Riot

Una nuova epoca di rivolte

Claire Fontaine STRIKE (K. font V.III) 2005 2007 (2000x1500)
Claire Fontaine, STRIKE (K. font V.III) 2005/2007.

Nella collana « Culture radicali» (a cura del Gruppo Ippolita) delle edizioni Meltemi, è appena uscito il saggio «Riot Sciopero Riot. Una nuova epoca di rivolte» di Joshua Clover  (traduzione di Lorenzo Mari e postfazione di Into the Black Box). Secondo l’autore  la lotta del popolo contro lo stato è scesa in strada inaugurando una nuova epoca di rivolte. Queste sono state la principale forma di protesta nel XVII e XVIII secolo. Soppiantate dagli scioperi all’inizio del XIX secolo, sono prepotentemente tornate alla ribalta a partire dalla crisi economica globale del 1973. Il libro sarà presentato mercoledì 19 aprile alle 19.00 al CSOA Forte Prenestino (via Federico Delpino, Roma), con il Gruppo Ippolita e il Duka. Qui ne anticipiamo un estratto per i nostri lettori, ringraziando l’editore, l’autore e i curatori per la disponibilità.

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I riot stanno arrivando, alcuni sono già qui e altri sono in preparazione. Non c’è dubbio. Ci vuole una teoria adeguata. Una teoria del riot è una teoria della crisi. Questo è vero, in una dimensione locale e specifica, nel momento in cui i vetri vanno in frantumi e scoppiano gli incendi, quando il riot significa l’irruzione sulla scena, per la durata di poche ore o pochi giorni, di una situazione disperata, di un impoverimento estremo, della crisi di una certa comunità o amministrazione cittadina. Tuttavia, il riot può essere compreso soltanto se lo si considera dotato di valenze interne e strutturali e, per parafrasare Frantz Fanon, nella misura in cui possiamo discernere il movimento storico che gli dà forma e contenuto. A quel punto, ci si deve spostare su altri livelli nei quali la chiamata a raccolta tipica dei riot risulta inscindibile dall’attuale crisi sistemica del capitalismo. Inoltre, in quanto forma particolare di lotta, il riot è illuminante rispetto alla fisionomia della crisi, la rende nuovamente pensabile, e fornisce una prospettiva dalla quale osservarne lo sviluppo.

La prima relazione tra riot e crisi è quella del sovrappiù. E questo può sembrare subito un paradosso, visto che tanto la crisi quanto i riot sono comunemente intesi come prodotti della scarsità, del deficit e della deprivazione. Allo stesso tempo il riot è già di per sé un’esperienza del sovrappiù. Un sovrappiù di pericolo, di informazione, e di forza militare. Un sovrappiù di emozione. In passato, in effetti, i riot hanno ricevuto la definizione di “moti”, una storia ancora visibile nella parola francese émeute. Nel bel mezzo di un riot, il sovrappiù cruciale è, banalmente, quello di chi vi partecipa, della sua popolazione. Il momento in cui quest’ultima eccede la capacità gestionale della polizia, e quando i poliziotti battono per la prima volta in ritirata, è il momento in cui il riot diventa in tutto e per tutto quel che è, svincolandosi dalla continuità a tinte fosche della vita quotidiana. L’incessante regolazione sociale che aveva assunto sembianze di ideologia, ambiente e astrazione si rivela, in questo momento del sovrappiù, come una questione pratica, aperta alla contestazione sociale.

Tutti questi sovrappiù corrispondono a trasformazioni so ciali più ampie rispetto alle quali le esperienze di un sovrappiù affettivo e pratico sono inscindibili. Queste trasformazioni sono le ristrutturazioni materiali che rispondono a una crisi del capitalismo e al tempo stesso la costituiscono, avendo come caratteristiche fondamentali tanto il sovrappiù di capitale quanto quello demografico. E sono proprio queste trasformazioni a suggerire il riot come forma necessaria per la lotta.

“Ogni popolazione ha un repertorio limitato di azioni collettive”, sottolinea Charles Tilly, uno storico che ha analizzato in profondità tali questioni. In uno scritto del 1983, Tilly inizia a concepire una singola macro-trasformazione storica, un mutamento di dimensioni oceaniche le cui onde, prima o poi, si sarebbero espanse in tutto il mondo industrializzato:

A un certo punto del XIX secolo, le popolazioni della maggior parte delle nazioni occidentali abbandonarono il repertorio di azioni collettive utilizzato nei due secoli precedenti per adottare il repertorio che è in uso ancora oggi1.

