva come suo miglior discepolo e probabile successore. Lo studio di Sebag sulla mitologia cosmogonica degli Indiani Pueblo (pubblicato postumo nel 1971) è stato uno dei materiali preparatori della vasta analisi di Lévi-Strauss della mitologia amerindia. Il giovane etnologo ha avuto anche un intenso coinvolgimento con la psicanalisi. Uno dei suoi pochi lavori pubblicati in vita analizzava i sogni di Baipurangi, giovane donna del popolo Aché-Guayaki, presso il quale Sebag effettuò alcuni periodi di lavoro sul campo in compagnia di Clastres, prima di stabilirsi tra gli Ayoreo del Chaco, per una ricerca etnografica che la sua morte ha lasciato incompiuta. Inoltre, Sebag è stato uno dei primi pensatori della sua generazione a cercare di approfondire il significato filosofico e politico dello strutturalismo, con Marxisme et structuralisme, un libro teoricamente sofisticato, che potrà risvegliare un nuovo interesse man mano che la dinamica intellettuale del periodo inizierà a essere rivalutata in profondità.

Con il suo amico Clastres aveva in comune l’ambizione di rileggere la filosofia politica moderna alla luce degli insegnamenti dell’antropologia di Lévi-Strauss; ma le somiglianze tra le loro rispettive inclinazioni si fermavano più o meno lì. A Sebag interessavano soprattutto il mito e il sogno, i discorsi dell’attività fabulatoria; i soggetti preferiti dal suo collega, invece, erano il potere e i meccanismi di istituzione del sociale, temi a prima vista difficili da affrontare da parte dell’antropologia strutturale:

Io non sono strutturalista. Non che abbia nulla contro lo strutturalismo, è che come etnologo mi occupo di campi che, a mio avviso, non rientrano nell’ambito dell’analisi strutturale.

L’autore di Recherches d’anthropologie politique si dedicò pertanto a elaborare una rispettosa ma implacabile critica dello strutturalismo, rifiutandosi di aderire alla doxa positivista che cominciava ad accumularsi attorno all’opera di Lévi-Strauss, e che si stava trasformando, nelle mani dei suoi epigoni, in una “specie di Giudizio Finale della Ragione, capace di neutralizzare tutte le ambiguità della Storia e del Pensiero”. Allo stesso tempo, Clastres durante la sua carriera manifestò una ostilità ancora più implacabile – e non proprio rispettosa – verso quello che chiamava l’“etnomarxismo” francese, cioè gli antropologi che cercavano di ricollocare nella dogmatica del materialismo storico le “formazioni sociali precapitaliste”, in particolare le società di lignaggio dell’Africa dell’Ovest.

Quindi, se Sebag ha scritto un vero libro intitolato Marxisme et structuralisme, Clastres ci ha lasciato, con La société contre l’État e Recherches d’anthropologie politique, il materiale per un possibile libro che potrebbe essere intitolato Né marxismo, né strutturalismo. L’autore vedeva nel marxismo e nello strutturalismo uno stesso difetto fondamentale, derivante dal privilegio concesso da entrambi alla razionalità economica: la svalutazione dell’intenzionalità politica, che sarebbe il vero principio vitale delle collettività umane. Il fondamento metafisico del socius nella produzione, per il marxismo, e nello scambio, per lo strutturalismo, renderebbe entrambi incapaci di pensare ciò che era caratteristico, o meglio, singolare nella socialità primitiva, e che si troverebbe necessariamente su questo piano dell’intenzionalità politica.

Clastres ha sintetizzato questa singolarità nella formula “società-contro-lo-Stato”, espressione che designa una forma di vita fondata sul depotenziamento simbolico e pratico della rappresentazione collettiva, sull’inibizione strutturale della perenne tendenza alla conversione di autorità, ricchezza e prestigio in coercizione, disuguaglianza e sfruttamento, e su una gestione delle alleanze interlocali guidate dall’imperativo strategico dell’autonomia politica del gruppo locale, che si riflette inoltre sul piano dell’ethos personale, essendo l’individuo e il gruppo primitivo entrambi fatti della stessa materia multipla e intrattabile, dello stesso spirito indocile e “volubile”.