Il cambiamento in questione portava dal riot allo sciopero. A partire dal passaggio storico sottolineato da Tilly, entrambe le tattiche hanno convissuto all’interno del medesimo repertorio; ci si può chiedere, allora, quale sia dominante, quale, in altre parole, possa fornire l’orientamento principale nella lotta senza quartiere per la sopravvivenza e per l’emancipazione. All’interno di questa interpretazione, parlare del carattere regressivo del riot è diventato un luogo comune. L’incipit dell’autorevole volume Rioting in America (1996) ci dà questa informazione: “I riot sono parte del passato degli Stati Uniti”2. Il passato, però, non muore mai. Non è mai nemmeno passato.

In realtà, si è andato attestando un altro tipo di processo: a partire dagli anni Sessanta o Settanta, la grande trasformazione storica ha invertito il suo corso. Non appena le nazioni sovrasviluppate sono entrate in una crisi prolungata, per quanto ineguale, nel repertorio delle azioni collettive è tornata a prevalere la tattica del riot. Ciò è vero sia nell’immaginario popolare sia guardando ai dati (nella misura in cui questi ultimi possono dare adito a una comparazione statistica). A prescindere dalla prospettiva di volta in volta adottata, i riot hanno assunto una granitica centralità sociale. Le lotte del lavoro sono state in buona misura ridotte allo stato di sbrindellate azioni difensive, mentre il riot si propone sempre di più come la figura centrale dell’antagonismo politico, uno spettro che si insinua ora nei dibattiti di matrice insurrezionalista, ora negli ansiosi report governativi, ora sulle copertine patinate delle riviste. I nomi dei luoghi sono diventati punti cardinali della nostra epoca. La nuova era dei riot ha le proprie radici a Watts, Newark e Detroit; passa attraverso Tienanmen Square 1989 e Los Angeles 1992, arrivando, nel presente globale, a São Paulo, Gezi Park e San Lázaro. Il riot si configura come protorivoluzionario in piazza Tahrir, a Exarcheia è quasi permanente, con Euromaidan ha un orientamento reazionario. In una luce più sfumata: Clichy-sous-Bois, Tottenham, Oakland, Ferguson, Baltimora. Troppi, per poterli ricordare tutti.

La teoria è immanente alla lotta; spesso quest’ultima le imprime una certa sollecitudine, se si vuole stare al passo con una realtà che continua ad avanzare. Una teoria del presente può nascere dall’esperienza diretta dei conflitti, invece di presentarsi sulla scena con un fardello di prediche e di prescrizioni fornite in anticipo su come dev’essere combattuta la guerra contro lo stato e il capitale, e di programmi dei quali ci viene detto che un tempo funzionavano e che potrebbero di nuovo essere validi in questa fase, che è piuttosto diversa, se solo ricevessero una mano di bianco. Il congiuntivo è un modo verbale adorabile, ma non è il modo del materialismo storico.

A questo punto arriviamo a una sorta di crocevia. Per metterla nel modo più schematico possibile, l’associazione del quadro analitico fornito da Marx con l’approccio leninista alla strategia politica – basata sull’organizzazione del proletariato in vista della costruzione del partito rivoluzionario e la presa del potere tanto sullo stato quanto sulla produzione – è profondamente sedimentata. In questo quadro concettuale non c’è alcun posto per il riot. Accade di frequente che lo si consideri privo di qualsiasi aggancio con la politica, un’irruzione estemporanea adatta per una lettura sintomatica e per un pizzico di empatia paternalista. In genere, chi accorda al riot un potenziale di sbocco insurrezionale verso una rottura sociale proviene da tradizioni intellettuali e politiche indifferenti, o anche avverse, al controllo dello stato e dell’economia, come lo sono notoriamente (ma non in modo esclusivo) alcune correnti dell’anarchismo3.

Ciò rende evidente una sotterranea connessione del comunismo, tanto per gli scettici quanto per gli adepti, con l’“organizzazione” in quanto tale, e più ancora con un par­tito dell’ordine posizionato a sinistra, con un’interpretazione scientifica del progresso storico, con una modernità che occorre attraversare in tutta la sua sofisticata barbarie. Al contrario, il riot, come ampiamente condiviso anche dai suoi sostenitori, è un gigantesco disordine.

L’opposizione tra sciopero e riot si configura dunque, attraverso un sillogismo indiretto, come l’opposizione del marxismo tout court con altre traiettorie intellettuali e politiche, in genere antidialettiche, se non anche apertamente anticomuniste. Si tratta di una divisione che ha riguardato la maggioranza, forse anche la totalità, delle posizioni esistenti. Non sono sicuramente mancati libri, da sinistra come da destra, che ci informassero, con accenti talora melancolici, talora celebrativi, di come il declino del movimento operaio e della sequenza classe rivoluzionaria/partito di massa, o anche la presunta trascendenza di ogni teoria del lavoro socialmente necessario, ci consentisse finalmente di relegare l’analisi di Marx e le sue categorie al XX secolo, se non anche al XIX secolo. Le nazioni in cui è nato il capitalismo, si prosegue, non hanno più una classe operaia industriale che manifesti una forza insurrezionale o una grandezza tale da potersi presentare come una frazione rappresentativa di tutte le classi oppresse e, men che meno, da poter mettere le mani sulle leve della produzione. Inoltre, l’originaria attenzione verso l’operaio inglese, e l’analisi del suo lavoro come particolarmente produttivo e quindi più vicino al cuore del capitale, ha avuto l’inevitabile conseguenza di configurare il soggetto della politica come maschio e bianco. Se si tiene conto della globalizzazione del capitale, della sua diffusione in ogni angolo della vita sociale, e degli sviluppi di fondamentale importanza nell’ambito della politica anticoloniale (per riassumere così una serie di interventi complessi e di cruciale importanza), ci sarà bisogno di un nuovo soggetto, nonché di un nuovo processo, rivoluzionario.

Senza dubbio, quest’ultima affermazione contiene una semplificazione caricaturale; tuttavia, questi suggerimenti sono istruttivi, quando non semplicemente veri, e da molti punti di vista. Ciò non deve portare a una confutazione del materialismo storico, bensì aiuta a porre una serie di problemi che lo riguardano. Il declino dei tradizionali movimenti de* lavorator* in occidente e l’intensificazione di un processo predatorio sempre più esteso non preludono alla fine né dell’antagonismo anticapitalista potenzialmente rivoluzionario né della forza analitica del materialismo storico. Anzi, della seconda avremo ancora bisogno per meglio comprendere il primo.

Dopotutto, se lo si può identificare con qualcosa, il materialismo storico è una teoria della trasformazione. Ciò non vuol dire che debba essere sottolineato ogni singolo cambiamento sulla scena della storia, ma un marxismo che riesce a concepire la tendenza della realtà soltanto come errore non è affatto marxismo. A essere enormemente cambiato è il significato del riot. Non può essere compreso senza citare le determinazioni e le forze in base alle quali ha acquisito il suo nuovo ruolo e dalle quali è irresistibilmente sospinto verso il futuro, per quanto, allo stesso tempo, guardi sempre all’indietro, verso il XVII e il XVIII secolo. Questa è dunque la necessità di fondo: una teorizzazione pienamente materialista del riot. Un riot per comunisti, per così dire.

Non è chiaro se esista già un libro del genere. L’approccio più vicino è forse quello di Alain Badiou nel Risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali. “Anch’io sono marxista, in buona fede, pienamente e in un modo così naturale che non è il caso di ripeterlo”, insiste Badiou in numerose occasioni, aggiungendo:

Credo di conoscere bene sia i problemi che sono stati già risolti e che non serve a nulla ricominciare a studiare sia i problemi che rimangono in sospeso ed esigono riflessione ed esperienza, sia ancora i problemi che sono stati affrontati male e che ci impongono radicali rettifiche e faticose reinvenzioni. Tutte le conoscenze vive sono composte da problemi che sono stati o devono essere costruiti o ricostruiti, e non da descrizioni ripetitive4.

Tali presupposti non costringono Badiou a ingaggiare un corpo a corpo con le problematiche del capitale, né a fare un grande uso delle categorie lasciate in eredità dalla critica dell’economia politica. Ci ritroviamo con “l’Idea” che fa le veci del partito, fornendo un’articolazione allo spirito rivoluzionario che procede sempre a una certa distanza dagli sviluppi dialettici che restano in capo alle forze sociali.