L’antimarxismo di Clastres era dunque diverso dal suo non strutturalismo. Nel materialismo storico non vedeva altro che un elogio etnocentrico della produzione come verità della società e del lavoro come essenza della condizione umana. Questo evoluzionismo economicista si scontrerebbe, nelle società primitive, con il suo limite epistemologico assoluto, poiché queste costituiscono delle “macchine antiproduzione” che contraddicono tutti i precetti scientifico-metafisici dell’economia politica. Invece dell’economia politica del controllo – controllo del lavoro produttivo dei giovani da parte degli anziani, controllo del lavoro riproduttivo delle donne da parte degli uomini –, che gli etnomarxisti, sulla scia di Engels, si compiacciono di vedere all’origine delle società etichettate, con impeccabile logica mitica, come “precapitaliste”, Clastres vedeva nelle società “primitive” (aggettivo che rinvia a un altro mitema filosofico occidentale) un doppio contro-controllo, o meta-controllo: il controllo politico dell’economia da un lato – regime di sufficienza sotto-produttiva, che blocca l’accumulazione mediante la redistribuzione forzata o lo spreco rituale –, e il controllo sociale del politico, dall’altro – separazione tra chefferie e potere, sottomissione del guerriero all’imperativo suicida della gloria.

La società primitiva come sistema immunitario: la mobilitazione guerriera al servizio della integrità sociologica, il controllo della tentazione del controllo. Recherches d’anthropologie politique è un Contro Hobbes – la guerra continua a opporsi allo Stato, ma con la cruciale differenza che la socialità è dal lato della guerra, non del sovrano, che appare al contrario come quasi-natura –, ma forse è ancora di più un Anti-Engels, un manifesto contro il continuismo necessitarista della storia. Clastres è il pensatore della rottura, dell’imprevisto, della contingenza radicale, dell’evento come “cattivo incontro”. Sotto questo aspetto, si mostra profondamente lévi-straussiano. In effetti, è possibile considerare il lavoro di Clastres come espressione di una radicalizzazione piuttosto che un rifiuto dello strutturalismo. È attraverso questa radicalizzazione che un concetto fondamentale di Lévi-Strauss, quello di “società fredda” – forma di vita collettiva che, a differenza di quella praticata dalle società cosiddette “storiche”, ha la proprietà (attiva e positiva) di non riflettere né d’interiorizzare la sua storicità empirica come condizione trascendentale –, trova una espressione determinata sul piano dell’antropologia politica. La società primitiva di Clastres è la società fredda di Lévi-Strauss; la prima è contro lo Stato per le stesse ragioni per cui la seconda è contro la storia. E, in entrambi i casi, ciò che esse cercano di scongiurare minaccia costantemente di invaderle dall’esterno, come di irrompere dal loro interno; è questo il problema che Clastres e, a suo modo, Lévi-Strauss non hanno mai smesso di porsi. Inoltre, se la guerra clastriana mira a soppiantare lo scambio strutturalista, va sottolineato che non pretende di abolirlo.

Al contrario, l’autore riafferma il principio dello scambio come veicolo generico di ominazione (nella sua incarnazione prototìpica come “proibizione dell’incesto”), incapace proprio per questo, però, di rendere conto della singolarità di quella forma che Clastres chiamava “società primitiva”. Ma ecco che questa forma era per l’autore l’oggetto per eccellenza dell’antropologia o dell’etnologia, termine che a volte preferiva per descrivere la sua professione. Per lui, l’antropologia, o l’etnologia, è “una scienza dell’uomo, ma non di un uomo qualunque”. Cosa che la renderebbe una scienza umana diversa dalle altre: arte delle distanze, sapere paradossale, la sua vocazione è quella di cercare un dialogo con quei popoli il cui silenzio era una condizione di possibilità (pratica e teorica) della civiltà che ha generato l’antropologia. Dialogo, dunque, con i “selvaggi” o i “primitivi”, con quei collettivi che sono fuggiti, come per una tangente precaria, al Grande Attrattore della Ragione e dello Stato.

Il rapporto tra il progetto di Clastres e quello di Lévi-Strauss diventa, a partire da qui, un po’ più delicato: se l’uomo oggetto di questa scienza non è un uomo qualunque, è perché la distanza richiesta non è una distanza qualunque, una distanza che possa essere percorsa all’interno di un universo politicamente isotropo. La distanza clastriana è, prima di tutto, una distanza cosmopolitica, e solo dopo epistemica. L’antropologia incarna, per Clastres, un progetto che considera il fenomeno umano come definito da una massima alterità intensiva, una dispersione i cui limiti sono a priori indeterminabili. “Quando lo specchio non ci riflette la nostra immagine, questo non prova che non ci sia nulla da osservare”. Questa secca constatazione trova un’eco in una recente formulazione di Patrice Maniglier a proposito di quella che lo stesso filosofo chiama “la più alta promessa” dell’antropologia, ovvero quella di “restituirci un’immagine di noi stessi nella quale non ci riconosciamo”. L’intento di una tale considerazione, lo spirito di questa promessa, non può essere quindi quello di ridurre l’alterità che caratterizza il percorso interno del concetto di umano, ma al contrario di moltiplicarne le immagini. Alterità e molteplicità definiscono sia il modo con cui l’antropologia costituisce il rapporto con il suo oggetto, sia il modo in cui il suo oggetto si autocostituisce.

“Società primitiva” o “contro lo Stato” è il nome che Clastres ha dato a questo oggetto e al proprio incontro con la molteplicità. E se lo Stato è sempre esistito, come hanno sostenuto Deleuze e Guattari, allora anche la società primitiva esisterà per sempre: come esterno immanente allo Stato, forza di antiproduzione che minaccia sempre le forze produttive, molteplicità che non può essere interiorizzata dalle grandi macchine mondiali. “Società primitiva”, in breve, è una delle tante incarnazioni concettuali dell’eterna tesi della sinistra che un altro mondo è possibile: che c’è vita fuori dal capitalismo, come c’è socialità fuori dallo Stato. C’è sempre stata e – questo è ciò per cui lottiamo – continuerà a esserci.

“C’è in Clastres un modo di affermare che preferisco a tutte le precauzioni dettate dalla prudenza accademica”. A dirlo è la grande ellenista Nicole Loraux, che non per questo ha tralasciato di contrapporre, a certe affermazioni polemiche del nostro autore a proposito della Grecia antica, diverse considerazioni critiche, molte delle quali ben fondate, e tutte espresse serenamente. Va notato che una tale serenità è cosa assai rara quando si tratta della ricezione dell’opera di Clastres, il cui “stile affermativo” è fortemente polarizzante. Da un lato, essa provoca un’irritazione di comica intensità tra i fanatici della ragione e dell’ordine e nei temperamenti reazionari in generale. Non è raro che l’anarchismo di Clastres sia oggetto di giudizi che appartengono più alla psicopatologia criminale che alla storia delle idee.

Anche nel campo dell’etnologia sudamericana, dove l’influenza di Clastres fu formativa (da non confondere con normativa) per una intera generazione, oggi assistiamo alla ripresa di uno sforzo di cancellazione del suo lavoro, nell’ambito di un processo di “routinizzazione del carisma” – che eufemismo! – in pieno svolgimento all’interno di alcune nicchie disciplinari per le quali la “prudenza” di cui parla Loraux sembra usata come pretesto per una metodica devitalizzazione del pensiero. Non solo del pensiero di Clastres, ma anche, ed è molto più riprovevole, di quello dei popoli che ha studiato. L’“armonia ovunque” predetta dall’autore – la cattura degli indigeni da parte del regime di conformità universale: missionarizzazione, secolarizzazione, ONGizzazione, patrimonializzazione… – oggi minaccia anche il modo di vita indigeno al livello dei concetti etnologici: etnificazione, “convivializzazione”, storificazione, proprietarizzazione…

Negli spiriti più giovani – più generosi e inquieti –, l’opera di Clastres può suscitare un’adesione un po’ “irriflessiva” (abbiamo parlato di specchi) e talvolta un po’ autocompiaciuta, grazie al potere di seduzione del suo linguaggio, della sua concisione e insistenza quasi incantatrici, dell’ingannevole semplicità della sua argomentazione, e alla autentica passione che trasuda praticamente da ogni sua pagina. Clastres trasmette al proprio lettore la sensazione di essere il testimone di un’esperienza privilegiata; gli fa condividere la sua stessa ammirazione per la dignità esistenziale di quelle “immagini di noi stessi” in cui non ci riconosciamo, e che conservano così la loro inquietante alterità, ossia la loro autonomia. Tutto ciò – questa sensazione, questa ammirazione, e questa autonomia – è, come sappiamo, un po’ pericoloso. Soprattutto in senso positivo.