Il libro di Badiou è organizzato come una tassonomia dei riot che mette al centro le primavere arabe. Categorizzare i riot in base allo statuto politico, all’occasione o alla causa più immediata, o alla coesione dei partecipanti è soltanto uno dei vari approcci di scuola, tra loro sovrapposti, a questo tipo di studi. Un altro è l’analisi sociologica dei partecipanti al riot e delle loro condizioni materiali, nonché il suo cugino di primo grado, l’approccio fenomenologico (spesso condotto in prima persona). Poi ci sono le analisi di alcuni casi di studio specifici, legati a riot poi diventati famosi, accanto a ricerche e mappature meno glamour. Quali che siano le sue lacune, la biblioteca del riot è immensa e oscura; qui se ne potrà dare conto soltanto in modo parziale. Lo scopo di questo libro è di mantenere altre promesse: cerca di tenere insieme la teoria del valore di Marx e la teoria della crisi dalla quale la prima non può essere disgiunta, i racconti di come i grandi centri urbani si stiano svuotando, di come interi settori economici vadano incontro alla loro ascesa e poi al loro declino, e di come il sistema-mondo capitalista abbia un proprio ordine e un proprio disordine; la tradizione analitica in tema di sistema-modo fornisce un quadro interpretativo dotato di ampiezza globale e di longue durée entro il quale occorre pensare l’evento localizzato del riot.

Una simile ampiezza di sguardo va incontro, necessariamente, ad alcuni limiti. È evidente che i riot in India o in Cina, per citare soltanto due fra gli esempi contemporanei, hanno caratteristiche specifiche (nonché una loro specifica tradizione di ricerca, in corso di sviluppo). Le mie argomentazioni riguarderanno soprattutto le nazioni dell’occidente che per prime hanno conosciuto il processo di industrializzazione e che ora sperimentano la deindustrializzazione. Queste nazioni non possono rivendicare alcun privilegio rispetto alla storia del riot; sono, piuttosto, il terreno in cui diventa visibile una particolare logica, che è tanto del riot quanto del capitale, nel suo catastrofico autunno. Spero comunque che le mie argomentazioni siano in qualche modo funzionali all’intero scenario, essendo incluse all’interno di cambiamenti politico-economici che sono parimenti destinati a estendersi.

Inoltre, poiché la nuova era dei riot esprime le trasformazioni globali del capitale, subendone, quindi, le condizioni oggettive, essa diventa un’occasione per approfondire lo sguardo su tali trasformazioni. Se questo libro può effettivamente apportare qualche novità, esse riguarderanno i seguenti punti. Primo, un chiarimento rispetto alle definizioni di riot e di sciopero, in merito alle quali vige più confusione di quanto si potrebbe sospettare. Secondo, una spiegazione dei motivi del ritorno del riot e della forma che esso assume nel presente. Terzo, una volta ricavata la logica del riot in relazione con le trasformazioni del capitale, alcune previsioni sul futuro della lotta. Una teoria del tempo presente, dunque. L’obiettivo minimo è di spiegare perché, in seguito al tentativo fallito di mettere in stato d’accusa il poliziotto che ha ucciso Michael Brown a Ferguson, Missouri, ci sia stata un’ondata nazionale di riot, e perché, per una sorta di telepatia all’interno di una popolazione depauperata, i riot che si sono propagati da città a città si siano orientati verso il blocco delle più vicine autostrade.

Note

Note
1C. Tilly, Speaking Your Mind Without Elections, Surveys, or Social Move­ments, in “The Public Opinion Quarterly”, vol. XLVII, n. 4, 1983, p. 464.
2P. Gilje, Rioting in America, Indiana University Press, 1999, p. 1.
3Il Comité Invisible ne ha fornito una delle versioni più incisive nei testi, cfr. Comité Invisible, L’insurrection qui vient, La Fabrique, 2007; À nos amis, La Fabrique, 2014; Maintenant, La Fabrique, 2017; tr. it. di M. Tarì, L’insurrezione che viene – Ai nostri amici – Adesso, NOT, 2019.
4A. Badiou, Le réveil de l’histoire, Nouvelles Éditions Ligne, 2011; tr. it. di L. Toni, M. Zaffarano, Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali, Ponte alle Grazie, 2012, p. 14.

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