Autore difficile, dunque, nella sua apparente semplicità. Sono proprio i migliori lettori di Clastres che hanno bisogno di (re)imparare a leggerlo, tra tanti sforzi profusi perché lo si ignori o lo si dimentichi. Devono essere molto attenti tanto alle sue virtù quanto ai suoi difetti: saper apprezzare le sue brillanti intuizioni antropologiche e la sua sensibilità di etnografo (Cronache degli Indiani Guayaky è una grande opera del genere etnografico); ma anche saper resistere alla sua perentorietà, così spesso eccessiva, senza distogliere pudicamente lo sguardo di fronte alle sue fastidiose iperboli, alle sue esitazioni, alla sua impazienza e imprecisione – ma senza per questo smettere di preferirle di gran lunga alla prudenza summenzionata, sempre pomposa e spesso mielosa, tipica di una certa gravitas accademica. Resistere a Clastres, ma non smettere di leggerlo; resistere con Clastres, insomma: affrontare il suo pensiero in ciò che resta di vivo e perturbante. François Zourabichvili fa una riflessione su Deleuze che mi sembra altrettanto pertinente per il caso di Clastres e dei suoi lettori:

La filosofia di Deleuze non è, per me, né evidente né soddisfacente; la ragione del mio interesse per essa è del tutto diverso: non mi lascia tranquillo. […] una filosofia è interessante solo per i suoi aspetti disorientanti, sia strani che attraenti. In caso contrario, diventa una dottrina, un segno di riconoscimento per una comunità di fedeli. Ecco perché non si dovrebbe cercare di nascondere le apparenti contraddizioni del filosofo che si ama. Al contrario, è necessario partire da queste contraddizioni e affrontarle continuamente; vederci, non delle aporie definitive come fa chi la rifiuta, ma il segno più sicuro di una prospettiva insolita.

Maurice Luciani, in un necrologio pubblicato sulla rivista “Libre”, menzionava “l’indifferenza allo spirito del tempo” come una delle caratteristiche della personalità ironica e solitaria di Clastres. L’apprezzamento è ancora curioso, poiché lo spirito del nostro tempo tende a scartare il suo pensiero proprio per il suo carattere anacronistico, “datato”, come si suol dire: romantico, primitivista, esotizzante, e altre peccati che la critica neoliberista e conservatrice ha l’abitudine di attribuire al ’68. Ma si noti che Luciani scriveva nel 1978, dieci anni dopo l’annus horribilis, quando il silenzio e il disprezzo che avrebbero coinvolto il lavoro di Clastres e di molti altri pensatori contemporanei si erano già imposti. Rileggere Clastres a tanti anni di distanza è quindi un’esperienza disorientante e illuminante. Se ne vale la pena è perché qualcosa del tempo in cui questi testi sono stati scritti, o meglio, contro il quale sono stati scritti – ed è in questa misura che hanno contribuito a definirlo – rimane nel nostro, qualcosa dei problemi di allora continua a persistere. O magari no: i problemi sono radicalmente cambiati, si dirà. Tanto meglio, allora: cosa succede quando reintroduciamo in un’altra epoca concetti elaborati in circostanze molto particolari? Quali effetti hanno quando ricompaiono?

L’effetto anacronistico suscitato dalla lettura di Clastres è reale. Si prendano i primi tre capitoli di Recherches d’anthropologie politique. Parlare degli Yanomami come del “sogno di ogni etnografo”; riversare un furioso sarcasmo contro i missionari evangelici (e i turisti) senza riconoscere “autocriticamente” una certa identità con loro, come si farebbe oggi (è cambiata la missione, o è cambiato l’antropologo?); esprimere il proprio fascino per uno modo di vita che l’autore non esita a chiamare primitivo e a definire felice; lasciarsi ipnotizzare dall’illusione immediatistica (e un po’ fallocentrica) che si esprime nell’elogio entusiasta della testimonianza di Helena Valero; incorrere nel pessimismo sentimentale dell’“ultimo cerchio” e dell’“ultima libertà”, dell’“ombra mortale” che si estende sull’“ultima società primitiva libera, sicuramente in America del Sud, e probabilmente anche nel mondo”: tutto questo è diventato rigorosamente innominabile nei salotti contemporanei.

La breve ma devastante analisi di Clastres del progetto di antropologia, anticipando gran parte della riflessività postcoloniale che avrebbe portato la disciplina, nei decenni successivi, a un’acuta crisi di coscienza – che è sempre il modo peggiore per stimolare una discontinuità creativa all’interno di un progetto politico o intellettuale –, è formulata in termini che oggi ci appaiono scomodamente aristocratici, nel senso di Nietzsche, certamente il personaggio fondamentale per una genealogia dell’opera clastriana. Tale pregiudizio aristocratico del “pensiero 68” (faccio di questo nome una bandiera) è divenuto quasi inintelligibile da quando una fitta nebbia di cattiva coscienza e di buone intenzioni avvolge le percezioni culturali del cittadino neo-occidentale globalizzato. Eppure è facile vedere che la profezia contenuta nel primo capitolo di Recherches d’anthropologie politique, sulla visita dell’autore agli Yanomami, era sostanzialmente corretta:

Essi sono gli ultimi: da ogni parte assediati. Ovunque, intorno a loro si estende un’ombra mortale… E dopo? Distrutto questo ultimo cerchio, questa ultima libertà, forse dopo ci sentiremo meglio. Potremo infine dormire, senza svegliarci: mai più… Un giorno, tra non molto forse, dov’erano i liberi chabuno, sorgeranno le torri delle pompe dei petrolieri, i fianchi delle colline del Parima saranno tagliati da trincee di minatori che cercano diamanti, anche qui, come ovunque, avremo infine strade e poliziotti sulle strade, e negozi sulle rive dei fiumi… Armonia ovunque.

Quel “un giorno” sembra in effetti vicino: l’estrazione mineraria è già lì e diffonde morte e desolazione; le trivelle petrolifere non sono molto lontane, né i negozi riempiti di gadget inutili; la presenza della polizia nelle strade pubbliche potrebbe richiedere del tempo (dipenderà dal reddito derivante dall’ecoturismo). La grande e inaspettata differenza rispetto alla profezia di Clastres, però, è che ora sono gli stessi Yanomami che si sono assunti il compito di articolare una critica cosmopolitica della civiltà occidentale, rifiutandosi di contribuire all’“armonia ovunque” con il silenzio dei vinti. L’ampia e minuziosamente impietosa riflessione dello sciamano-filosofo Davi Kopenawa, elaborata in collaborazione intertraduttiva durata più di trent’anni con l’antropologo Bruce Albert, si è finalmente materializzata in un libro apparso nel 2010, La caduta del cielo, che promette di cambiare i termini dell’interlocuzione antropologica con l’Amazzonia indigena. Con questo lavoro, eccezionale da ogni punto di vista, stiamo forse davvero iniziando a passare “dal silenzio al dialogo”; anche se la conversazione può essere solo oscura e sinistra, poiché viviamo in tempi bui. E se c’è luce, essa è dalla parte degli Yanomami, dei loro innumerevoli cristalli brillanti e delle loro legioni risplendenti di minuscoli spiriti che popolano le visioni sciamaniche.

Anacronismo di Clastres, dunque? Intempestività, soprattutto. A volte si ha la sensazione che si dovrebbe leggerlo davvero come se fosse un pensatore presocratico la cui opera, dispersa in frammenti enigmatici, fosse stata appena scoperta. Come se il loro autore ci parlasse non solo di un altro mondo, ma da un altro mondo, usando un linguaggio che sarebbe stato un antenato del nostro, e come se, non essendo più in grado di comprenderlo correttamente, avessimo bisogno di “trascriverlo”, cambiando la distribuzione dei suoi aspetti impliciti ed espliciti, letteralizzando ciò che ha di figurativo e, reciprocamente, procedendo a una riastrazione del suo vocabolario in funzione dei mutamenti della nostra retorica filosofica e politica (oltre che delle nostre conoscenze); reinventando, insomma, il contenuto e lo scopo di questo discorso.

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